re, pronunciandosi nel catalogo, è quella, abbastanza scontata, che le buone o cattive ideologie non fanno le buone o cattive opere. Tanto più che la poetica novecentista viene messa in collegamento con matrici metafisiche e inserita quindi in un respiro culturale di notevole dignità. Altrettanto dicasi per il gruppo di opere tedesche raccolte sotto la formula della e Nuova oggettività», che non è il titolo di una scuola, ma indica un orientamento contraddistinto da una singolare Iucidità descrittiva e freddezza enunciativa, nato quale versione moderata del secondo Espressionismo, a rappresentare (e ne parla in catalogo Giinter Metken) la Germania liberale tra il '25 e il '30: come tale inviso alla sinistra. Anche qui, la mostra allinea pezzi elettissimi, e non fa mistero d'aver scelto in ordine alla qualità. Il nucleo più omogeneo di tali opere è quello raccoglibile !;otto l'etichetta del crealismo magico> (ed è curioso che nel catalogo Nino Frank rivendichi a sé l'idea di questa sigla fortunata dicendola subito accolta nello stesso 1926 da Bontempelli; mentre essa era già comparsa nel 1925 in Germania e codificata in un fortunato libro di Franz Roh); ed è quello che appare più fortemente suggestivo, diffondendosi nei Paesi Bassi e nella Scandinavia (e anche altrove), come la panoramica parigina sta a dimostrare. Senonché le ultime sale dell'esposizione, e gli audiovisivi che vi sono ospitati, avallano l'immagine di una continuità e un collegamento tra i vari realismi, culminanti con l'epopea del naturalismo pagano nella Germania nazista: il filo aureo che muoveva prezioso dai silenzi metafisici si trasforma in filo spinato. Se cosi stanno le cose, vien da concludere, il realismo, o i realismi che siano, sono depositari del male, o contengono in sé i germi del male; è pertanto giusto rifiutarli. La questione non è, per fortuna, cosi semplice e brutale; per varie ragioni, ma soprattutto per quella che i pretesi realismi raccolti dalla mostra sono assai poco assimilabili l'uno all'altro, e per la più parte di essi la definizione di realismo è assai impropria: applicandosi questa propriamente agli aspetti di arte sociale sostenuti dai regimi di massa, che si ricollegano alla tradizione della pittura sociale ottocentesca - e sono quelli assenti dalla mostra -; anche in Italia, il realismo sociale fascista non è rappresentato da «Novecento" bensl dal gruppo di artisti sostenuti da Farinacci- e sistematici vincitori dei premi delle Biennali dopo il '30: Arnaldo Carpanelli, Contardo Barbieri, Manlio Giarrizzo -. Lo stesso «realismo magico» non è appunto realismo - e mi era occorso di presentarlo in una mostra con la sigla «la pittura dell'irrealismo» - se non nell'accezione generica del rispetto di una leggibilità naturalistica del modello (quella che i teorici dell'arte definiscono un po' troppo disinvoltamente iconicità); come non lo è il naturalismo nazista, piuttosto legato al neoclassico simbolista tardo-ottocentesco di Von Marées. L'altro equivoco è sul concetto di avanguardia - e non si tratta di puri nominalismi. Si è detto in esordio che l'interesse portato ai fenomeni rappresentati in questa mostra è interesse per tutta la zona di produzione artistica che cade al di fuori dell'avanguardia. Per altro, la mostra di oggi e le manifestazioni precedenti che hanno considerato la questione hanno riconosciuto nella pittura metafisica la matrice più chiara, o il segnale di partenza più esplicito, per il ritorno all'ordine degli anni Venti. Ora, è veramente legittimo appartaImmagini de/l'economia del vicolo re la pittura metafisica dalle correnti avanguardiste? Se ·ilconnotato distintivo dell'avanguardia è il suo impulso avveniristico, non è avanguardia neppure Dada; se lo è il suo carattere formalistico, non è avanguardia il Futurismo; e via dicendo. Il ricorso che la Metafisica fa a modelli cosiddetti iconici è debole e non determinante; per lo meno non è più forte del suo ricorso a suggestioni di tipo astratto; le premesse surrealiste sono inconfutabile dimostrazione di una virtualità anticlassica e dell'uso ironico, rovesciato, interiorizzato del mito, come valore d'insicurezza anziché il suo contrario. In altre parole l'eredità metafisica non è obbligatoriamente reazione alle avanguardie. a dispetto delle dichiarazioni - del resto tra loro contraddittorie- di Savinio e De Chirico nei celebri Valori plastici. E soprattutto, non si pone un'alternativa «avanguardia e no», ma i fattori in gioco appaiono più numerosi. Il taglio del discorso storico deve dunque essere un altro. on ha molto senso distinguere tra filoni avanguardisti - che si è fatalmente indotti poi a identificare con gli aspetti astratti, o aniconici, del fenomeno, trascurandosi il settore fondamentale dell'avanguardia espressionista - e filoni realistici (e manteniamo il termine per convenzione qui acquisita). Lf arte di riconoscibilità naturalistica che matura nel corso degli anni Venti sia nell'ambiente di Valori plastici e di Novecento - per stare all'Italia - sia in quello della Nuova oggettività e derivati, non si pone se non nelle sue giustificazioni più banali in antitesi rispetto all'astrattismo; come non si pone in polemica con le avanguardie il Precisionismo, se la pittura di Edward Hopper, pur nella sua funzione rappresentativa della città americana, paga un largo tributo al Cubismo. È piuttosto vero che nel corso degli anni Venti è in atto un processo di idealizzazione dell'immagine artistica, con la proposta di valori assoluti e immutabili che si contrappongono all'eredità impressionista e alla poetica impressionista del fenomeno, del labile apparire e mutare, poetica dalle evidenti radici positiviste. Sul fronte idealista si trovano schierate le avanguardie postbelliche - l'«après le Cubisme» di Le Corbusier come lo Stijl olandese e persino certa parte del Bauhaus, a dispetto delle loro proposte di operatività progettuale; si trovano altresi schierati i metafisici, i neoggettivi e quei novecentisti nostrani che si staccano più decisamente dal retaggio ottocentesco - i Sironi, i Funi, gli Oppi, ma anche i Casorati, i Guidi, i Donghi, partecipi esterni, ma non estranei del movimento -. Si irovano schierati i francesi con Derain e il Picasso m;oclassico. e non senza motivo si tratta di artisti tutti che sono stati l'avanguardia o l'hanno attraversata e ne mantengono, in chiave di identificabilità naturalistica, gli aspetti stilizzatori, l'orientamento alla semplificazione e astrazione formale, il carattere di presenza diretta e inintermediata dell'oggetto raffigurato. Dall'altro lato stanno, avanguardisti e no, i volontari testimoni della realtà storica, legati al contingente, al narrativo, allo psicologico; che negli anni Venti furono la parte soccombente - e che per altro non sono identificabili in una corrente omogenea, mostrandosi il problema assai poco disponibile a essere risolto in termini di bipolarità. Che la tendenza idealistica, com'è stato più volte sottolineato, abbia rappresentato per molti aspetti un orientamento culturale di destra o ad esso abbia prestato un volto, è anche vero: fin dove la cultura di destra non abbia inteso atteggiarsi a cultura di massa, per la quale occorrevano altre formule (e Sironi, Funi, Martini ne trovarono na arcaizzante, all'aprirsi degli anni Trenta). Ma oltre queste constatazioni non si può andare. Come finiscono con il dimostrare le ultime sale della mostra parigina, dove si ha l'ambizione di dare un quadro dell'attività architettonica e di arti decorative nel ventennio considerato: impresa disperatissima, non essendo il ventennio riconducibile a unità-, gli anni Trenta modificano largamente il quad.ro, il realismo magico, per dirne una, è pressocché obliterato, il dibattito sull'architettura si apre appassionatamente, il concetto di arredo subisce il contraccolpo della crisi del '29, e cosi via. Ma le avanguardie non hanno esaurito il loro ruolo se ritrovano fiato nel secondo dopoguerra e ancora una volta l'arte di segno naturalistico, quando avrà qualche cosa da dire, procederà ad esse strettamente congiunta. Ilmonacoe ilnovizio Umberto Eco D nome della rosa Milano, Bompiani, 1980 pp. 503, lire 10.000 1, Tommaso Ottonieri Dalle memorie di on piccolo ipemofico Milano, Feltrinelli, 1980 pp. 89, lire 3.000 11 lettore del Nome della rosa pa 0 rte fornito, per mano d'autore senza dubbio, di alcuni strumenti propedeutici proposti dal risvolto di copertina; gherminella insieme cortese e diabolica, se è vero che, non meno del titolo, questo tipo di envoi editoriale, quando non sia mero soffietto o scheda biografica, fa parte del testo: e allora, per sta~e con Lessing, cquanto meno dice sul contenuto, tanto meglio è>. Insomma giova pensare che anche nell'atto di somministrare direttrici di lettura, l'autore sia irresistibilmente sospinto a mascherare ciò che gli sta davvero a cuore. Il buon uso del risvolto implica un ulteriore gioco del lettore, un disti_nguere,magari un rovesciare il suggerito. In breve, la fabula del romanzo di Umberto Eco è una catena di delitti compiuti in un'abbazia «posta lungo il dorsale appenninico, fra Piemonte, Liguria e Francia> verso la fine del novembre 1327. mentre non poche questioni, riverberate nella vicenda romanzesca, oppongono papa Giovanni XXII e Ludovico il Bavaro, fra cui quella ereticale dei frati minori. L'indagine è affidata a un francescano, Guglielmo da Baskerville, assistito da un novizio benedettino, Adso da Melk, che è poi l'estensore della storia. Debitamente, uno dei tre livelli di lettura insinuati dal risvolto rimanda al romanzo poliziesco, a un «giallo» estraniato, dirò così, dall'epoca che per tradizione è sua. Tutti i recensori hanno registrato con puntualità l'arguzia funzionale di quella coppia investigatore-biografo simmetrica al prototipo Holmes-Watson; tanto che viene da pensare a una ironica scappellata dell'autore, nonché al luogo comune romanzesco, a quello critico. Quanto all'osservanza dei canoni del cgiallo», Eco da buon semiologo ha addirittura rincarato la dose, giacché allinea quasi tutti i topoi più venerati del genere, dalla scansione degli eventi delittuosi secondo ritmi temporali di per sé significanti, ai fini dell'enigma (penso a Ten days' wonder di Ellery Queen: qui i giorni sono sette Immagini de/l'economia del vicolo Giuliano Gramigna come quelli della creazione); alla decrittazione di scr_itture cifrate; allo scontro conclusivo fra investigatore e colpevole smascherato, con suicidio di costui. (Rispetto a un canone residuo Eco sembra avere deviato, s'intende deliberatamente; converrà ritornarci più avanti, sotto diverso angolo) Gli altri due livelli riguardano il lettore che privilegi la pura avventura, il meccanismo dei colpi di scena e dunque un'immagine di gothic nove/ da inscrivere magari nello spazio fra il confessionale dei penitenti neri e Gli elisir del diavolo, non foss'altro in omaggio alla costante del saio: l'avventura veicolerebbe seco le molte pagine fitte sulla eresia dei fraticelli, il dibattito della povertà, le vicende di fra Dolcino, i contrasti papato-impero, le discussioni di stampo medievale su filosofia, teologia, estetica. In realtà, si tratta di un eccesso di difesa, perché queste parti funzionano, io credo, come intrinsecamente «avventurose» proprio perché partecipano di quel talento divulgativo che anche i maldisposti non mancheranno di riconoscere ad Eco. Il terzo livello o terza licenza di lettura - come concessa subito ritirata, sf badi bene - di connettere scontri di idee e di interessi del XIV secolo all'attualità italiana e mondiale, è un semplice gesto convenzionale e non aggiunge niente, a mio parere, alle buone ragioni effettive (ai buoni modi) di leggere Il nome della rosa. La citazione Qualcuno osserverà che finora si è ragionato fuori dal libro, restando a quelli che i monaci dello scriptorium (vedi Eco) chiamerebbero i «marginalia». Si è perduto tempo occupandosi di ciò che, in limine (nel risvolto), il libro dice di essere, non di ciò che è o si suppone che sia. La perdita di tempo e di sinderesi è forse più apparente che reale, perché introdce a quel dato della «citazione» che è invece centrale al discorso critico sul romanzo di Eco. Il nome della rosa è una collezione di testi: per dirla meglio, è un luogo dove avvengono, si fanno avanti passaggi di altri libri; dove dei libri si manifestano. Parlando di «citazioni» non mi riferisco tanto a quelle per dir cosi esplicite - dai testi e dal sapere dell'epoca immaginata - quanto alle implicite, che entrano nella pasta stessa del narrato. La loro convocazione, somigliante un po' a una nekuya, è ora specifica, testuale (l'accenno alla triade «integrità, consonanza, clarità», che è poi un rimando non appena a San Tommaso ma a Joyce che cita san Tommaso per bocca di Stephen, nel Portrait; !'«adeguazione fra la cosa e l'intelletto»; il «chi unisse un corpo umano a una cervice equina», il «fingo delle ipotesi» etc); ora più sfumata e complessa, di situazione o funzionalità narrativa o retorica (per esempio l'etopeia, nonché la raffigurazione fisica, di Gu- ~ glielmo da Bas_kervillericalca addirit- ~ tura la ormai famosa presentazione di e:,_ Sherlock Holmes agli inizi della saga di ;;;; Conan Doyle; all'opposto, ma simme- ~ tricamente, il discettare che l'investi- .9 gatore fa dei propri metodi d'indagine, ] luogo comune di ogni «giallo», prende .,:, ~ qui una sfumatura tomistica: pag. 320 -. e seguente); ora invece chiama in cau- "' sa i grandi Segni unificanti e organiz- "' zanti, le metafore di fondo: la bibliote- ~ ca, il Libro, per cui è davvero super- ~ fluo nominare Borges, il fuoco, il riso e si
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