GuardarJi:guardare Enrico Castelnuovo cli significato del ritratto pittorico nella società», in Storia d'Italia. I documenti, voi. 1/2 Torino, Einaudi, 1979, pp. 1-72 Germaine Greer Le tele di Penelope Milano, Bompiani, 1980 pp. 268, lire 35.000 Giuseppe De Logu, Bianca Marinelli D ritratto nella pittura italiana Istituto Italiano di Arti Grafiche, Bergamo, 1976 2 voll. pp. 329+291, lire 100.000 Bilder vom Menschen Preussischen Museen, Berlin 1980 Cf è un quadro tedesco della metà del Quattrocento che non finisce mai di stupirmi. I manuali lo catalogano così: Maestro di Francoforte, Rilratto del['artistacon la moglie. E la sua più recente uscita in pubblico è avvenuta durante la grande esposizione che fra ottobre e dicembre ha festeggiato i centocinquanta anni dei Musei Prussiani di Berlino, fondati da Wilhelm von Humboldt, e che è stata dedicata a Bilder vom Menschen, irnmmagini di uomini. Quel che mi meraviglia nell'opera non è tanto la qualità, peraltro debitrice dei Van Eyck nei colori, nella posa, nel realismo dei volti, a testimonianza di una circolazione del sapere tecnico-artistico a dir poco impressionante per un'epoca cosi lontana. Si tratta piuttosto di un particolare a prima vista poco rilevante, e apparentemente poco concernente il quadro stesso. Intendo quella che a me pare una vistosa contraddizione nel dare un nome e un autore al quadro. L'autore, infatti, viene chiamato «Maestro di Francoforte>, secondo la tipica usanza attribuzionista di costruire i nomi degli autori a partire da un'opera, o dalla località in cui l'opera risiede, o dal luogo in cui si presume che questo «autore» abbia fatto sentire la sua influenza, quando nessuna altra notizia sulla sua vita privata sia disponibile. In realtà, si tratta di un procedimento del tutto convenzionale che poco ha a che fare con un «vero» autore. Il critico non inventa un nome per desiderio di attribuzione ad ogni costo, quanto piuttosto perché quel nome rappresenta una categoria, una classe di temi, o di tecniche, o di aspetti stilistici simili che per convenzione vengono fatti appartenere a qualcuno, anche se al limite questo «qualcuno> non è mai esistito, o non è necessariamente una sola persona. Insomma: il «nome» inventato dal critico attribuzionista non corrìsponde ad un autore empirico, ma designa. piuttosto una strategia tutta interna al quadro, che potremmo chiamare tranquillamente con Eco di Lector in fabula Autore Modello. Nel nostro caso: il Maestro di Francoforte. Ma nel nostro caso, dall'altro, abbiamo un titolo di straordinaria precisione: Ritratto dell'artista con la moglie. E, dunque, immediato, sorge il problema teorico. Come è possibile avere un titolo che designi tanto rigidamente l'opera riferendone il soggetto ad un elemento extratestuale (il vero autore) se nulla sappiamo sul privato e sull'esistenza di questo «vero» autore? Come è possibile definire ad un tempo con una larga generalità l'ignoto pittore e con una stretta particolarità la sua effigie? •• Diciamo subito ctie la risposta più ovvia, «ce lo dicono i documenti», può forse soddisfare lo storico dell'arte, ma non basta sicuramente a chi cerchi nei quadri risposte adeguate agli interrogativi sul loro funzionamento comunicativo. Anche se i documenti fossero affidabili e certi (cosa della quale si può sempre dubitare) la questione rimane esattamente la stessa. Perché l'estensore dell'eventuale documento dovrebbe citare un'opera dicendo che è un autoritratto senza dire di chi è l'autoritratto? E chi avrebbe detto all'estensore del documento che quello è un autoritratto? Dunque, una sola è la conclusione possibile: che, mentre il documento riesce (e non sempre) a dirci qualcosa sulla storia esterna del quadro (autore, committenza, fortuna critica, storia delle sue collocazioni, eccetera), è il quadro stesso a dirci qualcosa - se non tutto - sulla propria storia interna. E questo anche quando apparentemente, come nel nostro caso, il problema della determinazione di un autore e di un titolo ha a che fare con un referente del mondo naturale. L'opera, insomma, reca da sola le tracce della propria produzione, della propria interpretazione, o, se vogliamo dirla con Cézanne, della propria verità. M a ritorniamo al nostro autoritratto. Cosa ci dice, in questo come in altri autoritratti, che si tratti dell'immagine dell'artista dipinta da lui medesimo? E soprattutto: come può questa asserzione apparentemente referenziale non essere necessariamente r~erenziale? La seconda domanda può essere risolta con una risposta molto banale: da un punto di vista comunicativo è irrilevante decidere se un'immagine corrisponda veramente ad un oggetto esistente, perché quel che conta è l'atto linguistico prodotto. Nel nostro caso, pertanto, saremmo di fronte ad un atto linguistico che enuncia una strategia referenziale, che mette in discorso il proprio discorso dicendo «io qui mi riferisco a qualcosa fuori di qui>. E questo «io» è un «io narrante:. che non coincide necessariamente con una persona empirica, come dimostrano i tanti ritratti falsi oà la manière de che esistono nella collezione dei 1040 autoritratti agli Uffizi, di cui si va allestendo l'esposizione a Firenze per le celebrazioni della famosa Galleria. Quanto alla prima questione, possiamo rispondere per gradi. In primo luogo va ricordato che in qualunque ritratto esiste un procedimento di denominazione; e questo procedimento funziona nel modo seguente: attraverso una serie di disgiunzioni esclusive, siamo condotti a scegliere classi di appartenza sempre più ridotte entro le quali il ritrattato si colloca. Per esempio: gli abiti ci possono indicare il rango e il ceto sociale, istituendo una serie di opposizioni binarie del tipo «ricco» vs «povero», «nobile» vs «borghese», «regnante» vs «suddito», «laico» vs «religioso», e così via. Certi attributi, poi, ci indicano la corporazione o l'attività prevalente del ritrattato, secondo un repertorio che il Rinascimento ha solidamente codificato: il sestante per l'architetto (ricorderò ad esempio i ritratti di architetti fatti da Diirer o da Moroni), la spada e l'armatura per il soldato (famosi i ritratti del Bronzino e di Giorgione), il libro per il letterato ( si pensi a quanti ritratti con il «petrarchino» ), pennello e tavolozza per il pittore (rammento lo splendido autoritratto di Rembrandt a Kenwood, del 1663, di cui Kennet Clark ci dà un eccellente resoconto in Looking ar Pic1ures ), e così via. Altri oggetti, poi, ci guidano verso una più precisa individuazione: citazione di opere fatte (mi viene in mente l'autoritratto di Pussin con i quadri dietro di lui) o degli «oggetti d'affezione», cioè gli oggetti personali più cari: oppure vi sono oggetti metaforici, vere e proprie traduzioni di figure retoriche verbali (come nella Laura di Giorgione, dipinta con una pianta di lauro sullo sfondo, o come nel Triplice ritrauo di Lorenzo Lotto, nel quale alcuni vedono, in mano al ritrattato, una scatola con i pezzi del gioco del lotto, donde l'interpretazione dell'opera come autoritratto); o ancora vi sono motti (come nell'autoritratto di Salvator Rosa del 1640 alla National Gallery di Londra) o rebus e indovinelli (come negli autoritratti dell'Alberti, siglati da un occhio spalancato che indica la formulazione della teoria della prospettiva). Il ritratto, insomma, è una sorta di piccolo universo, nel quale, attorno al centro costituito dal volto del ritrattato, ruota un intero sistema di satelliti, che hanno il compito di rendere possibile il processo di denominazione che può giungere fino all'individuazione di un nome proprio. Viene subito alla mente una sia pur superficiale somiglianza col funzionamento del sistema semantico, cosi come ce lo descrive Algirdas Greimas nella Sémanrique strucrurale a proposito della formazione del «semema». 11pittore, dicevo p~ima, può dunque venire ic;lentificato mediante 111na serie di oggetti e di proprietà che lo definiscono come individuo-quel preciso individuo - in un mondo possibile che viene indicato come quello reale (sto nuovamente seguendo Eco di LecLor in fabula). Ma tutto ciò, ancora, non riesce a definire un ritratto come autoritratto. Al massimo possiamo arrivare a identificare l'identità del ritrattato, e se essa coincide con quella della firma, decidere che effettivamente siamo in presenza di un autoritratto. Ma, come ho già sottolineato, la firma non sempre è un elemento probante, in primo luogo per la sua falsificabilità, e in secondo luogo per un meccanismo che la rende spesso ambigua quando è inserita in un'opera pittorica. La firma, infatti, può stare in qualche modo «fuori» dal quadro (per esempio in un cartiglio o anche nel classico angolo in basso a destra) e si compqrta allora come testo che parla di un altro testo («questa opera su cui compare questa firma appartiene a X Y»), ma può stare anche «dentro» il quadro, come in certe opere di Diirer nelle quali il famoso monogramma si inserisce nel quadro come elemento decorativo interno al testo, o come ad esempio nel ritratto degli Arnolfini di Van Eyck, in cui la firma diventa una iscrizione sulla parete opposta all'osservatore ( «Johannes de Eick fuit hic»). In questo secondo caso abbiamo due possibilità: che la firma indichi l'autore dell'opera (o meglio, il soggetto dell'enunciazione) ma anche il suo contenuto (o meglio, il soggetto dell'enunciato). Nel ritratto degli Arnolfini, ad esempio, alcuni hanno voluto vedere il matrimonio dello stesso Van Eyck, sostenendo che «Johannes de Eyck fuit hic» non è necessariamente una asserzione di presenza dell'autore-inquanto-tale all'evento ritratto, ma una asserzione di presenza dell'autore-inquanto-soggetto nel ritratto medesimo. Come si vede, dunque, la testimonianza verbale scritta nel quadro non porta affatto univocità alla designazione pittorica, ma al contrario assume su. di sé l'equivocità del figurativo (a proposito di equivocità di scritte dentro i quadri rinvio come ovvio a Miche! Butor di Les mots dans la peinture, ma soprattutto all'analisi di Les bergères d'Arcadie di Poussin fatta da Louis Marin in Dérruire lapeinture). La scritta dipinta nel quadro, infatti, è fatalmente ambigua, perché può riferirsi ad una situazione di enunciato (il quadro, il testo con le sue strutture) come ad una situazione di enunciazione (l'attività pittorica produttrice di senso). È evidente allora che ci deve essere qualcosa d'altro, e di più probante, che consenta all'asserzione «questo è il • pittore X Y» (possibile attraverso il procedimento della disgiunzione esclusiva) di diventare «io sono X Y che ha dipinto qui il pittore X Y». A mio parere, quest6 «qualcosa d'altro» non può essere che la traccia della attività pittorica che resta iscritta nel testo a manifestare la responsabilità della sua produzione. In altri termini, ci sono manifestazioni del testo che necessariamente rinviano al suo esser prodotto. Va introdotta, a questo punto, la ben nota distinzione di Emile Benveniste fra discorso e storia. Nella storia vengono cancellate, mascherate, le tracce della produzione: i fatti sembrano parlare da soli, senza che nessuno li abbia prodotti. Il discorso invece contiene indicazioni continue su chi, come e quando lo ha prodotto. L'autoritratto appartiene a questa seconda categoria, in esso c'è sempre qualcuno che dice «io» e «tu», «qui» e «ora». Innanzitutto attraverso lo sguardo. La maggioranza degli autoritratti, infatti, presenta personaggi che, per così dire, guardano in macchina. Guardano cioè esattamente in un punto che coincide con il punto di vista del quadro. Ma poiché il punto di vista è presupposto a sua volta coincidere con lo sguardo dello spettatore (a sua volta coincidente con lo sguardo dell'autore), ne consegue che il ritrattato guarda chi lo sta guardando mentre lo sta guardando. Ogni ritratto che guarda in
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