LI attenzione politica sul carcere si tende e cede di continuo, a seconda delle contigenze; come una molla che complessivamente funzuma poco, si sfotte. Ubbidisce alla regola d'una ciclicità insensata, legata alleattualitàe destinata a consumazioni rapide quasi quanto le pagine dei giornali su cui appaiono notizie di rivolte, evasioni, episodi di sangue; condannata alla stessa logica di assuefazione. È un'attenzione che ancora oggi vive sugli echi del caso d'Urso, delle polemiche per l'Asinara, Trani, Palmi. Domani si affievolirà di nuovo? Ci sono sempre altri fatti che prendono alla gola, lasciano poco tempo, profonde scosse telluriche e no, eventi che sollecitano «verifiche di strategie». Ma probabilmente non si trattasolo di questo; insieme, può darsi, degli effetti d'un qualche arretramento del «terreno di lotta»: o della presa d'atto, perché ci si sbatte contro, di realtà di questo terreno meno semplici di quanto si era ritenuto. Si va in perdila a farsi prendere alla gola dai fatti; ed una «strategia», lapalissiano, non è tale se lascia in ombra aree importanti, importanti bisogni. Sicché occorre tentare di capire quel che davvero succede nel carcere, eper il carcere. Anche mentre alla Fiat o alla Montedison si licenzia, il terrorismo uccide, la corruzione ancora una volta si rivela clamorosamente strutturale, assi portanti della vita colle1tivane risultano devastati e non reggono alle spinte, per esempio, della natura. Bisogna sottrarsi al pendolo, consueto nella specie, fra il polo dell'umanitarismo e il polo della custodia. Non perché lapena non debba essereconforml' «al senso di umanità», come vuole la wstiluzione, o perché si possa rinzmziare ad impedire che i detenuti evadano. Ma perché l'alternativa non baslll: l'umanità non ammansisce e cede, poco evitabilmente, alla custodia; e la custodia alla fine manca alla sua funzionl'. comunque si cerchi di perfezionarne i meccanismi. Le recenti esperienze di Volterra, Fossombrone, Nuoro, Firenze, Trani, Palmi, Asinara, Genol'a dimostrano che è sempre possibill'. meuiamo, puntare un taglino alla gola d'un agente ed 011enerequalcosa ch<' conta in cambio della vita di quell'ostaggio. Lo Stato così viene a pani. Dopo non gli resta che rientrare nd reparto distrutto: e trovarci qualcl,,. volta (come aNuoro), tra i fumi ancora densi dei lacrimogeni e le macerie, 1111 paio di corpi umani straziati, non si sa in base a quali leggi orribili. Troppo facilmente si è ritenuto d'avere represso per sempre, con gli «isti- ' tuti di massima sicurezza», rivolte e,I evasioni; d'avere rinchiuso dentro /,. mura del carcere la sua violenza. Eccola invece che ne straripa, pronta ad aggredire. Troppo avventatamente si è creduto, fallita l'esperienza dei Nap. a/l'isolamento dei terroristi rispetlo alla criminalità comune reclusa. Mentre poi subilo Alunni fugge con Vallanzasca; e· le sommosse di Volterra, Fossombrt>-' ne, Nuoro, Firenze, Trani, Palmi. Genova sono la prova di alleanze e solidarietà inquietanti: inquietanti anche per chi vive qui fuori. Il problema del governo del carcere dunque riemerge, quando altri più impellemi gli lascia110spazio. E scivola verso la sua impostazione impropria: oscillando, ancora una volta, tra umanitarismo (chi ancora ne fosse capace) e cuswdia, con le conseguenze già dette; quindi schiacciandosi, alla fine, sulla mera custodia. Governo del carcere come logica tuua imerna all'istituzione. In sostanza, come sopraelevazione dei muri di cinta, come sforzo tecnologico di renderli impermeabili (dallaJecnologia della cellula fotoelettrica a quella Cellasistina da noi ancora poco esplorata della manipolazione umana). E caliamoci pure dentro i televisori a colori, che umanitariamente trasmeuono tutti i possibili telequiz, partite di calcio, love story a puntate, perché no, pornofilm. Come ribadita separatezza. Come rimozione dalla coscienza comune, dalla vila sociale. 2. Solo che ciò non funziona. Non c'è sopraelevazione che basti, che tenga. E non tanto perché è sufficiente un cucchiaio per costruire un taglino capace di tagliare una gola, ma perché il carcere in genere funziona da stanza di transito: se ne esce, come ci si entra. E comunque manda i suoi messaggi, detta le sue condizioni, anche per il solo fatto di esistere: insomma contribuisce a definire la società di cui è parte inscindibile. Bisogna domandarsi allora come si entra in carcere e come se ne esce, quale sia il grado di pericolosità della massa dei reclusi primari, e non solo di essi, prima e dopo quella cura. Quali processi disgregativi si verifichino, si radichino, irreversibilmente, in tante personalità, per effetto d'una violenza che non è solo quella delle cosi dette strutture, del bugliolo (dove ancora esiste) o del personale di custodia (nei casi in cui esso trascende ad atti di violenza diretta), bensì è più generale alienazione, reificazione sistematica, esposizione totale. Bisogna domandarsi quali sono per la collettività i costi di processi disgregativi che non risultano solo individuali, ma sociali; come questi processi, che si risolvono a loro volta i11massicce cariche di 11iole11zas,i i111reccia11a0d altri della stessa natura, imeragiscono; quale forza di suggestioni ed argomenti l'aggressione in corso, variamente compiuta, provoca sul modello democratico. La conclusione è che non si tratta solo del governo del carcere, ma del governo della società. Non nel senso che la via del governo del carcere sarebbe ad esso, massimalisticamente, tutta esterna, e quindi 11011resterebbe che affidarsi ad un generale, pregiudiziale cambiamento. Ma invece nel senso che la lotta per il cambiamento comSalvatore Mannuzzu plessivo della società ~ totale, non ammetle zone franche, tanto meno questa; essa deve passare anche dentro il carcere, se non vuole pagare prezzi troppo alti. Solo così acquista significato la regola costituzionale che «la pena deve tendere alla rieducazione del condannato»; si esce fuori dall'utopia, peggio dalla retorica della «redenzione» dinstinguendo fra regola costituzionale e quel «vigilando redimere» che da sempre è il molto del corpo degli agenti di custodia e che giustame/1/egli agenti di cuswdia ora respingono come un dileggio. 3. Dunque: da quale governo del carcere a quale governo del carcere? Il punto lontano (lontano?) di partenza è noto. L'analisi di Goffman, in Asylums, basta come riferimento. In una • società bloccata sullo sfrut1amento, nella quale ogni dinamica emancipatoria .fosse preclusa, il carcere diventerebbe sede ultima di controllo. Le trasgressioni, le reazioni violente, che I' organizzazione sociale necessariamente provocherebbe (sicché ogni criminalità sarebbe politica), verrebbero contenute dentro istituzioni totali. Sappiamo però che la realtà che viviamo è diversa. Il sistema vigente reca in sé potenzialità di cambiamento. Non solo: è in corso una concreta transizione, una modifica delle titolarità e dei contenuti del potere. La stessa crisi del governo del carcere fa parte di questa più generale crisi di egemonia. li carcere è sempre stato luogo di efferatezze e abiezioni innominabili, peggiori di quelle che oggi regis1riamo. e le ha sempre subite, a11ziha sempre acce11a10 di conno1arsene. Solo oggi, in qualche modo le rifiuta: leueralmente, ne scoppia. Questo rifiuto, quesla negazione, questo fauo così ambiguamente vitalesi propone come soswnza materiale d'una riforma. Guai a non accoglierlo in una prospeuiva democratica, a non calarlo in una dimensione is1i1uzionale nuova: ad ignorare il peso 1u110inedito di amisociali1à, addiriuura di eversione, che a/1rimenti può assumere. L'impressione è che la risposta sia del 11111in0adeguata, che solo in pochi se/lori non si marchi altrettanto ritardo, nonostante l'intero sistema risulti caratterizzato da ri1ardie da scompensi. L'istiluzione peniten.ziaria vuole continuare a mantenersi chiusa, di fatto regolata per la sua completa separazione dal resto del mondo, produttrice di diversità. La gestione del carcere è asincrona rispetto alla dinamica emancipatoria, la contraddice vistosamente: ha luogo «als ob», come se questa dinamica non fosse in corso. Si rivela quindi funzionale all'idea d'una società bloccala, non modificabile, irredimibile: o redimibile solo con le armi; funzionale alla concezione d'una criminalità che, nel frattempo, finché lo Stato che non si può cambiare non sarà abbattuto, si legiuimerebbe come forza rivoluzionaria proprio in quanto criminale. Tuuo questo è anche effeuo di gravi sottostime, di scelte compiute, qualunque sia il loro merito, ne/l'ignoranza di trasformazioni della realtà, che si sono verificate e stanno verificandosi. Tullo questo avviene non solo nel carcere e per il carcere: è il segno dell'insufficienza d'un'intera classe dirigente. Nel carcereal terrorismo si riserva soltanto una particolare custodia; se ne trascurano invece le linee di crescita (si pensi alla commistione fra detenuti cosi de/li politici e detenuti comuni, dato constante e clamoroso): non se ne considerano i meccanismi di genesi e di riproduzione; anche qui si continua ad intervenire, quando si interviene, solo sul sintomo. li carcere, ancora una volta, fa eccessivo assegnamento sulla propria separatezza: su una separatezza che la realtà me11ei11disc11ssio11oeg11i giorno sempre di più. Analogo discorso andrebbe fauo per la criminalità organizzata, che da semplice componente di un quadro altrimenti formalo ne diviene l'elemento cemrale, evolvendosi qualitativamente, con articolazioni moderne, d'impronta perfino multinazionale, ed estendendosi quantitativamente. I problemi di politica penale che questo fenomeno pone sono lungi da~'essere affrontati congruameme: ma quelli particolarmente propri della sfera esecutiva, penitenziaria, restano addiriuura 1101t1occati, fÒrse neppure avvertiti. La trasformazione di maggior rilievo è, però, quella propria della massa dei detenuti: ed è una trasformazione culturale e politica. Si tratta di profonde modifiche di bisogni. Qualche decennio fa il tenore materiale di vita di tanti reclusi poteva addiriuura essere non peggiore, pur nelle sue gravi angustie, di quello cui essi erano abituati in precedenza e che loro sarebbe toccato dopo la scarcerazione; né i giorni d'un internato nella colonia penale del/'Asinara si distinguevano molto, neppure per i limiti della vita di relazione, da quelli d'un comune pastore della Sardegna. Ma non si trai/a solo di questo: fondamentalmellle, esisteva uno stacco minore, assai minore, tra universo penitenziario e vita civile, in tu/te le sue valenze. È col progredire della democrazia, paradossalmente, che questo stacco aumenta, diviene divaricazione intollerabile: è quando il cittadino conta di più, può contare di più, che il detenuto inizia a non sopportare la propria reificazione. Non si vuole tanto intendere un'acquisizione di coscienza, sebbene anche questa in qualche modo maturi, in taluni ambiti; quanto il crescere di esigenze ed insofferenze più confuse: ma pesanti, ma incontrollabili. Bisogna porre in relazione queste indistinte esigenze, insofferenze, queste irreversibilimodificazioni culturali con le proposte, ben presenti, dentro il carcere e fuori, del terrorismo, della grande criminalità organizzata. E con le altre tentazioni che percorrono ilmondo, sipensa alle droghe innanzi tuuo, con il moltiplicarsi delle spinte centrifughe, lo spesso sedimentare di strati antagonisti, anche solo per inerzia, rispetto alla dinamica democratica. Dipende anche da noi stabilire di quale sviluppo deve diventare lievito la salutare, inespressa domanda dei reclusi d'essere alla fine uomini, non cose, dentro una società di uomini. Respingerla, manifestare che non solo l'istitu- ~ione penitenziaria ma l'imero Stato è più indietro di essa, ci costerebbe troppo. 4. Quali sono gli strume111ci oncreti di un auuale governo del carcere? È 11010che non passano i comenuti della leggedi riforma del 1975: 1101v1a avanti l'ipotesi d'un recupero sociale dei detenwi a/traverso il lavoro, l'is1ruzio11e,anche professionale, un loro coinvolgimemo nella gestione della vita dei penitenziari, i co111a1ctoi n la «comunità esterna». Bisogna anzi ritenere che le i11iziativein queste direzioni si restringano progressivameme. li lavoro diminuisce, ed è in gran parte _ingaggioper «servizi d'istituto», di scopini o simili fino a scrivani, secondo una logica clientelare specifica: dunque omologazione all'istituzione, co11fermadella separatezza. I corsi d'i- _\'/ruzionesmobilitano o si trascinano stancamente, cumulando i vizi più arcaici della scuola i1alia11ai:l genere da classe degli asini, con l'infamia della farsa del buon tempo amico spinta n demro; a parte che alfabetizzazione ed acculturazione poi sono cresciute per loro conto, e che frequemare il corso significa perdere lamercede de/ lavoro, quando fosse possibile prestarlo. Le rappresentanze dei detenwi, previste per co111rollsiul vitto e sugli spacci (i «boueghini» ), per contributi alla gestione delle biblioteche ed all'organizzazione di «auività culturali, ricreative, sportive», secondo leggesono estrai/e a sorte, ed è tuuo deuo: la forza contrattuale potrebbe derivare a queste rappresentanze solo dal consenso comune, da una rappresematività effeuiva; ma restaperlomeno singolare la prospeuiva di gestori di biblioteche analfabeti, come gli estratti a sorte possono essere,
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