Alfabeta - anno III - n. 21 - febbraio 1981

a misurari;i con le tecniche dei maestri orientali classici, scuola indiana balinese giapponese cinese, qui per insegnare (ma solo i primi elementari rudimenti, per carità) e per mostrarsi: in realtà per essere vivisezionati, perché gli allievi con l'aiuto di pedagogi)i versati nella psicologia o nella semiologia non tendono a appropriarsi frettolosamente di uno stile, ma a approfondire le motivazioni scientifiche inconsce. L'handicap maggiore è nella durata di un mese soltanto del corso, che avrà peraltro repliche più lunghe in altri lidi (e a Pontedera, da agosto). Ma mentre è troppo presto per dettare un giudizio, e da parte mia sarebbe superficiale, quel che mi preme notare è lo sradicamento di questo corso per stranieri tenuto nella capitale della Bundesrepublik da un direttore italiano da anni trapiantato in Danimarca. «Al limile è la terra stessa che è deterrilorialia.ata ("il deseno avanza"), ed è il nomade a essere l'uomo della te"a, l'uomo della deterritorializzazione - per quanto sia anche quello che non si muove, che resta legato al centro del suo ambiente, deseno o steppa» (Gilles Deleuze, Claire Parnet) Barba come segnale, un primo caso di sradicamento. Davanti allo sradicamento del teatrante, il desiderio di sradicamento di chi ne segue il lavoro e che del teatrante pretende di registrare un riflesso. Per questo mi soffermavo su un viaggio specifico con l'intento di generalizzare uno dei momenti di alienazione di codesto riflettente (il critico, secondo una definizione di comodo). L'esplosione di questa mia ultima frenesia motoria risale più o meno al giorno in cui m'ero riproposto di legarmi a un tavolino a riordinare i materiali accumulati in altre precedenti peregrinazioni più diluite nel tempo: oggetto, un libro di colloqui con una serie di registi guida, da far confluire in un tentativo di compendio scenico degli anni settanta, anche se in modo molto indiretto, col mettere a confronto posizioni relative a problemi concreti e a singole messinscene. Quel che mi colpiva nel rimpallare delle argomentazioni era il generale approdo al soggettivo e l'inseguimento indiscriminato di un problema d'identità; questo tanto per chi non ha mai negato di trasferire sulla scena le proprie ossessioni come Chéreau o Wilson o Griiber, ma anche per Ronconi alle prese con un metodo e con la comunicazione come problema nel Laboratorio di Prato dopo aver accantonato una tradizione d'attori e il teatro di rappresentazione: o per Peter Stein e la M~ouchkine, trovatisi a scavare in testi preesistenti i rapporti interpersonali delle proprie compagnie, o per Barba che arriva a costruire Il milione come un baratto, sempre all'interno del gruppo, di maniere espressive e di singole· esperienze diciamo basicamente teatrali. E cercando soltanto se stesso, ognuno di loro ritrova - anche la Monk, anche Foreman - l'unico sbocco nel metateatro conclamato da Carmelo Bene con una radicalità tale da condurre all'esaurimento del mezzo e dell'artifex, nella loro cerimoniale autocelebrazione. Con una sincerità impensabile pochi anni prima il teatro della crisi risponde al sogno della grande festa popolare del dopoguerra e della scena degli anni cinquanta (Vilar-Strehler), e all'utopia collettivista dell'impegno sessantottesco (Living Theatre). Con unariflessione su se stessi che ha portato la me-generation a uno stillicidio degli one-man-show e questi ultimi storici maestri alla chiusura nel gruppo come conquista, per individuare nella pubblicizzazione dell'unica dialettica per loro raggiungibile un modello da proporre. Quotidianismo? «È il nome che si può dare a un movimento il quale, criticando il dislivello tra il discorso politico e la pratica, introduce gli aspetti pi) 'privati' della vita nel programma politico», dice René Lourau, nell'introduzione con cui correda une serie di contro-manifesti, o di dichiarazioni di autodissoluzione di movimenti d'avanguardia, dal surrealismo (1969, dall'internazionale situazionista, dal primoActuel ai Sex Pystols, alla scuola freudiana di Lacan). Lì si tratta di una fuga «dal politico e dall'artistico», ma qualcosa di parallelo si verifica dentro all'artistico, dove gli annunci di fallimento e i casi di autorinuncia han cominciato a fiorire dopo Berkeley e il Maggio. Ma anche quando s'associano al grido di autodissoluzione e ostentatamente si compiacciono di un distacco spinto a parole fino all'impossibilità di fare .ancora teatro, i dodici che ho affrontato - tutti magnificamente al culmine del successo - usano la loro crisi come strumento di una poetica. E in questo segno di ripiegamento non involutivo si aprono quegli anni ottanta per cui, a differenza del debutto della scorsa decade tenuto quasi in sordina forse per vergogna, si son visti non rari nocchieri dall'alto di nuove onde plaudire alla venuta di un tempo felice. Allora, stimolato dal vento propizio, ma con qualche timore in più, essendo io creatura di terra (e qualche volta dell'aria), mi son rivestito del saio del pellegrino o della djellaba del beduino per andare a scovare le ultime vestigia del teatro. O il nuovo spettacolo avvenire, se è sempre più vero che non esiste una somma di spettacoli discriminabili quanto sono le diverse rappresentazioni, ma uno spettacolo unico o una serie di pochi grandi spettacoli che trov<1nouna loro continuità /11111111gi11i de/teco110111iadel vicolo orizzontale su un asse geografico. cli ciltadino del mondo divema ciltadino d'utopia, non abita più che il mezzo di trasferimento e il luogo di transito; come l'ala dell'apparecchio nell'oblò del volo supersonico, la pisra è l'orizwme di scalo per il passeggero, l'aereoporto diventa la ci/là nuova, la città di transito, diventa l'ultima ci/là coi suoi dieci milioni di passeggeri all'anno, la sua ampiezza copre lo stesso numero di euari delle capitali più vaste (l'aereoporto di Dallas ha la medesima superficie dell'agglomerato parigino)» (Paul Viri/io). P er prima cosa ho scartato la metropoli. Tracciati dei segmenti di fuga, ho preferito non valicare il mare, lasciare la mia immagine di ew York immersa negli anni sessanta dell'underground e della Factory, dal glorioso off off all'East Village, nei settanta della post modem, delle performance nei loft in Soho e del gran teatro sado-maso di Christopher Street, quando già l'avanguardia era passata di moda e affidava il suo messaggio alle testimonianze di Joe Chaikin, o alla pratica dei pochi sopravvissuti che trovano in Europa il loro vero palcoscenico, in attesa che arrivassero gli Squat e trasformassero la loro sede in saia rock per tirare avanti, mentre il Cafe La Marna fa da ribalta per i nuovi scrittorucoli del quotidiano piccoloborghese e Broadway, sl, è sempre l'industria del più grande show del mondo, la capitale del musical, impeccabilmente professionale e splendidamente nostalgico anche quando rompe gli schemi, revival implacabile di se stesso e quindi perfettamente riconoscibile da lontano, alla sola descrizione, piacevole per la sua forza evocativa quanto immobile nella sua comunicazione. on sull'impero bisogna puntare nella ricerca di stimoli di accelerazione, ma sulla periferia, e nell'ambito della periferia non sui centri ma ai margini. Su Berlino, per esempio, che è una città di frontiera, su Glasgow o Cardiff piuttosto che sulla noia istituzionalizzata di Londra, mentre Parigi vive di prestigio e di luci riflesse, luogo di passaggio buono per visionare qualche troupe d'importazione, salvo inaspettate sorprese nelle case di cultura di banlieue. Dopo la gran stagione di New York, subito distrutta dalla diaspora, e qualche spento fuoco romano, il teatro di oggi non è delle capitali. Anche in passato l'atlante teatrale europeo si disseminava del brillio di puntini distanziati: una concatenazione a ragnatela non per autostrade ma per sentieri o vie ferate dalle difficili coincidenze, Opole, Holstebro, Spoleto, Avignone, Villeurbanne, Prato, Stoke-on-Trent, Marigliano e Brescia, lo Straftord della Littlewood, ewcastle-under-Lyme, Campagnano e Cantù, ancy e Salerno, Gennevilliers e Hospitalet. E oggi i ruovi itinerari si allungano per esempio a Tourcoing e Grenoble, Moers e Louvain, Wuppertal e Bochum, Pontedera, Santarcangelo, Jvry. Ho confuso volutamente le città di festival e di rassegne che per due settimane all'anno col loro esporre ospitare e pro_durresi sentono trasformare - magari sotto l'impulso di un'azienda di soggiorno - nell'ombelico scenico del mondo, e quel che più interessa, cioè i luoghi marginali eletti a sedi stabili di gruppi. Ma se le prime suscitano - occasionalmente - migrazioni di gruppi e di spettatori, non è detto che i secondi siano emanazioni di una cultura autoctona: anzi Opole e Holstebro danno l'esempio di un'invasione dal di fuori, anche aldilà della volontà delle popolazioni indigene, che rifiutano in molti casi, posto che glielo si chieda, di trasformarsi in fruitori. on si tratta certo di un datato fenomeno-clidecentramento, di un'operazione di quel colonialismo culturale che al risultato affermativo di Villeurbanne oppone tutta una serie di fallimenti. li paese o l'agglomerato periferico difficilmente mira a trasformarsi in teatro dell'esperienza, ma costituisce piuttosto per questi avamposti della civiltà perduta il contrario della metropoli, una difesa e un tegumento contro quel tessuto organizzato. E anche quando è oggetto di una scelta in qualche modo territoriale, come Prato per Ronconi e Marigliano per Leo e Perla - ma Ronconi lavora sulla sintesi e non sull'analisi del territorio e a profitto di uno spettatore campione, e Leo e Perla non cercano un coinvolgimento quanto un'altra cultura in cui azzerarsi - non si tratterà inevitabilmente che di una tappa di passaggio preludio alla ritirata, o a una nuova trasferta. « Il cavallo e il cammello, la freccia, la tenda, i tre poli del mondo nomade, mondo che non lascerà alcuna traccia, perché le tracce degli accampamenti si cancellano così veloci quanto i morti privi di una tromba» (Jean Duvignaud). Anche per chi serba una base, il vagabondaggio rimane però la regola e il principio ispiratore. Non avere un proprio pubblico o averlo dappertutto, porre cento volte fine allo stesso spettacolo per reinventarlo cento volte nel successivo attendamento inevitabilmente altro, riguadagnarsi nel viaggio e nella previsione di rinnovati orizzonti spaziali la libertà e la fantasia negati dal rito della ripetizione. A questa figura quotidiana del fuggitivo o del pioniere nessun complesso non istituzionale si sottrae: e ben la conosce Barba col suo trasferire di paese in paese il suo gioco dello scambio di azioni e di iniziative alla maniera del Jongleur di Notre Dame, o Grotowski capace ormai di ritrovare i suoi improvvisati e impreveduti attori a ogni ulteriore lido dove creare un cerimoniale di contatto mutevole ad perso1,am,o il Brook della mitica traversata d'Africa. Ma il nomade teatrale ha conosciuto un prototipo glorioso nel LivingTheatre degli anni sessanta, gli anni del «meraviglioso esilio insieme, vagando da città a città, facendo spettacoli, carovana di zingari onorati dal tempo» (Julian Beck, La vita del teatro, Torino 1975), quando i suoi attori, belli come chi sa correre il ritmo della sua epoca, consumavano giornalmente la loro fuga in avanti, salutati e attesi come i messia di un nuovo mondo e di un nuovo modo di vita, via da un luogo all'altro, sottraendosi al successo e alle questure, alti e veloci, nel fascino dei paesaggi, senz'altra casa che quattro camioncini Volkswagen sconquassati e sovraccarichi. Erano capaci di volare e parlavano della vita e della morte. Oggi la tribù ha trovato una casa in città: «Sono nella foresta e è la città e io la dipingo», avevano detto un giorno con Pollock. Ma la loro città è ancora una megalopoli che ricuce all'infinito tutte le altre loro città: questa Roma non è che un luogo di ritorno e di transito. E anche piazzando un accampamento non hanno smesso di costituire unprototipo. Anche i nuovi gruppi che hanno scelto di abitare all'interno della città, almeno i più felici, a questa città non appartengono. Sono venuti perlopiù da fuori, e da fuori hanno importato la loro cultura di meteci; rinserrandosi a falange attorno al nucleo originale, impermeabili al linguaggio imposto, di fronte a un campo urbano che rimane terreno di conquista, superficie aliena, intrico di piste da attraversare. Anche chi si integra, come Stein a Berlino o Peymaf!n a Bochum, si chiude a scudo per tenere unita la compagine importata dalle lontane e primitive esperienze. La Mnouchkine fa del Théatre du Soleil un microcosmo, Kantor recinge il suo spettacolo «italiano» in un ghetto polacco, gli americani si muniscono di uno schieramento di categoria: i pazienti per il Bob Wilson terapeuta delle esperienze più riuscite, l'universo femminile di «The House» per Meredith Monk. Ma nel caso dei veri meteci la propria casa resta un ghetto o un 'isola, e non parlo più del Living ma della comunità ungherese dello Squat a New York, che nella sua abitazione a più piani esposta in vetrina vive e si rappresenta; o· di quelle panamericane dello Tse e del Magie Circus a Parigi, anche ora che il loro gusto per icliché è stato levigato dal cliché di anni interi di repliche; ma non son che i prodromi della grande fuga dai paesi fascisti del1'America Latina di cui esistono ormai frange dappertutto. E di meteci, discesi dal cuore antico delle terre etrusche si componeva e si compone, dopo anni di ospitalità fiorentina, la gang di Magazzini Criminali, disposta in assetto di formazione inaccessibile dietro un legame di diversità che sa rivestirsi di colori patologici, pronta all'attacco permanente, mimetizzandosi come un assieme geneticamente mutante dietro i feticci del deserto abitato che percorre dopo il calar del sole. « li nomade costruisce la sua potenza sul vento: passare bruciare distruggere, proseguire la sua strada, immagine che terrorizzailcittadino» (JeanDuvignaud). N on sono i soli. Per anni i gruppi di sperimentali residenti hanno cercato di associare alla propria emarginazione elementi nomadi di passaggio. Questi possono beninteso combinarsi anche tra loro senza agganci fissi, quando si ritrovino a passare simultaneamente per le stesse zone d'influenza. È il caso del cosmopolitismo che ha tenuto assieme per qualche tempo le individualità dei Maniac Productions, nel segno di un ristretto comun denominatore di gesti minimalisti e di parole ripetute nella lingua imperiale: individualità provenienti da cinque diversi paesi e tutte estranee - alla Stoccolma che ne figurava come provvisoria sede, non fosse che per il seno materno del suo welfare state aperto anche ai disoccupati stranieri. C'è poi nelle grandi capitali chi l'ensemble dei meteci certadfriunirlo artificialmente, andando a pescare nella città-ghetto degl'immigrati, dove sono tutti uguali nella loro diversità, anziché nei minuscoli ghetti atomizzati nel corpo della città. A Berlino Ovest s'è vista addirittura laSchaubiihne promuovere un gruppo e uno spettacolo turco, e riconoscere con ciò l'esistenza (che comunemente si tende a mettere tra parentesi) di quest'importante minoranza etnica insediata proprio a Kreutzberg, cioè tra la sala di Stein e il muro, e sul punto di straboccarne, superate lecentomila unità: si tratta di una popolazione che evidentemente il teatro non lo conosce e non è abituata a frequentarlo, né sarebbe facile smuoverla di forza, con le autorità che ostacolano intutti imodi l'unico modo di canalizzarla col tentativo (illegale) di pubblicizzare l'iniziativa per le strade. Al grosso degli attori reclutati sul posto si sono aggiunte delle autentiche vedette del cinema e della scena locali, importate all'uopo, mimando già nella composizione della compagnia la vicenda raccontata che contrappone a un primo tempo nella patria perduta con qualche recupero di folclore su uno sfondo raffinato e visualmente rarefatto, un secondo ambientato in Occidente dopo l'emigrazione; e il terw stadio -di sovrapposizione si ha nel parlato: il vero turco e il pathois dei meteci infatti si alternano o si rispondono, con qualche difficoltà di comunicazione che si rifrange dagli stessi interpreti al pubblico assimilato. Dopo questa proposta, insolitamen-

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