-- ...... ~ TelevisionseecondoKosinski Q uarantasette anni, una sgargiantissima camicia giallo paglierino, una vistosa giacca a scacchi e gli occhi mobili che rimbalzano qui e là come consapevoli d'essere imparentati col diavolo, Jerzy Kosinski, polacco che vive in America, è a Cannes per accompagnare Being there (Oltre il giardino), il film che ha sceneggiato per Hai Ashby, dal suo romanzo Presenze (recentemente ristampato da Mondadori). Durante la conferenza stampa la sua presenza è così magnetica, che riesce a strappare l'attenzione dall'interprete Peter Sellers, visibilmente malato, pallido sotto un'abbronzatura posticcia (per non disturbare l'illustre infartato i fotografi non sono ammessi in sala). Nella Suite del Carlton Hotel, invece, Kosinski si concede generosamente all'intervista, saltellando qui e là, col suo grande naso da corvo gogoliano, tra le moltissime valigie che ingombrano la sontuosa moqueue; è a Cannes da alcuni giorni, ma deve aver ritenuto superlluo il fatto di ordinare in parte la sua vita di «cow-boy dell'esistenza», come si è auto-definito un giorno. Nel bagno una signora non meglio precisata continua a trastullare bottigline e panni, suggerendo di quando in quando dalla porta socchiusa i termini francesi in latitanza, inceppando la lluente, e altata conversazione dello scrittore che si piega a terra, mima, telefona. Vorrebbe anche offrire qualcosa da bere, ma nel frigo non ci sono che mele: un dettaglio da quadro iperealista, o da raconto di James Purdy. Curiosamente ha qualche resistenza nel parlare di letteratura. Certo, qualche elemento lo lega a Joseph Con rad, polacco che scriveva in inglese, «ma era troppo forbito, ornamentale, pensava troppo al linguaggio». E Kosinski qualche anno fa ha scritto: «La mia ignoranza dell'inglese mi ha molto aiutato. Disponendo di un vocabolario assai limitato ho dovuto imparare ad esprimermi con un minimo di parole». Indubbiamente, insieme alla lingua inglese, ha anche imparato l'understarement. È vero comunque che, fuggito rocambolescamente dal suo paese nel 1957, è arrivato in America con due dollari in tasca e senza conoscere nemmeno una parola d'inglese; la lingua gliel'ha insegnata per corrispondenza il padre, filologo rimasto in Polonia (la madre era una pianista). Ma è abbastanza stufo di raccontare questa vita romanzesca: autonomia fin da bambino, durante la guerra, abbandonato per precauzione dai genitori ebrei; afasia tra i nove e i quattordici anni; poi ritrovamento dei genitori e riacquisizione della parola, dopo un incidente di sci. Lo sci è ancora una delle sue passioni, insieme al polo e al cavallo; metà dell'anno lo trascorre a Crans-surSierre, a sciare («è la mia metà egoista», dice); il resto dell'anno lo passa a New York, scrivendo e occupandosi anche della situazione degli intellettuali oppressi dai regimi totalitari (è stato presidente del Pen Club). Non specula nemmeno troppo sulla sua biografia esemplare di selfmademan: ha fatto il fotografo, l'intratteni-· tore nei club estivi del Baltico, ha raschiato via la ruggine dalle chiglie delle navi, ha fatto persino l'autista per un negro proprietario di night («è stato il mio modo di combattere il razzismo»). Poi ha sposato la vedova di un magnate del petrolio americano e ha assaggiato la vita elegante, aerei privati e grandi feste («mi sembrava di essere Stendhal, Scott Fitzgerald» ). Ma è difficile farlo parlare di letteratura: esita a proposito dei suoi connazionali, di Bruno Schultz, di Witkiewicz; Gombrowicz chiaramente non gli sta simpatico, lo descrive sommariamente come uno snob, un mondano, quasi un cialtrone; e anche di Nabokov non deve avere molta stima, «giochetti di parole». Non lo stimolano troppo nemmeno i nomi degli autori che paiono avere qualcosa in comune con la sua letteratura, Poe, Dostojevski, Hoffmann, Kafka, Bierce. Di Polanski dice che lo ama molto (erano compagni di scuola; pare che per inseguire all'aereoporto di Parigi alcune valigie smarrite, Kosinski abbia per caso scampato la strage di Bel Air, in cui mori Sharon Tate); si limita a fare un breve elogio d'obbligo dell'azzardo, che regala un po' di tensione. A differenza di altri colleghi, però. non s'infastidisce se si parla un po' delle sue ipotetiche fonti, per esempio il Riccardo Il di Shakespeare («certo, è voluto») oppure il Candide di Voltaire, oppure il Kaspar Ha11ser di Wasserman. Ma non c'è dubbio: piuttosto che di letteratura vuole parlare quasi ossessivamente di televisione, come questa intervista dimostra. D. Qual è il suo rapporto con la televisione? È di sospetto, di rifiuto, di interesse? Può essere considerato anche lei un normale «spettatore» televisivo? R. Sì, io guardo spesso la televisione, conosco tuui i programmi, anche se passo soltanto due o tre mesi in America, a New York; poi vado in Svizzera, in altri paesi europei, così posso dire di conoscere il prodouo visivo di qua e di là del/'Ai/antico. Del resto io sono anche fo1ografo, fo1ografo la realtà sin dall'infanzia e sono sempre preoccupalo, non soltanto dall'immagine, ma anche dall'impallo che quesla immagine avrà su chi la guarda, l'influenza sulla vi1aquolidiana, direi proprio sulla vi/a privala. Perché quesl'imporranza dell'immagine? ma perché c'è già 1u110l:'immaginazione, laparola, ecce- /era. D. Dunque la televisione è una presenza soltanto minacciosa, per lei? R. Io non ho paura della 1elevisione in sé, ma degli effeui che la 1e/evisione può avere. lo ho paura delle persone che guardano la 1elevisionesette ore e mezzo al giorno, perché questo è già in un certo senso il risullato ideale di un paese 101alitario.Qual è infatti questo ideale? la passivi1à imposta dal par/ilo dominante. Il partilo è il cervello, la socie1à è una massa passiva. La cosa ideale è «siate a casa vostra e legge/e il giornale ufficiale»; adesso anche: «guarda/evi il programma ufficiale». Non a caso il paese che consuma più 1elevisione dopo l'America è la Germania del/' Esl. Il buon soldato. E i bambini che sono esposli all'influenza della 1elevisioneperdono la capacità di giudizio, l'islinto sociale; sono persone timide, cui è difficile persino parlare. D. Dunque, il pubblico americano che ha adorato Being there, lo ha capito veramente o lo ha travisato? R. No. La lragedia è che ha esaltamente voluto capire il contrario. Non ha amalo il film, ma la figura di Chance. Una volta chi mi conosceva per i miei libri mi fermava per chiedere cose logiche o intelligenti. Ora che mi hanno vislo in TV si fermano per dirmi: «Sie/e a cura di Marco Vallora voi che ave/e creato questo personaggio meraviglioso, queslo Chance?». «Come meraviglioso?», chiedo io; «sì s1raordinario,unico, Chance è il nostro avvenire». In California (e non c'entra nulla in questo l'ufficio stampa del film) s'è creato un gruppo di fans «Chance Gardiner for President», che s'occupa delle elezioni del presidente, sos1enendo che è l'unica alternativa al landem Reagan-Carrer. Ebbene, io ho dovuto rispondere: «No, non si tratta d'un'alternativa, perché sono tutti e Ire la s1essacosa». Il sorriso, la superficie. È quello che si dice del presidente; non ha un passato, ha l'innocenza degli occhi; cerronon conosce saggezza, non sa·come fermare l'inflazione, non capisce nulla di po/i1ica estera, ma è «onesto». D. Dunque, il successo di Being rhere è molto pericoloso. R. Cerro, non fa che confermare quella paura dell'immagine, che mi ha fauo scrivere il libro. D. A proposito della «droga» televi- ::=i-.!,=::,;:: =..--::.·.:::::-.::.: _ .......... ui..i.... ......... __ ....... _.__,..,,._ ...,_...._....._ ......... _ ......................... _,....ti..._. ..... .....___ ......... ~ .. _,._....,.,...,_. ............ telf...._.., C.-.. 1111. JtUh a - ........ -... ..... i. ...... , ........... _ .. ................ ... ............ ....... siva. Mi sembra che nella storia di Chance (nel romanzo e nel film) la televi,:;ione,questa scatola di ombre, di finzione, abbia qualcosa a che fare col mito platonico della caverna. Non a caso quando Chance esce dalla sua tana civilizzata .(come lo schiavo del dialogo platonico) non si accorge nemmeno di avere a che fare con la realtà, che è un'altra cosa dall'immagine televisiva. Con il suo tele-comando televisivo elettronico (che tra l'altro egli impugna come uno scettro: si crede infatti padrone della realtà) egli cerca disperatamente di «spegnere» il mondo, di cambiare canale, quando lo perseguita qualcosa di fastidioso. R. Questo che lei mi dice dimostra ancora una volta l'influenza della cultura classica su di me (conosco sia il greco che il latino). E non è un caso che nessun critico americano si sia accorto di questo rapporto. Perché tre cose sono fondamentalmente assenti nella cultura americana, nell'educazione. La dia/euica, per prima cosa, nel modo di concepire la psicologia e nella logica. Non esiste il carauere cinico, bizantino: non si analizza che un aspetto soltanto delle cose; non c'è che un unico còté della realtà; non ci sono mai cambiamenti, verità simultanee. Ogni cosa ha un aspeuo solido, univoco, rimane fissa nella sua ouica stabile. D. Forse è per questo che il film, in originale, si chiama Being rhere, un titolo abbastanza heideggeriano, che si richiama anche a quella passività cui lei prima alludeva? R. Sì, probabilmeme; ma al titolo arriveremo. Vorrei concludere questa storia dei tre e/eme/lii che mancano alla cultura americana. Dunque, della dia- /euica abbiamo detto. Secondo: in America non si comprende nulla del linguaggio, non si conosce né il greco né il latino, non si ha insomma il senso della terminologia, della formazione nel tempo della lingua. Cioè manca il senso d'una cultura classica alle spalle, d'una civiltà che preesiste: quella per esempio che la fa parlare di Platone, di un milo che precede qualcos'altro. Non c'è mai uno sdoppiamento della realtà, dell'immagine, appunto, quel senso di profondità di cui si diceva. Quando guardo una trasmissione televisiva, mi sembra che ogni volta manchi il discorso esplicito. La televisione non dice mai, esplicitamente, «io vi do una prospeuiva», «io sono la realtà»; ma allo stesso tempo non dice 11emmeno «io sono dramma, io sono teatro»; la televisione è un medium molto ones10:dice soltanto, io sono televisione. Tocca a voi decidere se utilizzarla o no. D. Forse le cose sono un poco più complesse. R. Certo, ma 1101d1imentichiamo la funzione decisiva della pubblicità che spezza ogni programma: è la democrazia del découpage. Tutto è tagliato: Shakespeare è ragliato,il dibauiro politico è ragliato, lo sport è ragliato. Non c'è più la progressione del dramma. D. Beh, forse questo straniamento sarebbe piaciuto anche a Brecht... R. Sì, ma che cosa succede poi della realtà? Dieci a1111di Vietnam alla televisione, che cosa hanno insegnato? Che i programmi erano così banali, così poco drammatici, che il risultato èstato il disinteresse. I soldati tornavano dalla guerra e la società li abbandonava completamente, perché era disgustata da questa banda di poverelli, da questi «allori» così poveri e così naif, privi di pathos. Acca1110ai programmi del tipo Charlie Angels eccetera, il Vietnam è qualcosa di vecchio, di noioso. M'è capitato qualche volta di dire «vado a visitarequalche reduce» e ruttigli amici mi rispondevano: «oh, poverello!» come se fosse un' appun:amento con la noia. Ma perché 11oiosi?«Perché li ho visti alla televisione». D. Già Benjamin diceva qualcosa a proposito della perdita dell'esperienza, nella capacità di raccontare. Ma . quanto alla funzione della televisione, per esempio per quanto riguarda il Vietnam, lei non pensa che il fatto stesso di vedere periodicamente qualcosa di vero alla TV, tra la confusione di altri programmi, finisca per de-realizzare la realtà stessa? È vero che l'immagine è più eloquente della parole, per quanto riguarda l'accaduto; ma forse che non .erano più incisivi certi resoconti giornalistici della guerra (che so, di Hemingway o di Mailer) che non gli stessi reportage televisivi? È probabile che esista anche un'assuefazione all'effetto-choc; appunto, questo rischio che il vero diventi finzione, favola, réclame. R. È indubbio che il rischio stia proprio n, nel fauo che una ideologia malintesa di democrazia ritiene che tutto debba essere messo sullo stesso piano. La TV non conosce gerarchia, ruuo è piccolo, nel piccolo schermo, persino le autorità, ilpresidente, tutto è allo stesso livello, minuscolo. Mentre bisogna avere il coraggio invece di dire che nella realtà ci sono cose più grandi delle altre. L'orrore di questa gente che passa lagiorna/a alla TV è che non guarda un reportage sul Vietnam, oppure un incontro con lo scri11oreKosinski, ma guarda la tv e basta. • D. Ma lei, con queste premesse, fa della TV? R. Ceno e anche molto spesso. Perché non è della TV in sé che bisogna avere paura, ma dell'uso che se ne fa, dello spenarore sbagliato: il medium in sé non è cauivo. Non è l'automobile che è pericolosa, è il conducente. Non dimentichiamo poi che il sogno di uno scriuore è quello di conoscere i costumi, la vita quotidiana del /euore medio, che cosa fa nel suo privato. Ebbene, quando guardo la TV io conosco bene il clima mentale del mio leuore potenziale. D. Lei non fa nessuna differenza fra i vari spettatori, per esempio di diverse civiltà? R. Non c'è dubbio che esiste un elemento comune, il fano cioè che la televisione sia sempre una superficie che non mostra le motivazioni più profonde. Cioè superficie come maschera, travestimento, camouflage. Ma forse è vero che per gli europei tulio ciò è un po' diverso, e qui si torna a quella questione cauolica di cui parlavamo prima. In Italia, per esempio, la frequentazione dell'immagine come superficie è più antica, è una «realtà» storica, direi; nasce con la cultura cristiana, perché la realtà è immagine di Dio. Come si conosce Dio? grazie all'immagine, al riflesso, alla replica. Noi siamo delle copie, Dio è ilgrande Sano Supremo, che sta là, invisibile, e noi siamo gli abiti. D. Il tema del doppio, del sosia, insomma, ancora una volta, Platone e il mito della caverna. R. Esauo, invece in America tu110ciò è molto diverso, risponde ad un altro cara11erestorico, quello anglosassone. L'America è un paese di antichi emigranti, che lavoravano ed erano traumariu.ari dalla loro situazione storica. Traumatizzati al punto che dicevano «qui bisogna a11raversarel'Atlantico», trovare l'eden originario. Sono traumatizzato, mi hanno violentato la moglie, ucciso i figli: voglio l'eden, datemi la passività. lo sto seduto, portatemi runo in casa. Si sta a guardare, le cose vi vengono servite. È il sogno di chi visita Roma; siete sempre in sciopero, è vero, ma l'impressione è di abitare una romba frenetica. A Roma non si leggono i giornali, scrivere una cartolina è una fatir:a immensa, si guarda soltanto la vita, ma senza parteciparvi, si resta nei caffè: una vita come sogno. E la televisione per gli americani è appunto Via Venero nel tuo living room. Ma le conseguenze sono disastrose. Se Via Veneto è la sola mentalità, ci si guarda vivere e la viraci sfugge. D. Che cosa pensa della situazione mondiale del cinema, anche nei confronti del dilagare della televisione? R. Quello che mi ha stupito molto, parlando oggi con un distributore italiano, è scoprire che quasi tulli gli attori, le vedettes che io amavo, lavorano ormai nel cinema porno ... D. Non c'è dubbio che in Italia, se una presentatrice televisiva si spoglia, su una rivista, ha subito un automatico successo scandalistico. R. Ceno, è la volontà di possedere tu/lo, non soltanto l'immagine di superficie della TV. E a questo proposito dirò che a tuni questi problemi c'è soltanto una risposta, che potrà forse essere positiva: l'inflazione, una soluzione che mi piace molto. li living room diventa meno confortante e la passività della televisione ha meno senso. Cannes, I 980 (Ha collaborato Paolo Mereghetti)
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