logica temporale-causale, egli si costruisce una salvifica teleologia. Si può pensare che responsabile ne sia la ~rittura narrativa fondata sull'errore denunciato dagli scolastici con la formula «post hoc ergo propter hoc,.; ciò non toglie che il soggetto, narrandosi, metta in luce sl la necessità del suo essere quello che è, ma orientandola teleologicamente in modo da farsene un merito. La sua clibertà» ha bisogno di uno sfondo di necessità su cui stagliarsi. Non l'amor fati muove il soggetto a rappresentarsi come il prodotto di fattori tra cui il sociale è tuttora quello di maggior spicco, bensì «l'ansia del voler scegliere,. (ivi), di cui l'ansia del «voler essere stato,. non è che il corollario. Il concetto sartriano di libertà (quel che l'uomo fa di ciò che hanno fatto di lui), di cui la vicenda di Genet è stata per sua parte ispiratrice, si palesa come una manovra retroattiva del soggetto .. Se l'autobiografia è «una scelta di immagini con cui io, ora, al tavolino costruisco me stesso, e rappresento me stesso alla fine, vale a dire dopo consunta la festa, interpretando a ritroso un passato ineffabilmente probabile,. (ivi), come distinguere l'autobiografia vera e propria da quella fittizia? Non appena si pone l'accento sulla costruzione del sé vissuto, la distinzione perde d'evidenza ma anche di senso. Elevarla a dignità teorica - come tenta di fare Lejeune nel Pacte autobiographique - è uno spreco semiologico. Nell'autobiografia l'atto dell'enunciazione orienta nella sua prospettiva presente il passato vissuto, creandolo come qualcosa di fittizio. L'identificazione del soggetto tramite la parola su di sé non può essere che una costruzione letteraria. Ma Lejeune non è cosi ingenuo da cercare nell'esistenza del sé vissuto, prima e fuori della parola che lo enuncia, il termine di realtà inglobato dall'autobiografia e capace di distinguerla dal romanzo autobiografico. L'identità di narratore e personaggio segnata dal pronome di prima persona («segno vuoto, non referenziale>, come lo definisce Benveniste, che non significa Jane Austen Amore e amicizia introd. di Ginevra Bompiani Milano, La Tartaruga, 1979 pp. 165, lire 4.000 Charlotte, Emily e Anne Bronte Lettere a cura di Barbara Lanati Torino, Edizioni La Rosa, 1979 pp. 131, lire 5.200 Virginia Woolf, Lytton Strachey Letters London. The Hogarth Press Chatto and Windus. 1956 Virginia Woolf Le cose che accadono Lettere 1912-1922 a cura di Nigel Nicolson e Joanne Trautmann Torino. Einaudi. 1980 pp. 777. lire 28.000 Lytton Strachey Ennyntrude e Esmeralda Milano, Sugar, 1970 Sylvia Plath Lettere alla madre a cura di Marta Fabiani Milano, Guanda, 1979 pp. 528, lire 9.500 altro se non «la persona che enuncia l'attuale discorso contenente la situazione linguistica io») è un'identità vuota che pone a suo volta al soggetto un problema d'identità. lo rinvia all'enunciazione, ma questa non è il termine ultimo della referenza. Come nel romanzo autobiografico, cosi anche nell'autobiografia l'identità del soggetto dell'enuciato con il soggetto dell'enunciazione non ingloba nessun termine di realtà ed è un'asserzione come un'altra cui si può credere e non credere. E che ci si creda è pura convenzione. Per Lejeune i!termine di realtà va dunque ricercato altrove, in un elemento allo stesso tempo testuale e referenziale - il nome dell'autore. L'identità di narratore e autore segnata dal nome proprio non è un'identità vuota. Questa referenza è indubitabile - così almeno ci assicura Lejeune - dato che si fonda su due istituzioni sociali: lo stato civile e il contratto editoriale. Pur non comportando altro incomodo se non una lettura del frontespizio e, talvolta, una piccola indagine anagrafica, la ricerca di questo termine ultimo di referenza può presentare però difficoltà che Lejeune non sembra aver previsto. Come regolarsi nel caso di edizioni pirata, o di falsi editoriali - fenomeno della nostra epoca su cui i semiologi si sono già cimentati - che attribuissero, mettiamo, a Simon de Beauvoir un testo autobiografico che invece Simon de Beauvoir questa volta - difficile a credersi ma possibile - non avesse scritto? A parte questi inconvenienti, una ragione c'è che spinge Lejeune a considerare l'autobiografia in relazione al nome proprio. Egli nota l'impossibile coesistenza di vocazione autobiografica e di passione per l'anonimato; solo il nome proprio permette al soggetto di non perdersi nell'anonimato, pur facendo uso del pronome di prima persona. La convenzione su cui quest'uso si basa (colui che parla oggi è Io stesso di colui che agi ieri), valida per l'interlocutore, è infatti debole per colui che parla: egli vi esperisce l'alienazione da sé nella parola. Si capisce allora il motivo per cui Lejeune tien fermo alla distinzione tra autobiografia e autobiografia fittizia. Pur consentendo al carattere fittizio del sé vissuto, e allontanandosi quindi dal senso comune (che non ha mai trovato la distinzione troppo problematica), Lejeune ne rafforza un altro, più recente, sorto in concomitanza con il rinnovato interesse che semiologi, psicoanalisti e filosofi hanno rivolto al genere autobiografico: e cioè che il soggetto, alienandosi in una enunciazione in cui compare allo stesso tempo come soggetto dell'enunciato, e toccando così con mano l'incertezza della propria identità, ne sia in qualche modo destabilizzato. L'ultimo contributo di Lejeune, le est un autre (significativo il titolo così· connotato di subversion du sujet ), rende ancor più esplicito il filo conduttore della sua riflessione sull'autobiografia. La parola su di sé, così come la formula di Rimbaud, «refait bru.squement de la première personne un pur signifiant (je), et enfonce un coin dans le mythe du sujet plein». Lejeune presume quindi che solo il soggetto reale che scrive una vera autobiografia possa por!are nel suo testo l'esperienza conturbante della sfasatura tra soggetto dell'enunciato e soggetto dell'enunciazione - una zona franca dunque, quest'esperienza, in cui la finzione non riesce a incunearsi. Non solo; postula anche un soggetto «reale», vale a dire esistente prima e fuori della parola su di sé. E soprattutto esclude che questa esperienza conturbante possa essere salutare per il soggetto. «E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi». Di questa scoperta Zeno vegliardo si compiace, dopo aver ritrovato e riletto quelle pagine autobiografiche da lui scritte in passato e che per noi formano La coscienza di Zeno. L'autobiografo selvaggio si fa beffa del dramma che a partire da Agostino affligge l'io autobiografico: della problematica identità tra l'io che parla e l'io di cui si parla, del fatto che il secondo gli sfugga proprio mentre cerca di coglierlo nella scrittura, di tutto questo egli non si cura. La potenza della parola su di sé, che rimuove il sé vissuto per sostituirgli una creazione fittizia, è la potenza stessa del soggetto. Nei due diversi modi di considerare l'autobiografia si scontrano due diverse teorie della soggettività (a proposito di questa distinzione cfr. Genovese, Dell'ideologia inconsapevole, Napoli, Liguori, 1979). E il momento distintivo non è tanto il carattere fittizio del sé autobiografico, bensì il suo essere legato a una pratica di costituzione e di rafforzamento per il soggetto. A nche Renza considera l'autobiografia un'impresa alienante («verbalmente entropica») per il soggetto; e anche per la sua teoria della scrittura autobiografica presupposto necessario è il tener fermo alla distinzione tra autobiografia vera e propria e autobiografia fittizia. «Esponendo la discrepanza tra il passato vissuto e la sua presente significazione di esso, la scrittura autobiografica esplicita una consapevolezza di sé che trascende la parola ed è perciò senza immagini» (The Veto of lmagination ). Poiché la temporalità del discorso si organizza in rapporto al presente dell'enunciazione, quel che la scrittura autobiografica esprime altro non è - come affermava Agostino - che il presente del passato, mentre il passato puro (il passato vissuto, cioè, come lo Il gener,~le,,t"tera e onsiderata da sempre documento scoperto e sincero, luogo eletto di silenziose confessioni, altare inespugnabile su cui la verità si fa Verbo, e ilVerbo scrittura, la Lettera ha assolto per secoli questa sua funzione. S'è fatta sigillo delle parole altrui ripiegandosi fino a richiudersi su sé stessa; e assecondando docilmente la mano che la nascondeva - spesso con altre lettere chiamate a complice raccolta - nella sicura oscurità di un cassetto segreto. Per secoli, le raccolte di lettere sono raramente affiorate alla luce del sole, e solo attraverso il loro esser preda di occhi improvvisamente curiosi, attraverso il loro divenire scandalo rivelatore o postumo ravvedimento e rimorso; o grazie alla casuale fortuna di superficiali scopritori. Il «carteggio» passava in genere dallo scrigno alle fiamme, quando l'Autore sentiva appressarsil'ombra della morte. La sua «verità», ineffabile, doveva spegnersi con lui. Ma era poi «verità», il contenuto di quelle pagine fitte di segni? Oggi che le lettere non «muoiono,. più, anzi risorgono, trascinandone alla luce altre sopravvissute ad altri roghi, remoti o recenti, esse ci stupiscono, e contraddicono il loro stesso mito. Il luogo mistico della verità inoppugnabile si fa contraddizione, menzogna, nascondimento, beffa palese ai danni di un lettore attonito e sorpreso. La Lettera mente, e, attraverso que_- sta, il suo Autore. La Lettera crea un fatuo gioco d'inganni; è verisimile ma non veritiera. Ecco cosa traspare dagli innumerevoli carteggi che negli ultimi anni, fino ad oggi, ci hanno offerto e continuano ad offrirci squarci sempre più frequenti e significativi della vita privata - o retroscena della vita pubblica - di personaggi vecchi e nuovi, illustri o sconosciuti. Ma se la Lettera sembra dunque deludere sul piano della sua attendibilità, non per questo attira di meno; si moltiplicano anzi i lettori, e si moltiplicano le edizioni di nuovi carteggi o la ristampa di vecchie raccolte. Il cacciatore di lettere si fa astuto, rovista nei cassetti, fruga negli archivi, nelle biblioteche, fra le carte degli eredi, per lanciare al lettore una nuova preda. E il lettore, avidamente, se ne nutre, cogliendo nella Lettera tutto l'incanto di un nuovo codice fabulatorio, gustandone tutto l'intento volutamente fictional; attirato persino dalla più comoda frammentazione che la Lettera sembra offrire, di per sé, ai lettori avidi come lui, eternamente impazienti di fronte alla tirannica lunghezza della vecchia unità di misura: il Capitolo. Il lettore si porta, con intuizione felice, in quella regione in cui la Lettera confonde i propri confini con quelli del romanzo epistolare per poi tuttavia staccarsene,masolodopounpirandelliano scambio delle parti: attraverso di esso la Lettera scivola nella fiction, nell'ingannevole gioco degli sp·ecchi,e il romanzo epistolare diventa invece specchio di verità: Ma perché il lettore ha indovinato e messo a nudo le regole del gioco? E perché, se è vero, la Lettera mente, e il romanzo epistolare no? Perché nel processo di disvelamento pubblico del definisce Renza, la «passatità») resta al di là della sua significazione presen- • te. Per l'io autobiografico la percezione dell'impossibile identità tra l'io che parla e il sé personaggio appare in effetti come una conseguenza del fatto che il soggetto dura nel tempo e che esiste per lui un passato che sfugge alla parola su di sé. Ma questo è quel che il soggetto autobiografico ci fa credere; e il teorico, a quanto pare, lo prende sul serio. L'oggettivazione dell'io in un personaggio di finzione ha un bell'essere esperienza alienante, per il soggetto rappresenta nondimeno la sua salute. L'impossibilità di cogliere nella scrittura il sé vissuto produce il fantasma di un io che non parla e di cui non si può parlare perché trascende ogni espressione linguistica. E questo fantasma non è che una risorsa del soggetto che non può pensarsi come qualcosa di prodotto dalla parola, attraverso il suo atto di parola su di sé. Fantasma che non è semplicemente un'illusione: esso è necessario al soggetto dato che è, più precisamente, ciò che lo fonda autobiograficamente. Nell'autobiografia fittizia di Zeno questo errore necessario del soggetto è messo in scena e il fantasma dell'io extradiscorsivo diventa una parodia di se stesso. L'attesa dell'epifania di quella parte di sé che gli sfugge si fa comica. Zeno non fa che ripetere: «ricordo tutto ma non intendo niente», n'ladi fatto egli ricorda solo ciò che ha identificato per mezzo della parola su di sé, e quindi quel che ha ben compreso. L'affermazione gli serve tuttavia come attestazione della sua esistenza al di là del discorso di cui è allo stesso tempo produttore e prodotto, anche a costo di far coincidere questa parte ineffabile del soggetto con l'inconscio. Per Zeno, come per il nuovo soggetto autobiografico sempre più affascinato dal «male oscuro», l'inconscio è l'ultima finzione in cui il fantasma del sé anteriore alla parola che lo enuncia ironicamente si ritira. Il «je est un autre» ha perso tutta la sua tragicità per il soggetto che, dal sentirsi decentrato, ci guadagna. proprio sei/ - qual'è quello scatenato· da ogni Lettera - l'Autore non sa, non può sfuggire al fatale gioco del nascondimento, all'impossibilità e all'inconscio rifiuto di dire interamente se stessi. Solo il Diario, forse, in quanto documento privato, messaggio destinato unicamente al proprio alter-ego, al doppio dello specchio, solo il Diario, forse, è il luogo inaccessibile di un monologo veritiero. La Lettera no. Ha già un testimone - il destinatario - la cui figura potrebbe diabolicamente moltiplicarsi in quella di altri lettori indiscreti. Il sei/, scoperto, si sentirebbe perduto. Il monologo veritiero diventa allora dialogo ambiguo, messaggio cifrato, spesso fuorviante e menzognero. Impossibile, allora, «imbucare la vèrità»? Sì, ma a condizione che diventando veritiero il polo del Prodotto- la Lettera - si abbia cura di velare il polo opposto: il Produttore.Ciò che l'Autore non disvela nelle sue lettere, può rivelarlo dunque nel romanzo epistolare, nella cui presunta finzione egli può trovare astuto riparo; scavandosi una nicchia dentro il sei/ dei propri personaggi, l'Autore può velarsi, nascondersi: può dire senza ferire, può rivelare senza consegnarsi interamente all'altro. Ciò che Jane Austen pare non ci
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