media•, che tuttavia si impongono, giungeranno fino a noi, con caratteristiche formali e sostanziali !fresso che immutate. All'inusitato drama {lo richiamerà, con buffonesca enfasi il solo Aristofane: in quella magistrale lezione di drammaturgia offertaci nelle Rane), all'aulica se non estetica terminologia del dram, Aristotele correttamente sostituisce il pràttein per indicare l'azione, il participio pràtton sia per chi crea, sia per le persone implicate: a livello strutturale nonché operativo, nel canovaccio come sulla scena. Aristotele probabilmente inventa, almeno sul piano concettuale. Una invenzione apparentemente isolata: manca in Platone, non ha fortuna in seguito. Anche se la dottrina (non la prassi!) teatrale latina, sembrerebbe puntualmente riprenderlo: agere, actus, actw, actor in particolare modo, subiranno una fortunata specializzazione tecnica, giunta fino a noi. Ma non all'interno della drammaturgia latina, va ribadito, che (tranne nei Prologhi terenziani, e isolati quanto ambigui passi plautini), ignora programmaticamente ognuno di questi termini. LI attore in greco (ma solo in greco?) non ha nome né presenza. È di nuovo Aristotele a fornircene ragione: non può averne, perché è lo stesso poeta ad «agire• in scena. Qullndo si aggiungerà, sembra con Sofocle, un secondo attore, soprattutto quando il poeta rinunci ad esibirsi da protagonista, si dovrà aggregare un sostituto: sarà inizialmente un altro poeta (il mite Cratete lo sarà del ctauròfago• Cratino), quindi un estraneo. Strutturalmente egli sarà un outsider. Aristotele, pur lamentando la oscurità impenetrabile della preistoria drammatica, sottolinea che si tratta di «volontari•. Al «coro• e al suo istruttore, inizialmente allo stesso autore (con finalizzato intervento) provvedeva lo Stato ateniese: alla imprevedibile gemmazione di questo e di ogni altro operatore, ormai scenico e non più rituale, soccorrerà la improvvisazione. L'attore è dunque senza nome: anonimo (come abbiamo constatato) per lungo tempo: privo di riconoscimento,. di sostegno ufficiale. C'è da sospettare, che al vecchio «rituale• drammatico (ambigua funzione politico-religiosa) erano obbligati i cittadini di diritto, alla nuova e sotto molti aspetti degenerante funzione saranno destinati individui marginali: essa costituiva una lacerazione dello schema consacrato, conduceva ad una irreversibile secolarizzazione. Sdegnosamente Platone intimerà di lasciare questo ignobile compito a schiavi e stranieri: è verosimile che egli invochi una (a suo giudizio) salutare restaurazione. Anche a Roma sono attori schiavi e liberti, generalmente considerati infames, non avranno cittadinanza (il loro caratteristico nome di e istrioni» è importato dall'Etruria, apertamente rifiutato), non l'avranno nell'evo di mezzo, rischiano ancor oggi una pur onorevole ghettizzazione. Ma senza nome è già la .funzione dell'attore. Il pràtton di Aristotele ne designava (tutt'altro che esclusivamente) la dimensione operativa. Il termine che in genere e da sempre si usava in Attica era invece hypokritès, un deverbale da hypokrìnomai. Di ambedue non v'è (ovviamente) traccia nella tragedia, nei documenti letterari di tutto il V secolo. Sarà di nuovo la commedia a rompere impertinentemente il tabù, a deridere un non meglio identificato hypokritès, ad usare un'altra ed ambigua volta il verbo hypokrìnesthai. Istituito nel 449 l'Agone degli «attori• tragici, il termine necessariamente emerge dalla clandestinità. Esso imbarazza non soltanto per la equivoca significazione, ma sconcerta già dal punto di vista_ linguistico. L'attico ignora infatti hypokrìnesthai: se lo si equivalesse, come già suggeriscono fonti antiche, ad un ritualerespondere, sistematicamente verrebbe sostituito dall'usuale apokrìnesthai. Ma la funzione del «rispondere» ha tutta l'aria di essere inventata: l'attore non «risponde• al Coro, anche se non di rado lo impegnerà dialogicamente. Ancora una volta è Aristotele ad avvertirci, che il «dramma» nasce quando a prevalere sarà la «parola»: egli usa, significativamente, protagonistèin. Ma intende qualcosa di assolutamente nuovo, il «dialogo» fra attori, il latino deverbium insomma, cui si oppongono costitutivamente gli interventi corali (i cantica), sia melici sia orchestici. Il gruppo hypokrìnomai, hypokritès, hypòkrisis, fino alla odierna «ipocrisia:. (che ha un farisaico tramite neotestamentario) è del tutto estraneo all'attico; indica una funzione tecnica, che sola può giustificare la sorprendente mutuazione. Proviene dalla Ionia, terra di raffinata cultura, ma priva di teatro. Il verbo è già in Omero, con una emblematica specializzazione. Genericamente L_;:===::::::::..l!!!!!!! indica il «rispondere», ma peculiar- materializza una «parte»: altrimenti mente significa quella elaborata ed potenziale, muta perché verbale. anzi isipirata risposta che forniscono gli indovini. Essi in realtà «interpretano» una proposta, una situazione, un indizio. Sembra indubbio che hypokritès e simili esprimano uno specifico talento: non volgarmente esegetico, ma di intuitiva penetrazione, di insostituibile mediazione. La radice verbale sottolinea (come nell'italiano, e già nel latino «discriminare») un sottile «discernere», una intelligenza che la preposizione, in sostanza attenuativa, definisce congetturale, induttivamente costruita. L'indovino, col suo hypokrìnesthai, realizza un tramite fra l'occulto, il virtuale, e la verifica oggettivante. L'interprete drammatico «media», visualmente N ella grecità continentale, tuttavia matrice del dramma, il nome del- . l'attore risulta un esotismo. Ma Pindaro offre una precoce, quanto inattesa spia su questa situazione, verosimilmente artificiosa. Egli cantore, ed anzi esecutore di un (ditirambico) Inno, si dice stimolato «a guida di marino delfino», che l'amabile suono dei flauti ha scosso dagli immobili abissi. Eccezionale è lo stilema delphlnos hypòkrisin, di cui si ammanta: non solo perché unico (e precoce) documento nel quinto secolo, ma per l'uso avverbiale ·edunque cristallizzato della problematicahypòkrisis. Il cui significato non si discosta da quello drammaturgico. Più che imitazione, significa identificazione: immedesimarsi ìn un ruolo, renderlo tangibilmente operativo, rappresentarlo. La testimonianza di Pindaro sarà coeva, noi supponiamo, all'insorgere dell'attore: della sua funzione, del suo rango non più che apparentemente vicario. La viscosità delle strutture, formali e linguistiche (sono in realtà sovrastrutture), ignora ed esorcizza l'evento. Eppure anche Aristotele deve ammettere che non vi è dramma senza il motiplicarsi delle parti, senza lo sdoppiamento oggettivo, e quindi spersonalizzato, dell'autore. È dalla sua consapevole rinuncia che nasce l'attore: un linguaggio che non è più comunicativo ma scenico, spettacolare. La tempestiva delega di Sofocle (ma anche di Euripide e di Aristofane), il sostanziale disinteresse per la messinscena, significano l'acutizzarsi del momento creativo, ma anche l'emergere di competenze e professionalità in gran parte esecutive, destinate alla autonomia. Alla morte della tragedia, resteranno in scena gli attori. Scomparsi i grandi autori, essi diventeranno arbitri della rappresentazione: signori, per lungo tempo incontrollabili, del teatro. Nelle Rane (404 a.C.), mancati a breve distanza Euripide e quindi Sofocle, Aristofane proclama la irreparabile fine dell'arte. Vano cicaleccio sarebbe la voce dei superstiti: tale resterà per tutto il IV ed i secoli venturi, fino alla Rinascenza. Aristotele lamenterà, nella successiva Retorica, che «oggi gli attori hanno maggior potere dei poeti». Attribuisce il deplorevole evento alla canagliaggine dei cittadini, con ogni probabilità degli stessi ordinamenti politici, scopertamente demagogici. La nuova platea senza dubbio prevarica, impone i suoi gusti sguaiati, sensazionali, edonistici: è il trionfo della «teatrocrazia», lamenta (negli stessi anni?) Platone. In realtà, deve riconoscere Aristotele, il dramma ha raggiunto il suo culmine, il proprio telos-egli sentenzia-con Euripide: Antifane nella prima metà del IV secolo, Alessi nella seconda, sono prolifici e dunque acclamati autori di commedie (260 ne avrebbe prodotte l'uno, 245 l'altro). Nella tragedia eccelle, con 240 opere, un problematico Carneade, certo Astidamante, ed Astidamante si chiamava suo padre, a sua volta tragedo. Nulla, se non insipidi brandelli, ci è pervenuto di questa esuberante produzione: non· più che consumistica, dunque. Il momento creativo risulta esaurìto: esaurite sono piuttosto le premesse strutturali (economico-sociali, e quindi politiche) della vecchia esperienza drammaturgica. Dai trionfi di Maratona, che coinvolsero non solo nel teatro, ma nella stessa figurativa autentiche istanze popolari (aristocratici kouroi, plasticamente si animano, rompono rigorosi schemi tradizionali), dalla esplosiva esperienza civica della polis ateniese si passa ormai alla soggezione, diretta o indiretta, allo straniero: prima persiana, quindi macedone, attraverso intrighi e sopraffazioni oligarchici. Sulla scena non resta spazio che per l'esecuzione, la variaz.ione, la contaminazione. Necessariamente domina l'attore, l'esibizionismo, il virtuosismo: dilaga la dimensione visuale, melodica, orchestica. Ingigantiscono gli apparati, si ampliano i teatri, impera l'illusionismo, viene travolta l'esemplare, in realtà austera misura di cui si sostanziavano i classici. Ritirandosi o scomparso l'autore, lo surroga l'attore: alla parola, scenicamente evocatrice, si sostituisce l'immagine corporea, il movimento, la sonorità musica e vocale. L'attore non materializza lo spazio, come avveniva nello scabro dramma classico. La mimesi diviene rudemente realistica, naturalistici gli scenari. Il rovello etico, intellettualistico della vecchia tragedia, e non meno della commedia (la Lisistrata di Aristofane nulla ha da invidiare ad Antigone, sua gelida matrice), si dissolve: ne proliferano vistose ma disimpegnate risonanze. li teatro non esprime più religiosa e quindi umanistica tensione: della piccola, energica Città-stato da cui era nato, per cui era fiorito, della sua laica coscienza non v'è memoria. La barbarica, invadente corte di Macedonia sollecita l'estraniazione: di cui l'attore si avvia ad essere possente, non di rado mistificante (se non furfantesco) demiurgo. S ono patetici i rimedi escogitati: i tentativi di restaurazione, paradossalmente, non fanno che esaltare la eversione. Nel 386 (Aristotele nascerà due anni dopo ).si sancisce l'esecuzione ufficiale di tragedie «classiche»: dello stesso anno è la pace di Antalcida, dettata dal re di Persia. Nel 339 si riprendono regolari agoni di. antiche tragedie, solo trent'anni dopo rispunteranno le commedie: ma del 338 è la battaglia di Cheronea, la Grecia diventa un protettorato macedone. Alla perdita della libertà si supplisce con l'archeologia, con speciosità culturali: significativamente, nella stessa occasione, gli attori ottengono di recitare, dunque di perfezionarsi, in un singolo ed impreziosito dramma. Operazioni visibilmente pretestuose, di equivoco riflusso. Già dalla Poetica di Aristotele (che dobbiamo dunque collocare fra le sue prime opere) si levavano insistenti grida di dolore: per l'innegabile scempio della tragedia, integralmente asservita alla spettacolarità. Con rabbiosa reazione, Aristotele espunge dalla compatta struttura tragica, la dimensione visuale, orchestica, musicale. La ritiene inessenziale, la dichiara non scettica, eterogenea. «Teatrale», par che suggerisca sdegnosamente, riservandosi in proposito altro e non di necessità impertinente discorso. Il «classicismo» di Aristotele appare in conflitto con il suo stesso tempo: risulterà tuttavia vincente, alla fine del secolo, nei successivi millenni. Se il teatro rischia di essere sopraffatto dall'attore, non si salverà reprimendo i reprobi. Aristotele, oltre al biasimo, non ha nulla da offrire. li forzoso privilegio del supporto verbale, lo conduce ad una concezione miserevolmente letteraria della tragedia. La cui «parola» è senza dubbio scenica, rappresentativa prima che comunicativa, esuberantemente metaforica. Ma esangue, per la più fervida delle fantasie interiori.: è concepita (come Aristotele sostanzialmente conferma) per essere agita, materjalmente raffigurata. Si è dubitato che, malgrado le incontestabili denuncie, Aristotele sia mai stato a teatro: ne sarà certamente fuggito, torme di rumorosi teatranti .... ·:.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==