Schmitet I' a~~o@mPO del potere La decisione senza presupposti I due sostegni del concetto di potere in Weber sono dati dallo schema di scopo e dalla struttura di comando: il potere si costituisce come intreccioe correlazione in verticale - tra razionalità formale e trasmissione gerarchica delle decisioni. A differenza di quanto scrisse Kelsen - due anni dopo la morte di Weber - in De, soziologische und der juristische Staatsbegriff, la teoria weberiana della legittimità non implica alcuna identificazione dello Stato con l'ordinamento giuridiconormativo: se così fosse, la tematica della legittimità finirebbe, in Weber, per risolversi o per appiattirsi su quella della legalità. È indubbio, tuttavia, che il modello weberiano è contrassegnato - in specie, e in misura crescente, negli ultimi anni- da una sorta di schizofrenia teorica, che si manifesta in un drammatico e irrisolto pendolo tra disciplina burocratica (intesa come «il modo formalmente più razionale di esercizio del potere») e potere carismatico (inteso come unica forza capace di produrre impatti innovativi). A questo dilemma sembra impercettibilmente alludere l'oscillazione di Weber tra due sentimenti che polarizzano l'ultima fase della sua riflessione, impedendole di approdare ad un esito univoco: l'angoscia della «gabbia d'acciaio» e l'inquietudine per l'affiorare di forme di agire emotivo-passionali (improntate alla Gesinmmgse1hik) che incrinano la compattezza e i requisiti legittimanti del «mondo amministrato». In una sintesi non più classica nella sua stessa assunzione epistemologica - costruita sul sapere progettuale versus il sapere sostanzialistico-riflessivo che si arena nel cortocircuito di determinismo e teologia -, Weber riproduce in forma dimidiata (e dilemmatica) la struttura binaria che attraversa il politico moderno sin dalla sua genesi: lo Stato come calcolo razionale, «machina machinarum» (Hobbes); la politica come effettualità, decisione tempestiva (Machiavelli) - il cui senso pare simboleggiato dalla serie di arazzi medicei che raffigurano altrettante variazioni del rapporto tra il Tempo e l'Occasione (niente illustra meglio il sapore d'epoca della concezione machiavelliana dell'immagine del Tempo che «afferra l'Occasione per la chioma» ...). Vi è una tradizione di critica della teoria schmittiana che muove da una drastica riduzione della sua intera problematica a questo secondo lato, e trova il proprio denominatore comune nell'imputazione a Schmitt di un ~ecisionismo occasionale fondato su «esistenze» assiomaticamente irriducibili a qualsivoglia metro o dimensione normativa. È la tradizione di critica inaugurata da Siegfried Marck e da Karl Lowith. Essa prende avvio da una particolare interpretazione, per la quale il concetto di politico affonda le sue radici nella contrapposizione tra esistenziale e normativo. L'esistenziale è, come tale, anti-normativo par excellence, per cui- scrive Marck- «la proposizione 'la politica è destino' diventa jn Schmitt addirittura una proposizione reversibile di identità». Se per Marck la definizione schmittiana del politico è resa possibile da un trapasso del feticismo in misticismo, in quanto autonomia meramente tautologica (non commisurata ad alcuna «giustificazione» normativa) dell'esistente, Lowith svolge una critica ancora più radicale, concludendo che il paradigma occasionalista dissolve nella concezione di Schmitt ogni «centro» della vita spirÌtuale, mancando una fondazione metafisica della decisione analoga a quella che sostiene in Marx la contrapposizione al soggetto borghese, in Kierkegaard la contrapposizione al soggetto romantico. Quello di Schmitt sarebbe, dunque, un decisionismo senza fondamenti. Ma né Marck, né Uiwith rilevano quanto questa «infondatezza» - questo «vuoto» di fondamentò~sia legata a un'acquisizione in senso forte della svolta scientifico-filosofica di fine secolo: rimandi, cioè, come a suo naturale presupposto, a un già avvenuto processo di svincolamento dalle filosofie tradizionali della storia e dalle pretese organicistico-totalizzanti proprie della concezione reazionaria dello Stato. Questo lavorio non è più l'oggetto centrale, ma la base e il punto di partenza della considerazione schmittiana del politico come dimensione irriducibilmente specifica ed autonoma. Il «nichilismo» schmittiano, il modo peculiare in cui si riaffaccia nella sua riflessione l'endiadi barocco-secentesca vuoto/decisione, è interamente pervaso dell'aroma del tempo: esso è, dunque, impensabile senza la critica del fondamento (e della metafisica occidentale in genere) portata a compimento da Nietzsche. Ma non è ancora su questo che s'intende centrare l'attenzione. Ciò che interessa piuttosto osservare in questa sede è che, in quegli stessi anni (prima metà degli anni '30), si comincia a profilare una linea interpretativa che - da Helmut Kuhn a Leo Strauss e, in Italia, a Delio Cantimori - corregge l'imputazione di occasionalismo, ponendo in stretto rapporto la tematica schmittiana con i problemi nuovi saliti alla ribalta con il periodo weimeriano. Kuhn e Strauss, in particolare (e in ogni caso con maggiorchiarezzadi Cantimori, che si colloca sostanzialmente lungo la direttrice tracciata dalla lettura di Lowith), invertono la tradizionale accusa di «decisionismo occasionale», indicando come occasio proprio la predominanza antipolitica liberale. L'occasio effettualmente operante alle origini della teoria schmitt.iana del politico è data dalla permanenza della neutralizzazione liberale nell'ordinamento weimariano, che ha conseguenze tragicamente paralizzanti riguardo al problema della Costituzione e del suo «custode» - e che trova una conferma clamorosa nelle stesse posizioni socialdemocratiche. La riflessione socialdemocratica degli anni '20 si concentra, a differenza della socialdemocrazia anteguerra, sul problema istituzionale. Essa assegna, sì, nell'ambito della sua teoria del «capitalismo organizzato», le funzioni di «razionalizzazione», weberianamente intese, alla dimensione politicostatuale; ma sulla base di una netta riduzione del problema della legittimità a quello della legalità. Attraverso un gioco riduzionistico di equazioni strettamente concatenate, la «razionalizzazione» viene omologata a «socializzazione» e quest'ultima a «democratizzazione»: il nocciolo di questa teoria dello Stato prodotta dal revisionismo «neo-classico» della socialdemocrazia mitteleuropea - che ha la sua sistemazione «disciplinare» più ampia e coerente nell'opera di Karl Rennersi risolve nella considerazione per cui la democrazia politica si realizza (e si compie) nella democrazia economjca per mezzo della traduzione delle socializzazioni de fac10 in socializzazione de jure. Ma - come vidè con chiarezza un allievo (più tardi famoso) di Schmitt operante nelle file della socialdemocrazia e collaboratore della hilferdinghiana Die Gesellschaft - questa concezione dello Stato come mezzo di «tecnica sociale», per quanto si rifaccia spes o e volentieri all'autorità di Weber, dipende in realtà direttamente ·dal formalismo kelseniano. Dietro questa reductio in termm1 giuridici del problema dello Stato vi è infatti una riconduzione dell'avversario a concorrente, a partner di un gioco conflittuale,che è a sua voltala spiadi un rapporto puramente passivo-riflessivo nei confronti della Costituzione: una spia, cioè, della incapacità di leggere in essa il diagramma di relazioni dinamiche tra le nuove «potenze» prodotte dalla socializzazione. La riflessione avviata dal postweberismo sulla molteplicità di «coni obliqui» che formano un nuovo assetto di «Costituzione materiale» sempre meno governabile entro le procedure formalizzanti del disciplinamento burocraticoamministrativo, e - attraverso la formazione di potenti gruppi d'interesse e la proliferazione di istituti informali della rappresentanza «funzionale» sottratti al controllo della tradizionale (e, per lo stesso Weber, indiscussa) mediazione partitica - inducono una crisi di legittimità che investe l'intera struttura dello Stato liberaldemocratico, aveva posto sul tappeto gli interrogativi di fondo dell'analisi di Schmitt (dando tuttavia ad essi risposte inadeguate o contraddittorie). L a lucidità e la crudezza del disincanto schmittiano sta proprio nella capacità - riconosciutagli dallo stesso Korsch, che recensì Der Hu1er der Verfassung nella prima annata della «Zeitschrift fiir Sozialforschung» - di cogliere come questi nuovi confljtti siano il sintomo di una crisi storica che investe non particolari aspetti o modalità di funzionamento, ma piuttosto la forma stessa dello Stato rappresentativo classico, riproponendo a un nuovo e diverso livello la questione della sovranità: livello che si qualifica nei suoi attributi essenziali attraverso la critica del normativismo kelseniano, - che «risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo» - e del «plu·ralismo» di Cole e Laskj (proveniente, per Schmitt, dallo stesso ceppo della teoria corporativa di von Gierke), che lo dissolve disarticolandolo all'interno di una compagine individualistico-conflittuale, organicamente composta di potenze private e autonomie corporative. Ma- si diceva- la molla che fa scattare la disamina schmittiana delle categorie del politico è rappresentata dalla natura dei nuovi conflitti esplosi dietro la facciata restauratrice del «periododi stabilizzazione>post-bellico. In questo senso è davvero fondamentale la conferenza del '29 L'epoca delle neuiraliuazioni e delle spoli1icizzazioni (ed è indubbio merito di Lowith averne segnalato la centralità all'interno della riflessione schmittiana). Non è qui il caso di tornare a sottolineare gli aspetti di sconcertante modernità di un testo chi;, per molti versi, si presenta come un magistrale affresco della «situazione spirituale del tempo>. Si pensi soltanto ad espressioni (da molti giustamente valorizzate) come: «I russi hanno appreso a memoria l'Ottocento europeo, ne hanno colto l'essenza e hanno tratto le conseguenze dalle sue premesse culturali. Si vive sempre sotto lo sguardo del fratello più railicale che ci costringe a portare fino in fondo la conclusione pratica»; oppure: eia Berlino ili oggi ( ...)è più vicina,in linea d'aria culturale, a New York e a Mosca che non a Monaco e a Treviri». La modernità di queste frasi si spiega tuttavia solo a condizione di fraintendere il senso della celebre teoria della successione dei Zentralgebiece che sta al centro della conferenza. Se si interpretasse questa successione in chiave geschichtsphilosophisch, la critica a Schmitt finirebbe per trovarsi inesorabilmente inchiodata a un'arretratezza ben più pesante (e patetica) del suo stesso bersaglio. La teoria dei Zentralgebiece che scandiscono il mutamento delle celités-guida» nel corso di «quattro secoli di storia europea» tende, per l'appunto, a sottrarre l'ambito d'azione del politico ad ogni normatività spontanea, deterministica o teleologica: a emanciparlo, in una parola, da ogni filosofia della storia come processo «orientato». Gli «ambiti centrali» sono soltanto campi di neutralizzazione (o meglio: quei campi che nella situazione determinata di un'epoca vengono privilegiati nel quadro storico complessivo del processo di «secolarizzazione»), non forme o gradi di sviluppo dello spirito che risolvono e comprendono in sé tutte le determinazioru precedenti. La evita spirituale» di ogni epoca resta per Schmitt policentrica: ed è anche per questa ragione che - come si vedrà più innanzi-la categoria schmittiana di politico si costituisce in polemica aperta con tutte le visioni organiasuco-ricompos1uve proprie della tradizione reazionaria. Contrariamente a quanto affermato da Lowith, nell'individuazione dell'ambito di neutralizzazione di questo secolo nella tecnica Schnùtt si riallaccia solo per l'aspetto descrittivo (prendendone subito dopo le ilistanze dalle conclusioni) al Kulturpessimismus tedesco che - dalla metafisica del «Dio impotente> di Scheler all'«elite incidentale» di Ziegler, da Téinnies a Spengler, da Troeltsch a Rathenau - identifica nella tecnica una totalità artificiale e meccanica che uccide !'«anima». In realtà Schmitt riconduce questa critica della cultura al residuare di un pervicace senso di impotenza: al «dubbio nella capacità di porre al proprio servizio il grande armamentario della nuova tecnica, che peraltro non aspetta che di essere utilizzato>. È a questo livello di elevata intensità del rapporto tecnica-politica che va ripensata - nel concatenarsi dei suoi momenti costitutivi - la riformulazione schmittiana del problema della sovranità. La ripresa del concetto classico di «sovranità> (che nel modello di Weber è sostituito da quello di He"- schaft) è mediata- si è detto in precedenza - dalla critica all'alterazione o dissoluzione di questo concetto da parte della teoria liberalee delle sue varianti «pluralistiche». Il nucleo centrale della polemica schmittiana nel corso ili tutti gli anni '20 è dato dal rifiuto della contrarrai.ione ( e si vedrà tra breve quali implicazioni r.echiin sé questo motivo - che Schmitt desume dall'osservazione attenta e partecipe dell'esperienza weimeriana - per la defiruzione del concetto di «politico»). L'estendersi alla politica della forma-contratto equivale per essa a un certificato
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