e la natura combacia romanticamente con l'arte, mentre la flèche trascolora coll'avanzare del crepuscolo. Alla sera, finito lo spettacolo, restava ancora il tempo di saltar su un treno e di raggiungere Nancy prima dell'alba, per godersi una propaggine decentrata della scuola di Strasburgo, vedere cioè in sede di Festival, in una radura ai margini di un bosco, André Engel che gioca col fuoco e cogli elicotteri e fa giostrare il suo Prometeo terrorista sul tetto d'una vecchia fabbrica incendiata, mentre irrompe guidata da Ermes la polizia. Ma certo la metafora guadagna al racconto. Il contesto invece non riesce a compiere la traiettoria che aveva portato il maestro, sempre inteso come Griiber, da Berlino alla Sicilia, partendo da Hòlderlin per arrivare a Empedocle. Sulle falde dell'Etna, con Bruno Ganz, la troupe degli esploratori germanici riesce solo a concludere il film che allo spettacolo preventivato per Taormina avrebbe dovuto far da supporto. Ma lo spettacolo vero e proprio, studiato per anni, da sdoppiare nella notte senza luce e nel mezzogiorno senz'ombra, l'antologia dei presocratici affondata in un'arena greca completamente allagata sotto le nubi finte di Gilles Aillaud, non arriverà alla realizzazione. In questo suo fallimento si può forse rintracciare uno degl'indici più sintomatici della stagione aperta sulla nuova decade; e anche la conclusione d'un tragitto proiettato da anni fuori dai teatri, già idealmente negli attendamenti o nella stazione di Empedocle, e poi di fatto nello stadio olimpico di Winterreise e nell'albergo smesso di Rudy, proprio davanti al Muro. Ma quella era una peregrinazione per Berlino alla ricerca di qualche radice. Dentro lo stadio-lager di Winterreise si misurava, attraverso la tensione alla corsa o al gesto sportivo, la costrizione alla velocità degli attori-atleti, circoscritta dall'ambiente; gli altri, massa più che interpreti, s'addensavano senza meta davanti alla riproduzione fotografica in cartone a grandezza naturale d'un rudere senza spessore della stazione distrutta della vecchia Berlino: «All'inizio doveva essere gente che ha deciso di andare altrove, di continuare a viaggiare», mi aveva detto il regista in quei giorni del dicembre '77. «E invece gli han detto di no, tu non viaggi più. Il viaggio per me è in qualche modo l'espressione più felice dell'essere vivo. E poi ti arrestano. li tema è quello del viaggio». Che non si compie, come sarebbe avvenuto anche in Sulla strada maestra, atto unico di Cechov da Griiber preparato e non allestito. Come è stato, dopo l'arrivo a Taormina. Ma qualcuno che era partito Verso lo zero è riuscito a approdare. «L'astronave sta arrivando suGiove. Vedo la Germania di notte» ha detto Hanna Schygulla, chiudendo la performance di Magazzini Criminali, tra gli urli dei non alieni, in un momento di emozione assoluta, in un altro stadio coperto di Monaco, microcosmo di azioni urbane- roteare di luci e di sirene, l'incidente automobilistico simulato con la vittima al suolo, l'irrompere dei saltatori a ostacoli e dei pattinatori, la moto accerchiante che non inanella i suoi giri- e a un tempo capsula spaziale per le esercitazioni a squadriglia, l'ansia degli all'erta, le provocazioni spionistiche, gli attacchi ritmati e implacabili - tutti in piedi, tutti a terra, tutti alle sdraio, tutti in corsa, tutti fermi, pronti via!!!-di questi mutanti protesi sulla strada inquietante del non ritorno. La stessa formazione - anche se il colore delle tute a volte cambiava - l'avrei rivista spuntare continuamente nel mio vagare per l'Europa, chiusa nella stanza ermetica della sua astronave, in un campo astratto come le zone attraversate, reso asettico dall'ingresso nella fiction, segnalato dalle nenie stressanti di Brian Eno, oltre il bue.o nero del linguaggio ma senza nostalgie per la gravità perduta in Punto di rottura, nell'involucro di veneziane azzurrate dai neon di Crollo nervoso, contenitore allo stesso tempo di un aeroporto o d'una camera d'albergo, ma immaginati all'interno di un deserto, e frutto di una proiezione simulatoria durante un itinerario interstellare; e eccoli protesi in un Blitz urbano a una stazione di servizio vicino al casello di Santarcangelo o tra le giostre impazzite ma deserte di un luna park di Rimini, per ridestarsi qui al Lindhalle di Olympia come il transfuga dell'ultima Odissea. Indifferenti alla lottizzazione dei generi tra i luoghi sacri della nuova geografia, erano ll a imporre la propria mappa di abitatori delle galassie, di gang dell'underground, di transumananti delle zone deterritorializzate, di viaggiatori per il puro senso del viaggio, che mentalmente ripete ancora e sempre le note scorrerie di meteci nelle tenebre. Nella rapinosità dei loro passaggi si son sentiti chiedere a Monaco cosa volevano dire, alla Rassegna degli Stabili in che consisteva la quotidianità di questa fantascienza, a Amsterdam se erano stati influenzati dalla ricerca americana, a Lille se amavano il cinema, a Bordeaux se appartenevano al teatro al cinema alla musica alle arti visuali o ai plurimedia, a Santarcangelo se erano attori, a Polverigi qual era il loro training, a Belgrado contro chi si dirigeva questo attacco. Sl, è vero, erano riusciti a far coesistere Saigon e Los Angeles, l'Africa e noi, l'anno della discesa sulla luna col fatidico 2001, l'incertezza di oggi Immagini dell'economia del vicolo col giorno di Mogadiscio. Ma erano soltanto dei nomadi del teatro che perpetuavano un viaggiodentro al loro viaggio, come la gioia sta dentro alla disperazione, cercandosi delle protesi alle loro membra computerizzate invase dal ritmo, in una nuova coreografia che aldilà del gesto trova una dimensione nella sintonia delle intensità, catapultati nel campo della velocità pura. «La velocità assoluta è quella dei nomadi, anche quando si spostano lentamente. I nomadi sono sempre nel mezzo. La steppa cresce nel mezzo, essa si trova fra le grandi foreste e i grandi imperi. La steppa, l'erba e i nomadi sono la stessa cosa. I nomadi non hanno né passato né avvenire, ma solamente delle pluralità di divenire, diveniredonna, divenire-animale, divenire-cavallo: la loro straordinaria ane animalista. I nomadi non posseggono storia, hanno soltanto geografia» (Gilles Deleuze, Claire Parnet). M a non in soli spettacoli o nei soli branchi instabili di chi fa spettacolo s'imbatte il viaggiatore. Anche quando preferisce la penombra e cerca di sottrarsi a seminari e simposi, la sua strada è destinata a intersecare quella di altri critici vaganti, che a loro volta obbediscono a propri itinerari, e non sempre sono quelli canonici; capita anche a loro come ai gruppi di rintanarsi in luoghi d'incontro obbligati, i post-avanguardisti a Pistoia o a Mantova, i terzoteatristi a Pontedera o Trappeto o Polverigi, gli ufficiali alle Rassegne o alle Biennali, a Avignone o ai festival d'autunno, i globetrotter internazionali a Nancy o a Monaco, a Belgrado o a Berlino. E l'elenco è t,utt'altro che chiuso. A Berlino per l'Orestea di Peter Stein a ottobre, o per le previews delle prime due tragedie a maggio, prima di affrontare le nove e più ore dell'avvenimento (o negl'intervalli con pasto offerto del medesimo) c'era la possibilità di rinnovare molti rapporti privati, di conoscenza. E di aggiungere assieme alle informazioni qualche data al proprio carnet di viaggio. Poi ci s'imboscava nella sala già immersa nell'oscurità, da uno dei varchi che sarebbero rimasti aperti anche durante lo spettacolo, nella sala trasformata anche in scena, perché il palcoscenico vero e proprio era chiuso da un alto muro nero, quello del Palazzo degli Atridi, dietro al quale s'intuiva allo schiudersi delle due porte una fonte di luce, e sopra al quale la sentinella spiava lontano nell'accendersi di una fiammella il segnale della caduta di Troia. Mi accucciai a terra tra gli altri spettatori, su uno dei bassi gradini di moquette lasciati come unico punto d'appoggio dall'asportazione delle poltrone in quella scomoda arena comunitaria, tutt'attorno al tavolo di studio dei vecchi d'Argo nell'Agamennone o alla tomba di pietra del re ucciso nelle Coefore, in attesa che dal centro l'azione dilagasse verso tutti i punti cardinali, invasione pacifica destinata a farsi strada da ogni parte tra il pubblico per rifrangersi alle pareti assieme alle sonorità, uscite da tutte le possibili combinazioni di toni e di volume, lettura monodica, coro, canto, monologo e dialogo drammatico, musica altissima di parole. Avendo già assistito quattro mesi prima alle prime due tragedie in prove pressoché definitive, potevo per una volta abbandonarmi all'emozione senza preoccuparmi di memorizzare e di trascrivere: e allora semisdraiato - quando lo potevo - subivo fisicamente il passaggio dei dodici vecchi coi loro cappelli, i bastoni luminosi, i logori vestiti dalla foggia smessa da qualche decennio, e poi il pianto e il rito delle ancelle di Elettra, e il nascere dei personaggi, Agamennone plastificato che irrompe scivolando su un carrello ferroviario, Cassandra informe vittima vatidnante sotto il velo bianco da suora di clausura, lo specchiarsi dei due fratelli nella loro somiglianza per trovar forza alla vendetta, la Clitennestra di Edith Clever in vestaglia o minigonna, la spada del figlio sul suo seno, le difformità tra i costurn~cosl andanti e quelle parole antiche e letterarie, nell'affastellarsi dei segni sempre davanti al punto fermo del muro invalicabile. Ma due volte alla fine delle due parti il muro scoprirà le sue latebre luminose per lasciar scorrere in avanti l'E"'fkUÀTjµa del sangue e della catarsi, un carro coi cadaveri ridotti a carne da macello sotto la spada del rispettivo vendicatore, approdo al popolare e un derisorio guignol dopo il rigore di quella tragedia sofisticata e in punta di p_enna.Per la terza volta, per le Eumenidi il muro sparirà del tutto, smembrato e dipinto in bianco a vista, per fare uscire cogl'incubi delle Erinn i ancora da domare, con gli dei volanti veramente ex machina, il senso d'una spettacolarità ritrovata; e infine per concludere il viaggio nel disvelarsi della città, manifestata assieme all'affermarsi di un'altra formula politica dal rito ripetitivo e uniforme di una votazione in continuo divenire aldilà della conclusione. Dovendo scriverne, nel momento che di solito corrisponde all'approfondimento e alla razionalizzazione, vedo uscire una sequela di immagini e di suoni, delle isolate contrapposizioni, non il discorso ideologico e unitario del regista. Dovrei chiedermi se era bello? Anche allora in realtà m'importava di più riconoscere quanto era di Stein, cogliere il senso di un'evoluzione, per esempio dal tempo del suo primo avvicinamento ai greci coi selvaggi e affascinanti ritualismi di sei anni fa, e scoprire una passione personale nel desiderio di rifondare nel travaglio del coro, in un intero anno di prove, un nuovo gruppo, dopo che quello originario s'era andato sparpagliando, disfacendosi. Certo m'interessava anche il confronto con il resto del teatro che si vede oggi, cercare delle linee di tendenza, o ripescare i punti di contatto con la geniale e appariscente Orestea di Ronconi, non meno monumentale .neanche per la sua durata. Questa mi sembrava forse meno ricca, ma più segreta attorno a un suo nucleo forse restio a emergere perfino nelle parole del regista, forse perché troppo ambizioso, forse perché ancora prematuro; diciamo il tentati~o di catturare in questa sola visione tutto il teatro. Di sempre. Dopo, a Stein parlai solo delle cose che non m'erano piaciute, il coro delle Eumenidi per esempio chiaramente non abbastanza assimilato. E mi ritirai con Griiber, a Berlino Ìn cerca dei suoi Sei personaggi. A colloquio con un regista, anche quando lo si ama, con un sensitivo come può darsi sia Griiber o con un razionale come vorrebbe magari essere Stein, si coglie spesso un concetto molto diverso da quello che si riscontrerà in concreto nel loro lavoro. La sera prima Peter Zadek, l'altro grande tedesco, mi aveva raccontato l'enorme spettacolo che monterà a gennaio a Berlino, dopo cinque mesi di prove, con sessanta attori e quattro vicende intrecciate; una specie di risposta a Mephisto, utilizzando un romanzo d'ambiente nazista scritto da Fallada nel '46, l'autobiografia della signora Gohering, che era un'attrice di provincia; più una serie di quadri di rivista con scene d'epoca, diretti questi da Jéròme Savary, protagonista assoluto il vecchio Minetti da Zadek stesso rubato per l'occasione a Peymann e al suo spettacolo di Bochum, dove poteva recitare ormai soltanto la sera di riposo delle prove a Berlino, cioè la domenica e soltanto per una volta ancora, proprio in quel fine settimana. 11giorno dopo l'Orestea avrei dovuto pranzare con Ingrid Caven, che a Berlino stava girando un film. La padrona della pensione mi disse che qualcuno aveva telefonato lasciando un messaggio per quel posto a teatro a Bochum che avevo chiesto da tempo senza speranze. In realtà le avevano detto che il posto non c'era, ma che avrei potuto vedere con comodo Der Weltbesserer a fine gennaio quando l'avrebbero ripreso, ma non stetti neanche a sentirla, o non capii, o forse era lei che non ricordava bene, fatto sta che decisi subito di cambiare programma e di partire per Bochum-Minetti via Colonia, con l'unico aereo prenotabile. Non fu una decisione infelice. li volo era allietato dalla pre- ;enza di Hildegarde Knef, un'ombra inesistente dentro il suo completo giacca e pantaloni neri sotto il gran cappello bianco, il volto diafano e disfatto da cui emergevano gli occhi d'acqua tra le lunghissime ciglia posticce, occhi enormi e estranei a quel pallore contratto e teso dal lifting, come se fossero stati presi a prestito da un suo ritratto di un'altra decade: e io vi spiai l'immagine autentica e la verità di Fedora, attraverso la sua protagonista. Visto che avevo mancato Caven e andavo verso Minetti, potevo fare - complice Wilder- qualche interessante riflessione sui miti del divismo. Più modestamente il cinéphile che è in me mi diceva che, andasse come andasse la sera, avevo già avuto la mia razione di spettacolo, dove un'altra emozione «da critico» cercava di affermarsi come esperienza. Ma un viaggio è un vuoto nel tempo in uno spazio neutro: ben vengano a dar senso allo spreco furti d'immagine come questo. A Colonia scesi all'hotel Callas. Poi, lasciato il bagaglio, proseguii con qualche cambio verso Bochum. Era abbastanza comico, essendo in Germania, che tutti i treni fossero in ritardo; ma appresi che il sistema è talmente preoccupato della puntualità del cittadino, da offrirgli una ridda di combinazioni intercambiabili che rendono il non recupero almeno improbabile. Bochum non è una bella città e lo sapevo, ma il fatto di esserci già stato in precedenza da spettatore mi riempì fin dall'arrivo alla stazione di memorie e di termini di confronto. In teatro poi mi venne da ridere ricordando quanto m'ero inquietato per trovare a distanza un biglietto irraggiungibile che poi mi avrebbero dato in ogni modo. Ma Minetti mi tolse subito ogni possibilità di pensiero: per tre ore inchiodato e contratto alla sua sedia come un papa di Bacon ghignante sul mondo, inventava la figura di un grottesco regolatore dell'universo, regalandomi una dimostrazione di quanto può essere moderna la vecchia scuola, quando è veramente grande. E ancora di più mi tranquillizzava la certezza che non °' g.<> ~ sarei mai stato capace di comunicare veramente a qualcuno quella mia emozione. Uscendo, anche se pioveva .9 e le strade e l'androne della metropoli- j; tana erano assolutamente deserti, mi ~ guardavo in giro con fiducia, con l'aria :'.'.'.' di uno che in fondo anche ll si sentiva a "' casa. E pensai con sollievo che comunque qualcosa ne avrei scritto. ...... oc, °' ...... "' ~ .e, <!:!.. .;
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