Alfabeta - anno III - n. 23 - aprile 1981

macchina, in sostanza, dice «io ti guardo guardarmi». L'«io» che sta parlando, tuttavia, può essere tanto un «io narrato» quanto un «io narrante». In pittura, la distinzione non è così evidente come in letteratura, dove si può fingere un «io» che non coincide con il narratore. In pittura c'è almeno un caso in cui si può dare una situazione di sovrapposizione fra i due. È il quadro prodotto con una posa, dove il soggetto, pur non essendo colui che materialmente dispone le pennellate sulla tela, tuttavia in qualche modo si autoritratta, perché prende responsabilità della propria posa, e tratta il pittqre esattamente come spettatore e allo stesso tempo come puro mezzo tecnico di trascrizione. • Mi sembra che questa situazione sia stata molto bene esplicitata da Maria Mulas, che nei suoi recenti autoritratti di personaggi della cultura contemporanea ha attribuito l'attività linguistica ai soggetti fotografati e non a lei stessa come fotografa. O gni ritratto, in sostanza, può essere un autoritratto (e del resto gli psicanalisti hanno saccheggiato in abbondanza questo tema sosteiPendo per l'appunto che l'artista ritragga sempre un altro se stesso). E inversamente ogni autoritratto è un ritratto di qualcuno oggettivato in uno spazio figurativo-narrativo. Non sempre è facile distinguere fra i due, soprattutto se il pittore si diverte a giocare sulla decisione riguardante chi veramente prende la parola. Si possono avere autoritratti in cui la rappresentazione di sé finge la rappresentazione di un altro da sé (si pensi agli autoritratti di Diirer, in cui l'effigie del pittore riempie un personaggio storico e ne recita la parte, ad esempio quella di Cristo, o di San Giovanni Battista) e ci sono invece ritratti in cui, come ho detto, il ritrattato si rivolge alla macchina rappresentativa come se .fosse lui stesso il produttore della propria immagine. Se questo però è il gioco, ci devono anche essere delle regole di partenza (o quanto meno delle regole di base presupposte) che ci possano dare una situazione-tipo dell'autoritratto. A mio parere c'è una regola che può essere definita organicamente come autoritrattistica. Facciamo un passo indietro, e riflettiamo sul modo con cui il Rinascimento intende la superficie di un dipinto. La tela, o la tavola, o il muro dell'affresco sono considerati come uno~pecchio su cui è riflessa l'immagine ~la realtà, e il pittore non fa altro che «m'ì are» questa superficie specchiante. ''mmagine, però, non è un diretto rispe -chiamento del reale, bensì il rispecc ~ento di un'altra immagine rispeccììi~--~e chiamiamo R il reale, S il prin:'.~-~ chio e Q il quadro, il percorso che porta all'immagine dipinta va dunque da Ra Q attraverso S. Il pittore riproduce uno specchio guardando uno specchio. Si tratta, precisiamolo subito, di una legge assai rigorosamente teorizzata e seguita, dall' Alberti in poi. Se ne può pertanto dedurre che se il pittore vuole attenersi fedelmente alla regola produttiva generale deve per forza fingersi in una posizione tale che: a) egli si guardi in uno specchio S (altrimenti non potrebbe copiare su Q la riflessione di S); lo specchio S lo rifletta ma sia collocato in una posizione tale che Q lo possa riflettere, e dunque, non parallelo a Q ma secondo una almeno minima angolazione. Ne consegue pertanto che il pittore che si autoritrae debba per necessità assumere una posa di questo genere: uno sguardo in macchina, che è il solo che manifesti un «guardarsi guardare»; una torsione del collo rispetto al busto, che è la sola che renda conto topologicamente della doppia specularità. 'aturalmente. si tratta di una «regola» per modo di dire. Statisticamente. infatti. il numero di autoritratti definiti dalla leggera torsione del collo non è altissimo. E. ciononostante. si tratta di una regola che ci consente di spiegare ogni forma di autoritratto come gioco di variazioni e cita_zioniche partono da quella prima necessità strategica di aderire alla legge della prospettiva e alla legge dello specchio. citandole, negandole, discutendole, mettendole fra parentesi. Il caso più evidente della nascita di simili giochi sta a mio parere in uno splendido autoritratto citato da Germaine Greer nell'ottimo volume Le re/edi Penelope. Si tratta dell'autoritratto di Sofonisba Augnissola. Autoritratto molto particolare. però: vi si rappresenta il pittore Crespi in atto di ritrarre la pittrice su una tela. Crespi ci guarda (e guarda dunque la Sofonisba assente) e la ritrae sulla tela. Dunque: mima uno specchio che riflette l'immagine riflessa di Sofonisba. Ma Sofonisba ritrae la scena: dunque anche lei mima uno_specchio che riflette l'immagine riflessa della scena. Siamo alla vertigine. vertigine di un'immagine che si fonda su di una quadruplice riflessione. «Io mi guardo mentre mi guardo guardare». A questo punto, possiamo tentare un primo bilancio di queste ancor sommarie riflessioni. A mio parere l'autoritratto costruisce il proprio senso (che a questo punto non è più soltanto quello di designare il nome proprio del proprio autore) giocando su due distinti livelli, quello dell'enunciato e quello dell'enunciazione. A livello di enunciato il quadro costruisce una sorta di albero fatto di una successione di disgiunzioni esclusive, sul quale siamo portati ad arrampicarci mediante una disseminazione di indizi. A livello di enunciazione, il quadro esprime invece un complesso gioco di ammiccamenti, di detto e non detto, di cancellazioni e di negazioni nei confronti del proprio pubblico. È la vittoria insomma del nostro Maestro di Francoforte sul filologo che vorrebbe dargli un nome più preciso. È la vittoria della riflessione dell'artista sul proprio stesso linguaggio. È la vittoria di Michelangelo, che alle critiche sulla poca somiglianza del ritratto di Giuliano de' Medici nella Cappella dei Pazzi rispetto al ritrattato, rispondeva che fra duemila anni nessuno se ne sarebbe accorto. Il pattoa~.'6!biografico Louis A. Renza «The Veto of Imagination. A Theory of Autobiographp, in New Literary History, Autunno 1977 Philippe Lejeune Le pacte autobiographique Paris, Seui!, 1975 Philippe Lejeune Je est un autre. L'autobiographie, de la littérature aux médias Paris, Seui!, 1980 Carlo Emilio Gadda «li faut d'abord etre coupable», in I viaggi la morte Milano, Garzanti, I978 (! 958) pp. 247, lire 6.000 Italo Svevo «Le confessioni del vegliardo», in Racconti, saggi, pagine sparse voi. III dell'Opera omnia Milano, Dall'Oglio, 1969 pp. 800, lire 14.000 ,#,I ,L'unica parte importante della '' vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch'io ho tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell'umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l'altra metà avrà annotato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell'umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell'altra tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso» (Le confessioni del vegliardo). La profezia di Zeno riecheggia nelle innumerevoli autobiografie selvagge e nel gran parlar di sé che si fa oggidì, con diletto - si suppone - di chi scrive, e con ingenti guadagni degli editori (le memorie che Nureyev detterà a Mario Pasi per la Sperling & Kupfer son già diventate, prima ancora di essere scritte, un affare di miliardi). Cosa spinge l'autobiografo contemporaneo a parlare di sé? non certo il bisogno di comunicare esperienze esotiche o storie incredibili. L'autobiografismo contemporaneo si iscrive infatti nel deperimento dell'esperienza, ma è proprio da esso che trae la sua forza. Se la «vita non vive» a maggior ragione bisogna scriverla. Il vissuto è inseparabile dalla parola che lo enuncia. Per Benjamin già i nove volumi della Recherche dimostrano quanto sforzo sia necessario per restaurare l'esperienza. Se in Proust «l'arte del prosatore, la verve del satirico, il sapere del dotto e l'ossessione del monomane convergono in un'opera autobiografica», ciò è il risultato di «una sintesi impossibile» (Walter Benjamin, Per un rirrauo di Prousr). Dopo Proust l'autobiografia si fissa come il genere dell'«esperienza defunta, che si definisce, eufemisticamente, esperienza vissuta» (Benjamin, Parco cenrrale), e Zeno, che cataloga il proprio passato come un «morto possesso», ne è l'esempio più sfacciato. Non si tratta della disposizione decadente a far diventare la letteratura vita, bensì, come Zeno ha ben colto dell'opposto- far diventare la vita letteratura. Così l'atrofia dell'esperienza produce l'antidoto alla crisi del romanzo di cui essa Slessa è responsabile: con l'esplosione della scrittura autobiografica il narratore si disfa dell'ingombrante fardello vuoto dell'esperienza comune. Il narratore non annoda più i fili di esperienze molteplici, può raccontare solo se stesso e quindi non racconta ma annora, cioè parla di sé. Donne, omosessuali, sedicenni, tute blu, drogati, carcerati, ex militanti sulla via del misticismo, e fors'anche tra non molto - è possibile pronosticare- terroristi pentiti, propinano ai contemporanei pagine e pagine su di sé. Il narratore, orfano d'esperienza, diventa franco narratore. Ma Zeno, primo autobiografo sei- . vaggio, si prende gioco di ogni fun1ra parola su di sé. Anch'egli, è vero, scrivendosi e riscrivendosi, reagisce all'indebolimento dell'esperienza; il suo tentativo però non è né serio né eroico. Egli aderisce in toto alla parola su di sé, facendone trasparire, con autoironia, la necessità: scrivere di sé è un bisogno vitale per il soggetto, diciamo pure, con le sue parole, una «pratica igienica». L'autobiografia fittizia di Zeno si fa critica immanente dell'autobiografia: la domanda «chi sono io», presupposto, talvolta implicito, talvolta esplicito, comunque irriflesso, della parola su di sé, è tolto alla sua extratestualità e preso nella finzione. Così, insieme alla domanda, viene in primo piano la sua ineludibilità: rispondervi è modalità di costituzione per il soggetto. Vecchia modalità per cui passano anche i «nuovi soggetti». La caratteristica del vissuto di una donna è di poter appartenere a ogni donna: quello su cui il nuovo soggetto si fonda è il fatto di parlarne. Egli non esiste come soggetto prima di essere voce che parla di sé; non ha né storia •né identità prima di aver trovato «le parole per dirlo>. La pratica autobiografica è il prolungamento delle pratiche di autocoscienza con cui ha in comune persino l'identità di emittente e destinatario. Donne annotano storie che donne leggeranno, sedicenni storie che altri sedicenni leggeranno. La profezia di Zeno si è avverata in pieno: i nuovi soggetti si autoscrivono, si autopongono, si autoleggono. Q uesto aspetto dell'autobiografia (pratica di costruzione del sé vissuto e di rafforzamento del sog- •getto) Gadda a suo modo l'aveva colto commentando il Journo/ du voleur di Genet, opera che gli dimostra con chiara evidenza- a lui che considerava il pronome di prima persona come «il più lurido di tutti i pronomi» - I'«esercizio narcissico» che sta in ogni parola su di sé: l'io, «criminale narcisista, pavone delinquente», fa la ruota, si gonfia, si rafforza, si pone nel centro. La tracotanza del soggetto è già nella decisione di scrivere di sé, nell'autoproclamarsi soggetto esemplare che non può non esprimersi. Ad essa il soggetto autobiografico contemporaneo aderisce senza disagio. Il referto in alcun modo risente «d'una qualsivoglia circolazione d'ironia». «Genet non si lascia sconturbare dalle evidenze del grottesco e annota ogni cosa con lucida e secca serietà, in una lingua e in uno stile d'una magrezza impeccabile: e ci edifica sopra, in aggiunta, i severi e mirabolanti castelJi dei problemi etici, espressivi, gnoseologoci... qui l'intriguent à tout moment» (I/ faur d'abord érrecoupable). Che la parola su di sé sia salutare per il soggetto, ch'egli ne guadagni in solidità e narcisimo passi, ma che presenti la propria vicenda come edificante è quel che più resta sullo stomaco a Gadda. Quest'«iniezione d'eroina> è l'effetto inevitabile di ogni scrittura autobiografica irriflessa: «ogni uomo si sente momento espressivo di una dialessi e tende a porre in luce la 'necessità' e quindi il 'merito' della propria posizione> (ivi}; in altre parole il soggetto, per sua costituzione, fa di necessità virtù. Tirando le fila degli avvenimenti passati e organizzandoli secondo una

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