Alfabeta - anno III - n. 22 - marzo 1981

lo in sé chiuso, ma non sterile. Le sue influenze sono molteplici e, per alcuni versi, sopprendenti. Il filone originario prosegue, con indubbia (e forse eccessiva) coerenza, nella ridotta attività dell'Istituto De Martino, del Nuovo Canzoniere Italiano, e, con elementi innovativi, del Circolo G. Bosio di Roma. L'ipotesi dell'autonomia e dell'altematività della cultura popolare ha avuto enorme fortuna ai più vari livelli. Alcuni spunti in questo senso sono presenti già in De Martino, anche se poi riassorbiti dal suo rigore storicistico (ma gli epigoni non saranno altrettanto attrezzati). Lombardi Satriani opera un deciso rilancio di questa ipotesi non gramsciana sulla base di una lettura a mio avviso arbitraria di Gramsci, dove il giudizio complessivamente negativo sulle capacità propositive della cultura popolare appare rovesciato in positivo (per una critica di questa posizione si veda, oltre al classico saggio di Cirese inintell~ttuali, folklore, istinto di classe, Einaudi, Torino 1976, anche Lo Piparo, Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, Laterza, Roma-Bari 1979, forse un po' estremizzante nell'altro senso). La tesi di Lombardi Satriani sul cfolklore come cultura di contestazione>, diffusa in numerosissimi libri e articoli dall'epoca della contestazione in poi (si vedano almeno Il folklore come cultura di contestazione, Peloritana, Messina 1967; Folklore e profitto, Guaraldi, Rimini-Firenze 1973; e il fortunatissimo Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, che ha avuto numerose edizioni: Peloritana, Messina 1968; Guaraldi, RiminiFrrenze 1974, con ristampe; Rizzoli, Milano '80;), ha avuto una fortuna immensa a vari livelli: respinta dagli specialisti (antropologi, demologi), è stata largamente accolta dal pubblico dei giovani (militanti, studenti), rafforzando quel csenso comune» cui sopra accennavo, ed ha trovato largo credito anche tra gli accademici di altre discipline, come i linguisti e gli storici (talché Ginzburg, ad esempio, nel Formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976, cita Gramsci attraverso Lombardi Satriani). Il csenso comune> folklorico dei giovani si è, nel decennio 1970-1980, progressivamente allargato e consolidato, ed ha fornito un vasto mercato prima a pubblicazioni di ottimo livello (come i Dischi del Sole, i Canti popolari italiani, Mondadori, Milano 1973, di Leydi, o i libri di Lombardi Satriani appena citati), poi ad operazioni editoriali sempre più compilatorie e squalificate (come i vari i libri sul canto popolare di Vettori, Boldini, Caldirola, Saffioti, o quelli sulle fiabe editi da Savelli, ecc.), finché ora anche questo filone appare esaurito. Un'estrema propaggine si può individuare nell'attuale successo della cosiddetta cmusica celtica», originariamente traduzione commerciale della tematica delle minoranze etnico-linguistiche. Il grande sforzo di organizzazione culturale compiuto dal Sessanta in poi ha prodotto una vasta cpressione di base» che ha facilitato l'apertura di spazii a livello istituzionale. Cosi è avvenuto per l'Università, dove il sempre maggiore interesse per l'antropologia e la demologia (che tanto colpiva i partecipanti al convegno bolognese del 1972 su cEtnologia e antropologia culturale») è senz'altro dovuto anche (e forse soprattutto) al «vento del nord>. Si moltiplicano gli insegnamenti universitarii e si ha, a metà degli anni Settanta, una ripresa d'interesse per i temi del dibattito demartiniano degli anni Cinquanta, segnata da un autentico boom editoriale, che vede la comparsa quasi contemporanea di ben quattro ottimi readers (Cultura popolare e marxismo, a cura di Rauty, Editori Riuniti, Roma 1976; ClementeMeoni-Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Edizioni di Cultura Popolare, Milano 1976; Il dibattito sulla cultura delle classi subalterne (19491950), a cura di Angelini, Savelli, Roma 1977; Antropologia culturale e questione meridionale, a cura di Pasquinelli, La Nuova Italia, Firenze 1977). A ciò si aggiunga la ristampa di quasi tutte le opere di De Martino e una serie di dibattiti e convegni sulla sua opera. M eno significativi sul piano strettamente scientifico,ma certo estremamente importanti sul piano della diffusione culturale sono gli spazi che si sono aperti a livello politico, sia locale che nazionale (basti pensare all'avviata schedatura nazionale dei beni etnografici, per cui si veda la normativa pubblicata dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Ricerca e catalogazione della cultura popolare, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione-Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Roma 1978). I politici degli enti locali hanno manifestato un interesse sempre crescente per i temi della cultura popolare, visti per lo più in collegamento con gli ambigui concetti di cbene culturale», di «tutela», di csalvaguardia» (la più recente messa a punto, con largo spazio dedicato alla cultura popolare, è contenuta in I beni culturali, una politica per il territorio, a cura di Barbaro, Torino 1980). uao senza ftrde .. qaaniere diPantano? :;~~ ::...:;. :~:: Certo l'interesse è dettato spesso da ragioni elettorali, ma ciò non fa che confermare l'accresciuta incidenza sociale di questi temi. Abbiamo così un fiorire di iniziative ai più varii livelli. La Regione Lombarda, per iniziativa di Leydi, staccatosi da Bosio e dall'Istituto De Martino già nel 1966 e dedicatosi a un approfondimento scientifico, crea nel 1973 un Ufficio per la Cultura del Mondo Popolare, affidato a Bruno Pianta (anche lui un ex del Nuovo Canzoniere Italiano), che a tutt'oggi ha prodotto una dozzina di volumi (pubblicati dalla Silvana di Milano) e di dischi (sotto etichetta Albatros) e un paio di film dedicati a varii aspetti della cultura popolare lombarda (etnomusicologici, linguistici, rituali, sociologici, ecc.). Altre iniziative sono avviate in Umbria (a cura di Tullio Seppilli), Toscana, Trentino (che. vanta il miglior museo etnografico italiano, diretto da Giuseppe Sebesta a S. Michele all'Adige), Piemonte, Veneto, Emilia, Sicilia, ecc., con formule sempre diverse. Altre numerose iniziative sono allo studio. E anche in questo caso l'impulso sembra partito dalla «linea nordista». Lo sbocco privilegiato a livello locale dell'interesse per la cultura popolare è però senz'altro il museo della civiltà contadina: l'Italia ne è stata inflazionata: quasi ogni comune, ogni scuola vuole criappropriarsi» della propria cultura (altro slogan dei «nordisti»!) e per far ciò si dedica all'amorevole raccolta delle superstiti testimonianze: gli attrezzi rurali (e i nomi dialettali). Il tema della «riappropriazione» della cultura, collegato a quelli dell'autonomia, dell'alterità, 'dell'alternatività e della continuità culturale, costituisce l'anello attravero il quale la «linea nordista» ha prodotto un esito paradossale: la «riappropriazione» della cultura popolare da parte dei cattolici (Comunione e Liberazione, Movimento popolare). Il csenso comune» folklorico cui ho più volte fatto riferimento si è diffuso anche fra_i cattolici. Le proposizioni che la «linea nordista» orientava in senso progressivo (fondare una nuova cultura operaia autonoma, che abbia le proprie radici nella precedente cultura contadina) sono state rielaborate in senso regressivo: si deve «recuperare» la cultura contadina autonoma, • ricca di valori umani travolti dal mondo moderno corrotto (un mondo moderno comprensivo di borghesi e operai). Si sviluppa quindi la critica alla società moderna, che massifica, spersonalizza, nega i valori umani e religiosi. L'età dell'oro non è futura (come nelle ideologie di sinistra) ma è passata: è la società contadina, sana, giusta, armonica, a misura d'uomo, e via idealizzando. L'epopea contadina trova il suo poeta nell'Olmi dell'Albero degli zoccoli. Questo tema si salda con l'altro di gran moda, della «difesa» delle minoranze etnico-linguistiche, promosso da Sergio Salvi (Le nazioni proibite, Vallecchi, Firenze 1973; Le lingue tagliate, Rizzoli, Milano 1975; per una critica di queste posizioni si vedano soprattutto Lanternari, Crisi e ricerca d'identità, Liguori, Napoli 1977, ed Etnia lingua cultura. a cura di Murru Corriga, Edes, Cagliari 1977 ). È esemplare la posizione del sociologo cattolico Ulderico Bernardi, che in vari scritti (ad es. Le mille culture, Coines, Roma 1976) scopre che il contadino, oltre che essere buono, è anche una minoranza (per via del dialetto), e in quanto tale è perseguitato, e quindi va non solo difeso, ma in quache modo assunto come modello culturale alternativo. Giova ricordare, a questo proposito, un acuto saggio di Guizzardi («La 'civiltà contadina'. Struttura di una ideologia per il consenso», in AA.VV., Religione e politica, Coines, Roma 1976), dove si dimostra che il contadino è stato, ed è tuttora, il modello sociale dell'ideologia cattolica. Le idee di fondo su cui si muovono i cattolici sono due, di diversa portata e incidenza: anzitutto, e fondamentalmente, l'idea della comunità, organismo sociale fortemente omogeneo, con relazioni personali ed elevata solidarietà, opposto alla disintegrazione e molteplieità dei rapporti anonimi della città. In questo senso si cerca affannosamente di riciclare vecchi lavori ottocenteschi per tentare di dare una base scientifica a questa proposta tutta ideologica (si vedono i tre grossi volumi di Comunità di villaggio familiari nell'Europa de/1'800, curati da Guidetti e Stahl, Jaca Book, Milano 19771979). La comunità contadina come luogo senza conflitti, isola protetta dalla storia e dalle passioni umane, non è mai esistita, se non nel filmdi Olmi: provare per credere, chiedere ai contadini se stavano bene, tutti uniti, tutti lieti, all'interno delle loro belle comunità! La verità è ovviamente un'altra: la comunità contadina e la famiglia contadina tradizionale erano luoghi di conflitti e lacerazioni profonde, determinati dalla precarietà dell'esistenza e dalla costrizione delle convivenza, dettata da ragioni economiche (la conduzione ·dell'azienda famigliare contadina) e non affettive. L'altro cavallo di battagla dei cattolici è la festa; vista come momento di libertà e letizia, di conferma dei ·valori comunitari. Questa idea, se non ha la rilevanz.a ideologica e psicologica dell'idea di comunità, è però importantissima per la funzione aggregante che svolge in un programma di propaganda politico-culturale (funzione paragonabile a quella del canto sociale per la sinistra: si pensi alla diffusione del teatro gestuale pseudo-popolare). A rimettere in circolo un'idea tanto balorda, che si sperava definitivamente seppellita con il tramonto del vecchio folklore enalistico, ha sciaguratamente contribuito anche il libro di Bachtin sul carnevale (L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979), che restituisce dignità cuiturale ai più vieti e improbabili luoghi comuni sulle feste popolari; se poi si pensa alla lettura banalizzante che può essere fatta (e viene fatta) delle sue tesi sul «riso» e sul «comico», il gioco è fatto. Il lavoro di Bachtin è acutissimo nelle osservazioni particolari quanto improprio nella tesi generale; purtroppo Bachtin, sia detto tra parentesi, non aveva mai visto un carnevale e non aveva la minima idea di cosa fosse in realtà: si fidava delle descrizioni «esterne» e ideologiche di chi «interpretava» il carnevale in base ai propri pregiudizi. A parte l'improprietà della «letizia» come categoria interpretativa, va detto che considerare «lieta» una festa popolare significa solo vederla dall'esterno come un'innocua bizzarria del «buon selvaggio» e proiettare su di essa un proprio desiderio. È «lieto» chi la vede senza capirla, ma con la volontà di trovarvi una risposta alle proprie ansie. Se la comunità contadina era buona e giu"sra,la festa doveva essere bella e lieta. Anche qui l'ideologia stravolge completamente i dati reali. Non è del tutto chiaro cosa sia la festa, ma è invece chiarissimo che è luogo di tensioni, come il resto della vita, e non isola di libertà (Sulla festa ~i può vedere Lanternari, La grande festa, Dedalo, Bari 1976; sul carnevale il lavoro, per molti versi discutibile, di Rossi-De Simone, Carnevale si. chiamava Vincenzo, De Luca, Roma 1977, per non parlare della «letizia» del Carnevale di Romans di Le Roi Ladurie, in traduzione da Rizzoli). N ulla di nuovo, dunque: iventre la sinistra a livello di massa lascia cadere il tema della cultura popo- . lare come idea politica su cui aggregare un progetto culturale, i cattolici lo riprendono per riproporre vecchie mistificazioni, che costituiscono un po' il rovescio della medaglia rispetto alla vulgata di sinistra di un cultura popolare tutta rivoluzionaria e contestativa. Un filo diretto lega i due opposti: la comune convinzione dell'inattingibilità della cultura «altra»: o si è dentro, o si è fuori: (come per la fede); non ci può essere distinzione tra soggetto e oggetto. Donde il misticismo della ricerca, che pretende l'identificazione del ricercatore con il militante rivoluzionario, in un caso, con il fedele, nell'altro. Non c'è spazio per atteggiamenti critici; l'inevitabile interazione fra soggetto e oggetto, anziché essere riconosciuta e valorizzata, viene ideologicamente occultata e negata. La ricerca è partecipazione, fusione, annullamento nella classe o nel popolo di Dio. Dice Bosio: «Non vi è distacco o contraddizione fra chi fa professione di ricercatore( ...) e colui che è immerso in una storia che egli deve rivoltare, insieme a tutti coloro che sono immersi nella stessa storia» (pp. 261-262). Ed ecco che cosa dice sul Resegone («settimanale cattolico di informazione» di Lecco) tale Angelo Sala: «Non ci bastano infatti la psicologia, la sociologia, la filologia, l'economia per penetrare l'anima dell'uomo e del popolo; per comprendere l'anima di un popolo bisogna stare in mezzo ad esso, diventare parte, condividendo ogni preoccupazione, ogni tensione, riconoscendo soprattutto la sua 'pietà'» (12 settembre 1980); quindi in linea di principio è condannabile ogni studio o discorso dell'esterno, configurandosi come «il tentativo di tradurre i parametri della cultura dominante in una realtà che, proprio a questi parametri, è antagonista» (8 agosto 1980). Ho citato questo Sala non perché sia commensurabile con Bosio, ma per segnalare i progressi del «senso comune» folklorico anche in ambito cattolico, fino ai livelli infimi. P ossiamo così riassumere la dinamica dei rapporti tra l'idea della cultura popolare e la- politica: mentre i «sudisti» (da De Martino in poi) elaborano teorie e aprono dibattiti a livello accademico, i «nordisti» (da Bosio ai cattolici) si impegnano direttamente nella lotta politica alla conquista del più largo consenso popolare. La «riappropriazione» cattolica della cultura popolare, i movimenti delle minoranze etnico-linguistiche si inscrivono in un panorama segnato dalla massiccia espansione di fenomeni nativistici, carismatici, neo-tradizionalistici, revivalistici, incentrati sulla rivalutazione della spiritualità (religiosa o magica, cristiana o orientale) e del comunitarismo (se veda Lanternari, «Noi e gli altri. Discòrso sulla 'alterità': esterna ed interna», in Uomo & Cultura 19-22, 1977-1978). Qùesti movimenti pongono un problema: la sempre più acuta tensione (precocemente segnalata da llasolini) tra omologazione e diversificazione, tra unità e diversità, alla ricerca di un'identità stabile. Questa tensione è maggiormente avvertita dalle zone socialmente e geograficamente marginali. Ci si trova a fare i conti con due rischi contrapposti: o scivolare nel sentimento ambiguo, passatista, i-egressivo della «nostalgia»; o trasformarsi in «ruspe del neocapitalismo» (per ricorrere alla felice antitesi di Cirese, Oggetti, segni, musei, Einaudi, Torino 1977, pp. 24-26). La soluzione sta, io credo, in un ampliamento della nostra coscienza umanistica, in quella «storicizzazione» delle culture subalterne che si prefiggeva De Martino, cioè nel recupero alla nostra storia e alla nostra coscienza di tutto il passato e di tutto il presente finora considerati «altri», per poter costruire una nostra identità globaleuna identità che non tagli fuori nesssuno, che non sacrifichi alcuni di noi (gli «altri», i poveri, i contadini, i selvaggi).

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==