Alfabeta - anno III - n. 21 - febbraio 1981

'O .... .... 00 °' .... che la crisi ha reso apparentemente desertici e intransitabili. Un pensiero che ha preferito l'incerto qualcosa al nulla certo o a una pienezza improbabile. Un pensiero che, come dice Benjamin, ha deciso di partire dal poco, da questa realtà storica, per costruire un diverso rapporto rappresentativo con il mondo: un diverso potere sulle cose e sul reale. Unpensiero che ha accettato lo spaesamento dalle regole della razionalità classica, senza difendersi nel lutto o nella nostalgia e nemmeno, infine, nell'accentuazione della neutralità dello spazio storico, che verrebbe ordinato da procedure autonome e intraducibili fra di loro, che di fatto si aprono nuovamente alla parola mistica: l'unica che pare ingrado di cogliere ciò che aquesti linguaggi sfugge e pare dunque indicibile. È un pensiero questo che si propone, come dice Benjamin, di «rendere coltivabili i territori su cui finora cresce soltanto la follia. Di penetrare con l'ascia affilata della ragione senza lasciarsi attirare dalla selva primordiale». Si trai/a dunque di un programma radicalmente razionale, ma di una nuova razionalità qual è quella che emerge auraverso la logica dello spaesamento del pensiero freudiano, che auacca il potere della razionalità classica in uno dei suoi nuclei più poderosi e più ferocememe difesi: vale a dire nell'idea di un tempo lineare e cumulativo, che pregiudicava con il suo inesorabile «co,fì fu» ogni immagine del passato e del presente e dunque anche del futuro. li macigno del così fu, dell'impossibile «volere a ritroso» contro il quale si era mosso, invano, lo stesso Zarathustra di Nietzsche. È infatti la nozione di inconscio freudiano che, come dice Jean Petitot, rende pensabile un tempo-ripetizione che non sia appumo semplice successione pumiforme; è la nozione di inconscio che rende pensabile la società e la psiche individua/e in essa come un «campo di battaglia di istanze opposte fra di loro» e dunque rende pensabile il conflitto: la realtà attraverso i conflitti e la pluralità che la costituiscono. Infatti non esiste un luogo dell'inconscio, un mitico regno delle madri, in cui si annida una verità eterna e atemporale. L'inconscio, dice Freud, noi lo vediamo dai suoi effetti: è il conflitto che auraversa ogni linguaggio e ogni manifestazione significativa. È questo ciò che non è saputo, I' Unbewusste della razionalità classica, che il sapere critico, qual è quello proposto da Freud, deve costruire. Contro l'affermazione dell'eternità dei valori della razionalità classica, contro la rappresentazione luuuosa della crisi, Freud dunque pone il sapere della crisi, il sapere della precarietà e della caducità, il sapere del confliuo. In una parola: il sapere critico. E questo si misura con la ragione del passato e con le mitologie contemporanee non in termini di sragione, o di desiderio, o dell'esperienza muta e in-fante che si oppongono alla razionalità dominante . Il confronto avviene in termini di potere: di quello che ho sopra definito il potere intrinseco della ragione. Dunque nella maggiore capacità di questo sapere critico di rappresentare e di decidere su quanto di nuovo è emerso sulla scena storica. Il gesto, se vogliamo, è ancora quello cartesiano. Benjamin lo richiama appunto in Esperienza e povertà, quando avvicina a questa «ragione della crisi» del Novecento (che egli nomina auraverso Einstein o attraverso Klee e Kaf ka) il gesto risolutivo di Cartesio che di fronte alla crisi dello stile della razionalità aristotelica decide di partire dal poco del cogito per ritessere un rapporto significativo con il mondo. Ed è forse proprio questo potere della ragione, di ritessere un rapporto di senso con il mondo, dentro la crisi e la transizione, che può spiegare uno dei temi più segreti e più profondi della grande letteratura e cultura del nostro secolo: il tema della felicità. Nella IX delle tesi Sul concetto della storia Benjamin ci descrive un angelo, l'angelo della storia, che con le ali spiegate e gli occhi spalancati guarda il cumulo di macerie che sale davanti ai suoi occhi fino al cielo. L'angelo vorrebbe fermarsi, ricomporre l'infranto, redimere così queste macerie, ma non può. Una tempesta spira dal paradiso e lo trascina via con sé. Graffiti t1Seco11diglit1no Questa tempesta, dice Benjamin, è il progresso, che ha annullato ogni differenza, che ha reso tu/lo omogeneo perché tutto ha raso al suolo. Ma quello che l'angelo non può, può invece, secondo Benjamin, il soggetto di un tempo discontinuo e critico, il soggeuo del sapere critico e costruttivo. Infaui se, come Benjamin dice nella XVII tesi, «al pensiero appartiene il movimento delle idee, al pensiero appartiene anche il loro arresto». Questo pensiero può dunque riunire i frammenti e le macerie in una costellazione carica di tensioni (che è molto simile a quella descritta da Freud come seduta o situazione analitica). Il pensiero può dunque, con questi frammenti, costruire nuove figure di senso, vincendo così anche il ferreo principio di causa della ragione dominante. Infaui, come egli dice, «nessun fatto perché causa è già perciò stesso storico», ma lo diventa auraverso quest'opera costruuiva, che corrisponde a un sapere e a un conce/lo della storia che ha colto come «lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola». Il sapere critico è dunque anche il sapere cieli'emergenza, il sapere di quel «tempo-ora», dell'auimo in bilico, dello spazio storico in cui convergono, come per un eliotropismo segreto, gli avvenimenti del passato. È così che essi sono come redenti e liberati in un altro senso, in un nuovo senso. (...) Rilke, come Benjamin di fronte all'immagine dell'angelo infelice, smarrito alla vista delle macerie che si accumulano ai suoi pied~ afferma: «Canta ali'angelo il mondo, non l'indicibile» (...) «mostragli ciò che è superficie», «digli le cose. Ne rimarrà stupefatto». Infatti forse noi siamo qui «per dire, capisci, per dire così, come le cose stesse mai/a/l'interno pensarono di essere». Allora la nostra «protezione» sarà proprio ne~essere senza protezione, allora potremo scoprire la felicità nel mutare delle cose, nel nostro stesso mutare. È infine la felicità che Proust scopre nel tempo ritrovato. Egli si misura con la tristezza, con lo spleen di Baudelaire, che come un collezionista si fissa su singoli oggetti o sensazioni - l'attimo della Passante, le immagini e le corrispondenze dei Tableaux parisiens, la capigliatura di una donna - per strappare ad essi il loro segreto. Ma il segreto, la verità, la felicità non è nascosta nell'oggetto, in questa fissazione feticistica sui singoli frammenti che la crisi dei grandi sistemi e delle grandi parole ha liberato e sparso intorno a noi. La verità, con la sua promessa di felicità, sta nella nostra capacità di connettere ques1iframmenti equeste immagini in una costruzione di senso. Quello che Prous1 chiama l'opera d'arte in cui, in un quadro che non ha più lo splendore apparente delle formazioni classiche, ma che è invece pieno di luci e di ombre, di pienezza e di omissioni, possiamo persino vincere quello che sembrava il paradosso insormomabile: volere a ri1roso, l'aveva definito Nie1zsche, volere la memoria involontaria, afferma Prous1. Recuperare quei «gioielli del/' esperienza» che sembravano invece essere lega1ial caso, il lampo che illuminava improvviso, per improvvisamente ingrigire, il paesaggio della memoria volontaria. In ques10 quadro 1uttala nos1ra vita acquista un senso nuovo e diverso. La crisi stessa, che ha azzerato brutalmente le nostre certezze e le nostre abitudini mentali, ci meue di fronte alla possibilità di cos1ruire un'a//ra s1oria: una diversa dimensione del nos1ropresente e del nos1ropassato. È per ques10 che Kafka, forse il più grande degli scriuori del nos1ro secolo -quello che più profondamente ha colto l'esperienza spaesante della metropoli e del moderno - può affermare: «Da un certo punto in là non c'è ritorno. È ques10ilpunto da raggiungere. Il momento decisivo dell'evoluzione umana è, in quanto (noi) abbandoniamo il nostro concetto di tempo sempre in corso. Perciò hanno ragione quei movimenti spirituali rivoluzionari che dichiarano insignificante tutto ciò che è avvenuto prima, perché in effetti nulla è ancora avvenuto>. È per questo che Kafka, nelle lettere a Felice, può parlare, ne~orrore della sua esistenza, di una radiosa serenità: di una grande, immensa felicità. Il nostro destino è infatti ancora davànti a noi. Resta ancora da interrogarsi perché questo modello di intelligenza, di ragione critica, che è il lascito più impor- /ante del pensiero della crisi, non si sia fin qui dispiegalo a fondo. Uno dei motivi è senz'altro -ed è forse il motivo più forte - il fatto che il marxismo nella sua imerpre1azioneegemone è s1atocoltivato come solidale alla ragione classica nel suo punto di massima tensione e resis1enza:nell'idea di progresso, di un 1empo lineare e cumu:a1ivo. Il marxismo stesso - che è sfato ed è 1uttorail pensiero più radicalmente a/- 1ernativo rispetto alla razionalità borghese - è sfato dunque elevato contro i modelli di ques1a razionalità cri1ica come u/1imadifesa me1ajisicadel progresso. E dunque i tentativi di cos1ruire una diversa ragione del 1empo e della storia sono s1a1icondannali al 1ribunale della ragione s1oricis1ica,che ne/l'inesorabilità del progresso di fauo legiuimava il suo po1ere presente. Quello che oggi va souo il nome di «crisi del marxismo> è il riconoscimento della pluralità dei marxismi, ovvero è la percezione che non si può parlare di una 1eoriaunitaria, in grado di spiegare 1u11i fenomeni economici, politici, sociali e culturali. Si deve piu11os10parlare di una memoria composi/a, plurale, contraddittoria delle classi oppresse: una memoria che sia alla base di una coscienza, di una concezione della storia come luogo di conjliuo, di scontro, ma che non garantisce invece né le s1rategie (e basterebbe pensate alla legittimazione passa1a, invece, dello s,alinismo!) né I' esilo della bat1aglia. Il riconoscimento della «crisi del marxismo», con 1ut1i i suoi effetti perturbanti espaesanti da ogni certezza, ha liberalo numerosi 1enta1ividi rappresentare diversamente il reale, di far parlare, in esso, i soggeui e i bisogni che nel quadro della razionalilà classica, ma anche nella scolas1icamarxis1a, rimanevano mwi. (...) Per questa via deve muoversi la ricerca, senZJl nessuna illusione che ai filosofi «spetti un ruolo panico/are>, forse nemmeno quello individualo da Foucault nella Microfisica del potere di fornire ilsapere, che essanon ha, alla memoria bru,a degli scontri di cui sono portatori i sogge1ti delle lolle sociali. Questi soggetti, infatti, già esprimono ragioni e saperi alterna1ivi. Ma usare gli strumenti di analisi, proprio a partire da questi sape~ dai problemi nuovi che essi aprono, se non muta il mondo, può condurre ad un'altra immagine del mondo in cui, come nel testo di Benjamin, la vittoria sia pensabile, proprio a partire dalla «povertà» del presente. Non a caso Benjamin diceva che il materialismo storico deve vincere; non a caso egli individuava nella classe degli oppressi, che louavano contro il po1ere dei vincitori del presente e del passa10, il soggeuo por1a1oredel nuovo sapere, anche nei suoi aspetti più individuali e sogget1ivi: la memoria involontaria, la voce delle don11eche abbiamo amato, di chi è vissuto prima di 11oi,degli avi asserviti. Infaui, perché il soggeuo possa essere qualcosa di più che la cifra segre1adi una sofferenza o il serba1oio di un visswo che si perde nell'indifferenzia10, è necessario che mwino le forme di vi1ae il dominio che un sapere ha eserci1a10 su di esse, o relegandole nell'inessenziale, rispeuo alla s10ricilà colleuiva, o sublimandole ad un'al1ezza che le poneva al di fuori del mo11do. (...) Si 1ra11adunque della ricerca di u11 nuovo e diverso po1ere della ragione, che parte dalla siluazione presente e dalla sua precarie1àe caducilà. Infaui è per questo lempo che devono essere 1rova1eparole i11grado di rappresemarlo e un sapere in grado di dirigerne il mu1ame1110.Ques10 è, a mio giudizio, I' esi10più alto dell'opera di Freud e di Benjamin, esilo che 11oi ritroviamo proprio a partire dalla crisi del marxismo e dai problemi che il marxismo aveva aperto, e a cui esso aveva dato una risposta che per noi, oggi, non è più risolutiva. La crisi allora non apre per noi soltanto luoghi di tenebre e di smarrimen10,ma proprio in ques1i,che erano s1a1i in passalo giudicati imransitabili, un'infinila ricchezza. Il nos1r:onon saper dire può infaui non essere solo l'ef feuo della pover1à del nos1ro linguaggio imbarbarito nelle loue e nei conftit1i,ma effeuo della ricchezza che queste lolle hanno prodouo. E dunque può essere acce11a1laa sfida della precarie1àe della provvisorie1à, il disagio che la 1ransizione sempre comporla. Il viaggio a/traverso il mondo è, come diceva Kafka, veramente s1raordinario. In questa esplorazione i contenu1a, come aveva già visto S1endhal nella Vita di Henry Brulard, una promessa di felici1à. Dopo l'ideologia (Mario Pernio/a) Cl è la convinzione implicila che l'intera civiltà politico-culturale, aperta dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, e fondata appun10 sul binomio scienza-ideologia, sull'università e sull'opinione pubblica, sul sapere di stato e sul consenso sociqle, è entrata in una crisi che molti fattori inducono a ritenere i"eversibile e fatale. Ma è proprio a partire dalla sua eclissi che si comincia a intravedere non solo la mi- ,

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