Cfr. / Kinkan Shonen (Seme di Kumquat) Spettacolo della compagnia di teatrodanza giapponese Sankai Juku Regia di Ushio Amagatsu Lo spettacolo Kinkan Shonen, rivelazione dell'ultimo festival di Nancy, ha attirato molto pubblico anche in Italia, dove è arrivato per iniziativa dell'Arei di Roma. Un successo accuratamente programmato ma anche sapientemente meritato. Corpi, son et lumière, senza una parola, solo qualche grido, in una tensione credo insuperabile e insieme una capacità di sorprendere che ritrova le radici della spettacolarità del teatro. Ma anche un'accentuazione holliwoodiana dei toni e dei suoni e una scelta decisamente Kitsh per l'ultima scena; quella che piace di più è proprio quella che vale meno, quasi vuota di risonanze che non siano quelle funzionali alla semplice visione dell'uomo-attore, animale cacciato e catturato, appeso per lunghissimi minuti a testa. in giù (del resto a Roma si sono presentati al pubblico facendosi appendere a testa in giù dal belvedere del Pincio), sullo sfondo di un cielo troppo azzurro. L'impressione è quella di un compromesso ma con punte di tagliente a~tenticità, come nella sequenza iniziale dove si alza e si respira la polvere di Hiroshima e Nagasaki, e in quella in cui un pavone recita con e come l'attore e viene lasciato libero sulla scena dove continua a passeggiare fino alla fine. Strepitosa è la sequenza dei guerrieri che iniziacon un alfabeto inventato dal movimento delle mani e finisce con una danza intensamente erotica senza che mai un colpo d'anca superi neppure di un centimetro la misura esatta dell'eccitazione che si trasmette prima lentamente poi freneticamente agli spettatori, donne e uomini, annullando ogni distinzione sessuale. li teatro-danza (e questo è denominato BUTOH e ha trionfato nelle rivolte della fine degli anni 60 sotto l'influsso di «Potere Studentesco») ha successo perché testimonia della disciplina del corpo che a questi livelli è linguaggio articolatissimo, mai stereotipo. Si sa che noi occidentali non abbiamo neppure imparato a respirare: cominciamo dal teatro. a.p. Vicinle La terra, i segni nella scultura in legno di Franca Ghitti Introduzione di G.C. Argan Milano, Scheiwiller, 1980 pp. 149, s.p. Chi sfoglia Ja serie di sculture in legno di Franca Ghitti, ·riprodotte con grande eleganza in questo bel volume, è davvero colpito dalla capacità della scultrice di comunicarci un autentico messaggio dell'arte contadina delle comunità rurali della Valcamonica, dette con vocabolo giuridico Vicinìe. Le sculture lignee si raccolgono a gruppi che scandiscono i ritmi di una vita socioculturale: Mappe, Rituali, Rogazioni, Litanie, Storie dei morti, Riti nuziali, I clan, I reliquari, cui seguono Documenti di base o fotografie del territorio dove ha vissuto con misure secolari una civiltà contadina. li potere evocativo e simbolico delle tavole lignee e .delle sculture della Ghitti è molto alto; siamo di fronte a vera arte, dove il mondo del primitivo e del secolarmente statico, intriso di miti, riti, magie é fatiche popolari, ha subìto un processo di stilizzazione che ne salva tutti i significati. Giustamente Argan annota: «(la Ghitti) ha scelto come terreno d'analisi una comunità ancora legata all'antichissimo linguaggio delle cose; ha studiato i sensi simbolici delle sue immagini, dei suoi strumenti, dei suoi oggetti; ha soprattutto cercato di liberare da tutte le sovrastrutture la sostanza della plastica contadina». Chi ha visto le scritture delle rocce preistoriche della Valcamonica non può non scorgere l'eccezionale e un po' visionario legame che l'opera della Ghitti sa istituire fra le cose del reale e i segni iconici della scultura: le statuette lignee, accostate a coppia o a gruppi a comporre un contesto sociale, e i loro gesti corporali appena accennati sono incantevoli, sono congetture dell'Eterno. Marica Larocchi Lingua dolente Milano, Società di poesia, 1980 pp. 70, lire 5.000 La poesia di Marica Larocchi, quale appare $la questa recente raccolta di versi, si segnala all'attenzione critica per il sapiente trattamento della materia linguistica. li risvolto di copertinariprendendo una tematica che è di Julia Kristeva - parla di una «linguabambina», preverbale. Personalmente ritengo invece che i giochi di parola, le assonanze, le geminazioni, le ripetizioni, le rime, e tutti gli altri artifici che i testi della Larocchi contengono, siano il frutto di una ben consapevole operazione espressiva, di una tecnica quanto mai raffinata: non di un «recupero» della lingua infantile, ma di una sua divertita ricostruzione mimetica, tutta attraversata da una viva coscienza critica del simbolico e dei giochi che esso - mediante l'esaltazione e la elaborazione del significante - permette. Poesia, quindi, che si dimostra e vuol essere «colta», persino in un suo risvolto di ironia e di gioco. E ciò soprattutto nelle due prime serie (o «poemetti») incluse nel volume, «Verde pubblico» e «Luogo e formula», che mi sembrano le più personali e riuscite. Nella terza serie, « In questa forma», gli elementi di gio.coe di ironia si attenuano, e la Larocchi appare interessata a un discorso poetico più teso e tradizionalmente «lirico». Una nuova direzione? Se è così, le qualità poetiche dell'autrice daranno, anche in essa, probabili frutti Mario Spinella «Crisi della letteratura?» Fascicolo di I problemi di Ulisse • Firenze, Sansoni, 1980 pp. 128, lire 6.000 Il questito sulla crisi è consumato in questi anni e vale piuttosto negli accertamenti sulla «realtà»; mi pare sia meglio porre quello sulla perdita di senso. E mentre ora la letteratura ha ripigliato fortuna nel «tirato e venduto», con motivazione di riflusso, per ciò stesso il nuovo e mordente risulta piuttosto oggi nella produzione teorica. Inoltre per chi, come me, intende e dal '50 pratica la letteratura in rapporto con la filosofia, la cultura, il processo, ora si dà un tempo ancora più controverso: dopo Lotman che (per «paradosso» dice altrove F. Fortini) ha dato a questo rapporto un nuovo senso (non però dialettico, mi pare) proprio nella semiotica già differenziata e distintiva ... (C'è in Urss un apprezzamento di Della Volpe per questa via). Ma con spartiacque misurato e tagliente sui caratteri della produzione letteraria ragiona qui M. Spinella, in merito alla «morte del romanzo». Fra le spiegazioni del fenomeno e della qllestione individua come la più convincente quella di una consapevolezza che la realtà si è «dilatata e fatta abnorme» (con termini di Gramigna) e che il sogg~tto non ha più modo né tempo per «una storia in senso forte». E l'ultimo Calvino coi dieci inizi gli sembra «un unico nodo, narrativo e teorico insieme». Spinella centra la crisi come propria di una forma romanzesca: quella della riproduzione o interpretazione di un reale presunto, e cioè duplicativa, con campioni ottocenteschi. Espone dunque i caratteri differenti (finzione, ironia, realtà testuale, ecc.) di una struttura in transizione, confrontabile piuttosto con campioni settecenteschi, e già presente nel punto «decisivo» e «non solo italiano» segnato da Svevo·e da Gadda. Ottimamente. (Ciò in cui non sono d'accordo con Spinella è la sua valutazione del luogo marxiano nell'introduzione del 1857, che io leggo relativo alla «durata» dell'opera e alle sue connessioni, piuttosto che alla «fine dell'arte classica» in senso hegeliano.J Va indicato inoltre uno scritto di G. Ferretti sul lavoro editoriale e sul mercato, dai condizionamenti e scelte alla politica di recensione, commentando una ricerca incorso di G. Grossi e altri. Mi interesserebbe in proposito che il rilievo sociologico fosse poi svolto in rapµorto all'analisi generale della fase: per comprendere meglio oggi la «messa in latenza» del libro non pubblicizzato, e dell'autore non recensito, con uno spettro di conseguenze sulla produzione «minore» e sullo statuto dell'intellettuale. Il resto del fascicolo, con rassegne e interventi, è farcito. Francesco Leoneui Andrea Cappellano De amore A cura di Graziano Ruffini Milano, Guanda, 1980 pp. 374, lire 32.000 L'attuale voga del rnedio evo, di cui c'è solo da rallegrarsi, ha ispirato la presentazione di questo elegantissimo volumetto. L'opera, ben nota ai nostri scrittori del Trecento, nell'epoca moderna non era più uscita dalle mani degli specialisti. E credo colpirà il lettore comune, per la franchezza del linguaggio, l'audacia delle tesi, la modernità dell'impianto sociologico (si danno istruzioni diverse secondo la classe di appartenenza dei due amanti). Molto, non tutto, si spiega nel quadro della cosiddetta «civiltà cortese», una rivoluzione del costume le cui conseguenze, in parte, sopravvivono nei nostri comportamenti. E su cui l'introduzione si sarebbe· soffermata utilmente; anche se premeva la necessità di esporre le ipotesi sull'autore, sull'epoca e sull'ambiente. Cappellano alla corte di Maria di Champagne o ciambellano di Filippo Augusto re di Francia? Più vicino a Chrétien de Troyes o ai dotti della Scuola di Chartres? Anche utile sarebbe stata una descrizione della struttura dell'opera, che va dal trattatistico al romanzesco, dal dialogo allo scambio epistolare alle «questioni d'amore», che sarebbero diventate per secoli un gioco prediletto dalla società letteraria (si ricorderà almeno Boccaccio). La sottigliezza dello stile non ha ancora trovato chi la analizzi. Avrebbe potuto e dovuto trasparire da una traduzione moderna attenta come quella francese di Buridant. Purtroppo Ruffini ha preferito pubblicare a fronte del latino un antico volgarizzamento fiorentino (che chiama impropriamente «traduzione romana» solo perché il codice è alla Vaticana). Cosl aveva già fatto, usando un diverso manoscritto Battaglia nel 1947, ma era meglio non seguirlo. t una traduzione che impoverisce, confonde, pasticcia. Cesare Segre r--. I • Renato Barilli Viaggio al termine della parola La ricerca intraverbale Milano, FeltrineUi, 1981 pp. 128, lire 4.000 Nella fortunata collana «Scritture Letture> che la FeltrineUi ha varato circa un anno fa e che vanta al suo attivo testi di Peter Handke, Nanni • Balestrini, Filiberto Menna e Tommaso Ottonieri, esce in questi giorni un testo di Renato Barilli, completato da un'esauriente antologia esemplificativa, dedicato alla poesia intraverbale, dunque a quella ricerca poetica che sonda i limiti del senso, scompone il significante fino a esaurirne le possibilità, appunto come se si compisse un «viaggio al termine della parola>, attraversando le stratificazioni che la storia ha depositato a testimonianza di ogni passaggio dell'umana avventura. Giustamente l'antologia i!lizia con due pagine della traduzione di Finnegans Wake, curata dallo stesso Joyce e da Nino Frank, per stabilire un termine a quo, la barriera che è necessario affrontare e superare se si ha in animo di sondare l'insondabile, sempre ii'.i senso linguistico, non metafisico. Si arriva fino alla sparizione della parola o, meglio, alla sua trasformazione in pura traccia, alla pittura, di dove ha inizio il cammino di una simbologia soltanto emozionale. La ricerca intraverbale, per utilizzare la felice definizione di Renato Bari Ili, da anni tra i più attenti studiosi del fenomeno, è lavoro necessario ma non finale, è esercizio non eludibile ma che rimanda a un lavoro successivo (tranne nei risultati di scrittura del tutto «visiva» che sono un salto di campo): per dare significato a un lapsus è necessario «spiegarlo» e con questa spiegazione comincia quella ricerca di senso che il lapsus di per sé si limita a segnalare, come una spia che si accende. Proprio ai confini tra non senso e senso stanno le poesie intraverbali più riuscite, quelle che sono già in grado di dispiegare la forza di un'immagine. Un libretto indispensabile, dunque, che si pone tra documentazione e stimolo, tra acquisizionei ricerche,viva testimonianza di un lavoro che ha radici profonde nelle mutazioni stesse della lingua. Antonio Pona Patrizia MagJi Corpo e linguaggio Milano, L'Espresso, 1980 pp. 170, lire 3.500 I titoli, soprattutto quelli dei giornali ma anche quelli dei libri, sono le più raffinate forme dell'adescamento contemporaneo, e questo titolo ne è certamente una prova. t un titolo che non mente, garantiamo, ma è un titolo che ammicca ad una tematica un po' movimentista, un po' alternativa, un po' di moda di sicuro effetto. Il libro è però qualcosa di più, e anche qualcosa di diverso. Racconta infatti la storia dei modi con cui il corpo è soggetto e oggetto di comunicazione, e dà un quadro estremamente preciso ed informato dello stato degli studi in quell'area della semiotica che dagli anni cinquanta viene denominata come «cinesica e prossemica>. Ma il notevole merito di questa guida non sta solo nell'informazione, bensì nell'organizzazione dei materiali. Si comincia con la dimostrazione che anche il nostro corpo è linguaggio, al pari di altri sistemi non verbali e al pari della stessa lingua naturale. Si riflette poi sui grandi apparati dell'antichità che attraverso la retorica e l'analisi delle passioni si sono occupate di alcuni aspetti della sua capacità comunicativa. La parte centrale del volume indica poi gJistrumenti di analisi e di sistematizzazione (con particolare riferimento ai modi di produzione segnica nell'accezione di Eco). Il finale, invece, si sofferma sulla possibilità di leggere la comunicazione corporea come un testo, aprendo cosi interessanti prospettive di indagine per un settore, come quello dell'interpretazione dei testi filmici, teatrali e, perché no, pittorici, finora forse chiuso nella ricerca di una introvabile specificità. Gianni Vattimo Al di là del soggetto Milano, Feltrinelli, 1981 pp. 85, lire 3.000 o.e. Un opuscolo che raccogli i possibili esiti pratici, politici ed etici, della riflessione su Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica che Vattimo aveva sviluppato a livello prevalentemente teorico in Le avventure della differenza (Milano, Garzanti, l 980). Un'accentuazione delle conseguenze pratiche che comporta però non irrilevanti aggiustamenti teorici. Siamo infatti abituati a vedere in Nietzsche o un pensatore della violenza oppure - da dieci anni in qua - un fautore della liberazione come emancipazione totale; così come ci siamo abituati a pensare la filosofia di Heidegger e l'ermeneutica come discipline un po' astratte, legate a una esperienza del pensiero molto individuale, e difficilmente traducibile in termini politici - quando non addirittura politicamente assai sospette (l'adesione di Heidegger al nazismo, lo scarso engagement dei teorici dell'ermeneutica ...).
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==