Alfabeta - anno III - n. 21 - febbraio 1981

lmmagi11i de/l'eco110111iadel vicolo della poesia a quello della cultura normale, nei suoi vari usi e livelli. A dire il vero, in quegli anni il motto di una poesia tecnologica fu inalberato piuttosto dagli amici fiorentini, ma a parte il fatto che erano perfettamente coetanei e omologhi ai Novissimi, e così non si esorbita da un cljma comune, c'è da osservare che essi fallirono per difetto o per eccesso un tale obiettivo: per difetto, in quanto fino al '63 rimasero in acque umanistico-crepuscolari, limitandosi a citare con superiore ironia il gergo tecnologico, o a patirlo come dolorosa autopunizione; e in seguito passarono il segno dandosi a un del resto assai utile eccesso extraletterario e inaugurando il capitolo della poesia visiva. Sta di fatto che è proprio al giro di boa del '60 che si compie la grande mutazione linguistica montaliana. Come dunque non collegarla all'av- ~ento della nuova generazione «tecnologica»? Naturalmente, l'influsso non è a senso unico: se gli ultimi arrivati insegnano al gran vecchio come lasciar cadere le prevenzioni nei confronti dell'attualità, della prosa quotidiana, questo a sua volta li convince indirettamente a sfoltire il primitivo ingorgo oggettuale, a ritrovare una misura più conversevole e comunicativa. Sanguineti, dopo l'orrido intarsio di Laborintus, già con Purgatorio de I' Inferno decongestiona il «troppo pieno» del brutale assemblaggio dei vari gerghi, lasciando che gli oggetti si sgranino nella forma dell'elenco. asce da questo momento un parallelismo, un marciare di conserva tra il vecchio e il giovane, che risulta perfino dai titoli delle rispettive raccolte. Satura, o Diario, Quaderno sono evidentemente degli equivalenti dei vari Whirrwha.rr, Postkarte11, Stracciafoglio proposti dall'autore «novissimo»; e certo, come i titoli, così anche il tono complessivo delle liriche montaliane è più sintetico, casto, economico, rispetto ai guazzabugli linguistici, dottrinali, affettivi di cui risulta capace l'altro. Ma, appunto, i due costituiscono gli estremi polari di un'attrazione reciproca, l'uno, l'anziano, essendo incitato a contaminare il proprio lessico, a fare acquisti sempre più arditi, a inserire scampoli di conversazioni, frasi fatte; l'altro, a calmare alquanto il demone associativo, a distendere i suoi materiali, perfino a lasciare che in essi prorompa più scopertamente quel quid imprecisabile che è la poesia, la liricità. Un discorso analogo può valere anche per il recente Porta, che ha sorpreso tutti per il coraggio della sua colloquialità prosastica e limpidezza comunicativa, doti che d'altra parte non sono a scapito dell'ardimento degli accostamenti. li tono piano e dimesso copre l'aprirsi di faglie, di fratture, di salti da un contesto all'altro. La disinvoltura linguisticaattestata da Satura è incredibile, se appunto, sfruttando la contiguità spaziale del volume unico, la confrontiamo col preziosismo lessicale di qualche lirica della Bufera, ospitata appena poche pagine prima: «Spesso ti ricordavi (io poco) del signor Capi "l'ho visto nel torpedone, a Ischia, appena due volte"». Quando mai il primo Montale avrebbe usato parentesi o virgolette, o assunto blocchi di tanto evidente piattezza? E si consideri, sempre in quella poesia, un miracoloso verso finale, vero acme di sprezzatura e scioltezza: «Il dottor Cap! Basta il nome. E Clelia? Che n'è accaduto?», dove compare perfino l'eco dell'uso sanguinetiano dell'interpunzione, solo che la rabbia espressiva dei punti esclamativi sparati a ripetizione dal «novissimo» qui si distende in un clima più pacato. Per un'ulteriore verifica, basterà rifarsi alla sezione di Poesie disperse e inedite date alla fine del volume, di cui costituiscono uno dei meriti non ultimi. In esse si nota a occhio nudo la mutazione nella continuità tra il «prima» e il «dopo». C'è infatti un netto stacco tra i componimenti che costeggiano il percorso che va dagli Ossi alla Bufera, e gli altri situ~bili dopo la svolta. I primi, Ii troviamo costellati di preziosismi come «soffio di pruina - erbìte - innienti - nel gurge dell'lddio - il guindolo del Tempo - nostre vite anéle», e così via. Nei secondi, trovano il loro posto come in un'esatta tarsia tutti i possibili inserti di frasi fatte, di espressioni idiomatiche, di spezzoni gergali della nostra contemporaneità, pur debitamente straniati, qualche volta dalla presenza effettiva delle virgolette, qualche altra dal tono, dalla collocazione. Possiamo così segnare idealmente con la matita i vari «a scatola chiusa», «boite à surprise», «full time>, «la capra e i cavoli>, «oggetto in questione», «fascicoletto>, «morceaux choisis», «soffietto>, «presenza antropomorfica», ecc. La carica carismatica montaliana ha ormai capito che deve insistere su un universo orizzontale interamente laico e immanente. Ogni suo frammento è ben poca cosa in sé, e appunto la citazione montaliana ne sottolinea l'involontario umorismo; ma tutti assieme confluiscono nel grande puzzle esistenziale, combinano la grande «saiura» che si oppone al nulla e al silenzio. I realism,il.,eaubourg L e avanguardie artistiche perdono terreno nei favori della critica. Identificate sino a non molti anni fa collie il filone portante della cultura visiva contemporanea, in un tracciato vario, cosparso di nodi e relais, ma ininterrotto, erano il punto di riferimento per qualsiasi discorso sul destino e il senso dell'operare per immagini. quasi che - per usare una felice espressione di Jean Clair - non tanto avessero una storia quanto fossero la storia. Intorno a questo filo di Arianna che si vedeva sottile. nitido e puro attraversare il nostro secolo stava un'amplissima produzione data come informe, insignificante, banalmente retriva, opacamente tradizionale, talvolta sospinta dalle circostanze a sfiorare una legittimità culturale, talaltra illuminata da una qualche grazia revivalistica, ma subito rimmersa nel suo ruolo di inespressività. on che non si desse una discussione sul valore e la qualità di singoli fenomeni avanguardisti e sui modi di interpretarli proprio alla luce della loro funzione storica: acquisita la difficoltà di identificare avanguardia artistica con avanguardia politica e dunque di conferirealla primaun blasone progressista, collocando in area reazionaria i fenomeni di segno opposto, sembrava nondimeno che al di fuori del tracciato avanguardista si dessero poche possibilità di salvezza: come stava ad insegnare la ricorrente vicenda dei neorealismi. per i quali le assoluzioni sono state rare. cautelose o sospette. Questa visione manichea, riferita in modo speciale alle arti figurative, è da anni corro,a ùalla con,wtaziont: (non in~dita. ma ,i,; qUi n_wh.· ~1cc~tta l' di- ,pr.:zzata) dlè è,i,tè una ,tnria cklla cultura estranea o avversa alle avanguardie; constatazione ambigua nel senso che per un certo verso l'avanguardia continua a rappresentare il valore positivo, e dunque l'interesse per quanto cade al di fuori di essa tende ad allargare l'orizzonte delle conoscenze, dandosi per scontato che esista una cultura in negativo, ma non a produrre un rovesciamento di giudizio; d'altra parte il riesame critico conduce in vari casi a una riconsiderazione valutativa (attuata sin qui alla chetichella, senza corrispettiva teorizzazione) e porta alla conclusione che i poli dialettici entro cui sviluppare il giudizio vadano per lo meno modificati. Secondo me la questione è mal posta. La si può esaminare nella sua globalità partendo dalla mostra aperta fino ad aprile al Centre Pompidou di Parigi (e poi al Kunsthalle di Berlino fino a giugno), intitolata Les réalismes 1919-1939 e/lire révolution et réactio11: mostra che costituisce un notevole sforzo espositivo (sono rappresentati dieci paesi; senza la Russia, purtroppo, e il quadro d'insieme ne risulta monco) e un notevole sforzo teorico (una trentina di interventi in catalogo. introdotti da quello, sulla problematica generale, di Jean Clair). La mostra si fa forte di assaggi già compiuti in questa direzione interpretativa da imprese promosse da una decina d'anni o poco più: a partire dall'esposizione di Amburgo del 1968. sulla Nuova oggeuività tedesca (Realismus in der Molerei des 2()" Jahre ), per passare attraverso quella internazionale tenutasi a Vienna nel 1977 (Neue Sachlichkeit u11dRealismus) e approdare, per l'Italia, alla sezione La pillura dell'irrealismo nella mostra bolognese Metafisica del quotidia110 (1978), a/ miti del Novece1110 a Milano (1979), quindi La Metafisica: gli a1111Vi enti, di nuovo a Bologna (1980) e Pompei e il recupero del classico ad Ancona (1980) - né questo elenco pretende di essere esaustivo, essendomi probabilmente sfuggite altre pertinenti manifestazioni straniere. Il dibattito critico per altro si era già esteso al di là degli interventi in cataloghi di mostre, in una pubblicistica ormai fitta che spesso coinvolge i rapporti tra arte figurativa e letteratura: per quanto riguarda l'Italia, che nella mostra parigina fa la parte del leone (presentata come grande scoperta a livello internazionale) il numero di Alfaheta del marzo 1980 aveva toccato I tlwuri di luvoro alcuni punti della questione cnuca negli articoli di Barilli e di Porta (e gli artisti illustrati in quel numero sono appunto in grande maggioranza gli stessi presenti a Parigi). L e esplorazioni interpretative, nei saggi cui mi sono riferita via via, hanno considerato per lo più due problemi; o meglio hanno diviso l'oggetto dell'indagine secondo due formule: o si sono studiate di individuare con precisione il fenomeno del «realismo magico», peculiare dell'arte italiana e tedesca intorno al 1925, quale fenomeno di evasione dalla realtà contingente e transeunte. schema idealizzante buono per la fuga dal presente politico e insieme manovra estrema di sublimazione del proprio ruolo messa in atto dalla borghesia conservatrice; o hanno esteso il significato di arte metafisica facendo dipendere lo svolgimento del naturalismo degli anni Venti da un'acquisizione addomesticata dell'enigma metafisico e da un'enfatizzazione reazionaria del suo aspetto neoclassico. La seconda interpretazione in certo senso è più lata e congloba la prima abbozzando un disegno unitario della cultura cosiddetta di «richiamo all'ordine> negli anni del primo dopoguerra. La mostra di Parigi tenta una panoramica più ardita, giacché pretende di considerare tutto l'arco delle esperienze di presunto segno realistico, sia quelle che hanno servito minoranze intellettuali impegnate in un rapporto polemico con le avanguardie astratte (rappresentando l'altra faccia di una condizione comunque élitaria); sia quelle che hanno inteso di servire ideologie sociali nella petizione di un'arte popolare dispol'Hbileal più largo consumo. L'assunto parigino è, grosso modo, che la reazione di tipo realistico non sia soltanto il frutto del contraccolpo della guerra, nel sopravvenuto crollo dei miti ottimistici di ambito futurista e l'esame di coscienza sul ruolo corruttore dei formalismi, cui contrapporre un nuovo umanesimo; ma che essa covasse già in seno alle avanguardie pre-belliche (come del resto dimostrerebbe, sugli stessi spalti avanguardisti, l'attitudine dissacratoria di Dada); che, d'altra parte, un filone naturalistico non avesse smesso di produrre opere bene accolte dalle istituzioni e dal pubblico generalizzato, opere non obbligatoriamente deteriori sul piano della qualità e testimoni di una precisa condizione storica. L'assunto. esposto in via problematica. come tesi da discutere piuttosto che come conclusione da dimostrare presenta alcuni aspetti equivoci. Intanto, il più vistoso: la mostra ha un carattere rivalutativo; la parata dei pezzi, specialmente italiani, che si sviluppa nelle prime sale (e significativamente cataloghi e manifesti illustrano opere di Sironi e di Casorati) sta a testimoniare l'alto livello espressivo della produzione degli anni Venti soprattutto di ambito novecentista, che i francesi han l'aria di scoprire per primi (e tanto meglio, se questo può servire a un riconoscimento internazionale). Poiché le opere novecentiste sono per convenzione indkate come corrispettivo artistico della politica del regime fascista, la conseguenza storica che i curatori della mostra paiono trar-

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