Sandro Penna Tutte le poesie Milano, Garzanti, 1977 pp. 308, lire 3.500 Snnezze Milano, Garzanti, 1977 pp. 139, lire 1.500 Un po' di febbre Milano, Garzanti, 1977 pp. 155, lire 1.800 Confuso sogno a cura di Elio Pecora Milano, Garzanti, 1980 pp. 151, lire 9.000 S andro Penna, il poeta deUa trasparenza e della grazia, è anche colui che ha fatto del proprio mondo poetico, soggettivo e mitico, apparentemente lontano dalla storia, un'arma critica e un'ipotesi dialettica da contrapporre all'esistente storico: il lirico più puro del '900, è uno dei pochi nel nostro secolo che abbia condannato, in base a un'idea alternativa di «natura», l'intero sistema intellettuale e morale dell'occidente, gli eccessi del suo razionalismo tecnologico: «Non è la costruzione il lieto dono/ della natura. Un fiore chiama l'altro». In questo lieve epigramma è in realtà condannata l'intera ratio occidentale, il suo distacco dalla legge naturale, il suo uso costruttivo - costrittivo. Ad essa il poeta contrappone un'«estrosl) inettitudine infantile», la libertà di un atteggiamento ludico, teso alla proiezione del desiderio, alla fraterna concordia con la natura. Ciò separa il poeta daUa vita impegnata e utilitaristica degli adulti e della storia, e lo rende solidale alla vita dispersa, ludica e mitica dell'adolescenza e della natura. ella poesia come nella vita Penna ha perseguito un ideale di totale libertà e indipendenza, nei confronti di ogni impegno pratico e sistema letterario definito, rimanendo cosl estraneo sia all'ermetismo che alle altre correnti egemoni del '900. É come se egli fosse vissuto sotto la co~tellazione del principio di piacere e avesse rifiutato quello di realtà: il mondo gli è parso non come uno spazio da usare e consumare ma una regione chiara di fantasia e desiderio («Un fiore chiama l'altro»). In esse non vigono intenzioni pratiche o distinzioni morali, ma solo l'armonia amorosa della natura: «Ai moralisti. Il mondo che vi pare di catene / tutto è tessuto d'armonie profonde». La sua opera possiede una purezza immobile: minime sono state, nell'arco di quarant'anni le variazioni tematiche e stilistiche: tutta raccolta intorno al tema dell'amore e al ritmo psicologico di gioia e dolore che l'accompagna. E anche stilisticamente, è caratterizzata da fenomeni che esprimono, nel loro concorrere, un desiderio di riduzione, concentrazione, semplificazione: nella forma breve dell'epigramma; nel rigoroso unilinguismo, nell'uso di un lessico ridotto, continuamente ripetuto, e lontano dai registri deviatori; nella sintassi paratattica, spesso uniproposizionale, per lo più nominale (senza verbo) e asindetica (priva di congiunzioni) che essenzializza il fluire delle immagini in fulminanti istantanee. É un mondo regolato dalla legge dell'iterazione: a livello di ripetizione di figure («fanciullo») di immagini (il «prato>, la «siepe», il «treno», la «bicicletta»); di massiccio uso di figure retoriche di ripetizione (anafora, epifo- • ra, ecc.); infine a livello di aggettivazione. Essa ruota intorno alla sfera del limpido e luminoso («chiaro», «lucente», «azzurro», «bianco») dove il colore è puro e vivace, matissiano; e intorno alla sfera della mitigazione («calmo», «lento», «leggero», «dolce»). Si nota in essa un desiderio di acquietamento, soavità, levità: peso e movimento reali sono come decantati, perdendo quanto di eccessivo o violento è della vita, e risolvendosi in pacificazione, delicatezza. E questo è appunto il sogno del poeta: «Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita». L'iterazione conferisce stabilità al soggetto, gli offre una identità definitiva contro la precarietà e turbolenza dell'esistenza. La ripetizione è inoltre per Penna la legge della vita: torna insistente in lui il tema della vita immutabile e quindi antica, della vita come ripetizione e ritorno dell'esperienza: «l'eterna vita» «la vita non muta». La stessa vita dell'io è monotona perché sostanziata dalla «brama monotona»: dietro gli infiniti volti amatl c'è sempre la medesima essenza: come l'ombra e la luce, come il ciclo del giorno e delle stagioni, tutto nella vita ritorna, e prenderne coscienza è pienezza vitale: «Ma un tumulto di vita in me ripete antica vita. Il Più vivo di cosi non sarò mai». Da elemento stilistico, a situazione psicologica, a tema, l'iterazione diventa l'idea mitica dell'eterno ritorno: «Tu morirai fanciullo ed io ugualmente./ Ma più belli di te ragazzi ancora / dormiranno nel sole in riva al mare. Il Ma non saremo che noi stessi ancora». Al di là della morte, il flusso vitale continua in virtù di una metempsicosi che permette all'io di ripercorrere il suo itinerario d'amore. Sl'etmdigliarw Il li dio dell'amore» regola infatti '' l'universo penniano: la vita della natura come quella dell'io. La cui felicità sarà nel cogliere in istantanee contemplazioni gli oggetti del proprio amore: nella flagranza e fugacità dell'attimo si schiudono le epifanie penniane, gli attimi lirici di liberazione, in cui si rivela il senso della vita: e il canzoniere penniano scintilla di queste miracolose apparizioni, sempre fasciate di «silenzio» e di «luce». Ma come per le «intermittenze del cuore» di Proust o per le «epifanie» di Joyce, o per i «moments of being» di V. Woolf, anche in Penna le visioni istantanee possono dilatarsi in un presente o in passato extratemporali, di eterna durata: «Ecco il fanciullo acquatico e felice./ Ecco il fanciullo gravido di luce/ più limpido del verso che lo dice. / Dolce stagione di silenzio e sole/ e questa festa di parole in me». Dall'attimo più fulmineo alla durata della «stagione», la visione estatica bruc,ia il tempo cronologico introducendoci, bergsonianamente, nella durata interiore della coscienza. Ma l'amore è in tutta la natura: con un atteggiamento emotivo e vitalistico, con un panteistico afflato cosmico, Penna vitalizza l'intero universo: gli oggetti quotidiani come gli elementi universali vengono umanizzati, sentiti in una cordialità di presenze quotidiane. La metafora in Penna è sempre antropomorfica: «La luna che nel cielo era assopita / entra nella mia stanza cosi viva... » oppure « ... nelle aiuole dormono abbandonate biciclette». Lo stesso amore umano non è che un frammento, una particella dell'amore più vasto che avvolge il cosmo: «Immobile nel sole la campagna / pareva riascoltare il suo segreto./ Un giovane passò ma non so ancora /severo oppure vivo come fiamma/ che il sole riassorbiva nel silenzio». Qui la fiamma del giovane è solo una favilla del sole più vasto, è un frammento vitale che d!! esso si stacca per poi ad esso ricongiugersi. Ma la vita non sempre dona attimi di pienezza vitale, l'amore può oscurarsi e rendere triste l'attesa: ma anche quando l'animo è più spento, il tono di Penna non radicalizza verso l'angoscia, rimane uno stato d'animo mitigato nella sua pena: «malinconia d'amore», «ardore malinconico», «dolce pena». Come le sue felicità sono felicità di attimi fugaci cosi le sue malinconie sono caduche, al pari fragili. Eppure molta critica ha sopravvalutato l'importanza di questo tono, facendone ora il segno di un'angoscia repressa, ora il segno di una psicologia nevrotica. Ma in Penna la materia dolorosa, legata comunque al distacco e alla solitudine, non ad una metafisica angoscia, è risolta in un discorso che ha per effetto di decantarla e acquietarla. Ciò che importa comprendere è la misura, il contegno classico dell'espressione, la fermezza apollinea dello stile che trattengono il dolore in una dolce tristezza. li dolore (non l'angoscia) non è represso ma sublimato (concetto anche freudianamente opposto al primo) sublimato perché posto in relazione con momenti lieti della vita e come liberato da quanto di «chiuso», egocentrico ha in sé, in direzione della totalità del cosmo. La contemplazione delle immagini dell'infinito di solito infatti procura questo psicologico nirvana, questa interna liberazione: in un racconto di Un pò di febbre si legge: «Ma quando fui sulla grande sabbia, di fronte al grande solito mare, ogni malinconia sparì o - meglio - perdette quel senso di ristretta angoscia. Fu la felice malinconia dell'amore. Il mare, il solito mare, con le più solite onde, e intorno a me nessuno ... ». In un'immagine naturale dunque, nel mare, vasto come l'infinito e «solito», cioè eterno, presente fin dall'origine, l'io trova conforto e acquietamento. elle immagini primordiali il poeta perciò trova la liberazione. E questo è un tema ricorrente in Penna: altre immagini, la campagna, la notte, potrebbero esemplificare questo desiderio di ritorno nel luogo della Totalità. «li mare è tutto azzurro. / li mare è tutto calmo./ Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo». Questa celebre lirica, di solito interpretata in chiave impressionista, svela invece, raccordata alle altre immagini marine o della totalità, inquietanti qualità simbolico - mitiche: quell'«urlo di gioia» così espressionistico rivela il senso di assorbimento e annullamento dell'io nell'unità pulsante del Tutto (e tutto è ripetuto tre volte): nel mare l'io si annulla e si placa, liberando l'emotività che lo riempiva nella calma del tutto. E potrei ancora ricordare: «... fui nel dolce silenzio, azzurro mare». « el silenzio/ raggiungi il mare placido di luce»;« ... e fuori/ un mare tutto fresco di colore». In tutti questi casi l'immagine del mare viene a suggellare l'illuminazione dell'amore come essenza della vita. Tornare nel tutto è tornare nell'amore universale: «... Forse la vita/ si spegne in un falò d'astri in amore». S i dovrà aggiungere che le immagini della totalità posseggono in Penna un significato inconscio: in esse il poeta persegue il tentativo di ritorno nella totalità confortante e protettiva del corpo materno: « elle notti d'inverno mi tuffavo I nella campagna buia: mi perdevo / come nel caldo di un grembo di donna». Collegata al tema ricorrente del risveglio, si riconosce il medesimo orientamento fissoal momento dell'origine e ritorno nel tutto. Tuttavia la liberazione psicologica e la misura stilistica sopra descritti sono stati per il poeta il frutto di una conquista interiore, come dimostrano le poesie della giovinezza che ora si possono leggere nel volume Confuso ·sogno. Queste poesie documentano una crisi fatta di inquieto desiderio di vita L<' 11110,•eso/11~io11i 11rh1111i.Hiche libera e smisurata, che si scontra con le angustie della vita familiare. Con un tono concitato e febbrile il poeta canta l'ebrezza, l'eniusiasmo amoroso-per la vita e la natura: «sensuale desiderio di tutte le cose», «amante mi sia tutto il mondo»; un'ebrezza oggettivata in paesaggi assolati e frementi, di ricordo dannunziano: «orgia di sole ... ardore folle ... mare e terra fremono storditi». Accanto a questo sentimento dionisiaco convive un sentimento sensuale ma sognante e languido oggettivato ora in un paesaggio lunare, ora nel tema del risveglio. Ma questo lacerante scontro interiore a un certo punto si risolve nell'acquisizione di un'equilibrio, di una maturità che è misura e contegno, ordine e serenità: ciò lo porta a rifiutare la letteratura decadente di cui si era nutrito: «Addio Wilde, Poe, Baudelaire / malefici assistenti/ del mio cuore malato di m;vrosi... io sono alfine guarito/ e sarò nuovo da oggi... sento un acuto bisogno/ di sole, di cielo e di colore ... torno al mio caro D'Annunzio adolescente / per tuffarmi ... nell'azzurro del cielo e del mare». li poeta abbandona la letteratura moderna compiaciuta del suo titanismo maledetto, dice addio alle proprie complicazioni anteriori per riattingere quelle immagini di natura e totalità che lo riconcilieranno alla vita. Lo stesso tornare a D'Annunzio significa optare non per il suo superomismo, né per il suo museo di bellezze, ma per il suo vitalismo, corretto però in vitalità, coscienza della «calda vita» come parte di una fecondità universale; e per il suo panismo, capovolto però, in quanto l'io non più, come in D'Annunzio, si dilata fino a identificarsi con l'intera natura, ma invece in essa si riduce e si annulla. Si verifica perciò, come la liberazione avvenga attraverso il riattingimento delle immagini naturali e primordiali («sento un acuto bisogno/ di sole, di cielo e di colore») sulle quali il poeta proietta l'immagine del fanciullo. Solo da questo momento inizia la vera poesia penniana: l'enfasi, la concitazione e la strofa lunga della giovinezza daranno luogo all'essenzialità, alla misura, alla brevità epigrammatica. li fremere entusiastico e tormentato diventeranno «silenziosa ebbrezza»: fusione di dionisiaco e apollineo, di sentimento e ragione, d'inconscio e conscio. Solo ora un'armoniosa immagine di natura potrà essere contrapposta alle dissonanze della storia. Medesima evoluzione si verifica nello studio delle varianti, contenute in quest'ultimo volume: le correzioni vanno in direzione di essenzializzare, assolutizzare e mitigare gli effetti. In una poesia, «malinconia d'amore» aveva nelle stesure precedenti «uragano d'amore», e «tempesta d'amore»; «bianco il sorriso» era preceduto da «vivo il sorriso», «baleruo»: cioè la redazione finale attenua le immagini, opta come di consueto per il colore puro, prolunga il tempo della contemplazione eliminando il troppo rapido e violento «balenio». Quindi sceglie una similitudine e il leopardiano, ermetico «a» come preposizione di luogo che sfuma l'indicazione spaziale. Infine con l'incipit «malinconia» lega questa lirica alla precedente che terminava con lo stesso termine, rivelando quel gusto per l'iterazione e la citazione interna che gli sono tipici. In questo modo realizza una delle sue più tipiche e belle poesie: «Malinconia d'amore, dove resta/ bianco il sorriso del fanciullo come/ un ultimo gabbiano alla tempesta». Cosi anche la forma poetica di Penna si mostra affine a quella greca e orientale, quanto lo è la sua visione del mondo che ritraduce in una poetica della semplicità fanciullesca topoi della immaginazione mitica e orientale. La sua totalità è ilmare, calmo e infinito, avvolto nella luce e nel silenzio. La sua divinità è il «dio dell'amore». li suo mito è il «fanciullo divino». La sua legge universale l'antichità della vita e l'eterno ritorno di essa. , I ...
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==