Alfabeta - anno III - n. 20 - gennaio 1981

purezza originaria; indicazione che non ha il suo luogo né nel mero suono né nel significato, ma, potremmo dire, nei puri grammata, nelle pure lettere, appunto, come quella «nera sementa» del linguaggio che, nel Piccolo aratore delle Myricae, fiorisce poi in un mondo sonoro e vivente; quelle stesse lettere che, raccolte in «mannelle» (altra glossa!), nel Piccolo mie1i1ore parlano tra i denti «còme noi, meglio di noi». VI. In modo analogo dobbiamo intendere anche le onomatopee pascoliane, quei siccecé, uid, videvitt, scilp, zisteretelet, trr 1rrteril, fru, sii sii, quegli scricchiolettii, quei frulli, quegli sgrigiolii che affollano i versi dei Canti e delle Myricae e che il poeta stesso assimila, a proposito della lingua delle rondini, a una lingua morta, «che più non si sa». Si suole caratterizzare l'onomatopea come linguaggio pregrammaticale o agrammaticale («questo linguaggio - scrive Contini - non ha niente a che vedere in quanto tale con la grammatica»). Nell'introduzione ai Principi di fonologia, Troubezkoj, a proposito dell'imitazione vocale dei suoni naturali, scrive: «Se qualcuno racconta un'avventura di caccia e, per rendere vivo il suo racconto, imita un grido animale o un qualsiasi altro rumore naturale, egli deve, in quel punto, interrompere il suo racconto: il suono naturale imitato è, allora, un corpo estraneo che resta fuori del discorso rappresentativo normale». Ma è proprio sicuro che le onomatopee pascoliane siano un linguaggio pregrammaticale? E, innanzitutto, che cosa significa «linguaggio pregrammaticale»? Un tale linguaggio - una dimensione non grammatizzata del linguaggio umano - è anche soltanto pensabile? I grammatici antichi cominciavano dalla voce (ffinè) la loro trattazione. La voce, come puro suono naturale, non enìra però nella grammatica. Questa comincia, infatti, col distinguere innanzituttò la «voce confusa» degli animali (foné agrammatos, i latini "traducono vox illitterata, quae litteris comprehendi non potest, che non si può scrivere, come l'equorum hinnitus e la rabies canum) dalla voce umana scrivibile (engrammatos) e articolata. Una classificazione più sottile, di origine stoica, distingue tuttavia la voce in modo più sfumato. «Si deve sapere», si legge nella Tékne grammatiké di Dionisio Trace, «che, delle voci, alcune sono articolate e scrivibili (engrammatoi) come le nostre; altre inarticolate e non scrivibili, come il crepitio del fuoco e il fragore della pietra o del legno; altre inarticolate e, tuttavia, scrivibili, come le imitazioni degli animali irrazionali, come il brekekéks e il kof; queste voci sono inarticolate, perché non sappiamo che cosa significano, ma sonoengrammatoi (litteratae), perché si possono scrivere ... ». Soffermiamoci su queste voci inarticolate e, però, «grammatizzate», su questi brekekéks e kof tanto simili alle onomatopee pascoliane, e chiediamoci: che cosa avviene alla voce confusa animale per esser diventata engrammatos, per esser stata com-presa nelle lettere? Entrando nei grammata, scrivendosi, essa si distacca dalla voce della natura, inarticolata e inscrivibile, per mostrarsi, nelle lettere, come un puro voler-dire ilcui significato è ignoto (del tutto simile, in questo, alla glossolalia e al vocabulum emortuum di Agostino). L'unico criterio che permette di distinguerla dalla voce articolata è, infatti, che «non sappiamo che cosa significa». Il gramma, la lettera, è, dunque, la cifra, in sé non significante, di un'intenzione di significato che si compirà nel linguaggio articolato; il brekekéks, il kof e le altre imitazioni delle voci animali colgono la voce della natura nel punto in cui emerge dal mare interminato del mero suono, ma non è ancora diventata linguaggio significante. Alla luce di queste considerazioni dobbiamo guardare ora alle onomatopee pascoliane. Non si tratta di meri suoni naturali che semplicemente interrompono il discorso articolato; non c'è- né potrebbe esserci- nella poesia pascoliana - come in alcun linguaggio umano - presenza della voce animale, ma, piuttosto, solo una traccia della sua assenza, del suo «morire» grammatizzandosi in una pura intenzione di significato. Come la schilletta di Caprona (nei Canti di Caste/vecchio), questi suoni non appartengono a nulla di vivente, sono un campanello al collo di un' «ombra», di un animale morto, che continua ora a squillare fra le mani di un «fanciullino» che «non parla». La voce - come nella poesia omonima dei Canti - si avverte «solo nel punto che muore», come un voler-dire («per dir tante cose e poi tante») che, in quanto tale, non può dire e significare altro che il «soffio» di un nome proprio (Zvanf). In questa prospettiva, certamente la voce morta equivale alla lingua morta delle rondini in Addio: linguaggio non, però, pregrammaticale, bensì puramente e assolutamente grammaticale, nel senso più stretto e originario della parola: foné engrammatos, vox litterata. VII. È, dunque, la lettera la dimensione in cui glossolalia e onomatopea, poetica della lingua morta e poetica della voce morta, convergono in un unico luogo, in cui Pascoli situa l'esperienza più propria del dettato poetico: quella in cui egli può cogliere la lingua nell'istante in cui riaffonda, morendo, nella voce e la voce nel punto in cui, emergendo dal mero suono, trapassa (cioè, muore) nel significato. Nella poesia di Pascoli, glossolalia e onomatopea parlano da un medesimo luogo, anche se sembrano percorrerlo in due sensi opposti. Di qui il carattere esemplare di quei versi in cui l'onomatopea travalica in linguaggio articolato e il linguaggio articolato in onomatopea: Finch ... finché nel cielo volai V'è di voi chi vide ...vide ...videvitt Anch'io anch'io chio chio chio Di qui anche, nella poesia pascoliana, il particolare statuto del nome proprio (di questa parola la cui sfera di significato pone problemi quasi insuperabili ai linguisti, e di cui Jakobson dice che non ha, propriamente, significato, ma attua un semplice rimando del codice a se stesso), che, al limite fra onomatopea e glossolalia, sembra costituire un oscuro punto di trapasso fra voce e lingua. Se Zvanf è il «soffio» della voce «nel punto che muore», in Lapide il nome proprio iscritto sulla tomba di una fanciulla è esplicitamente definito come «il pensiero» che il vivente, morendo, esala nel linguaggio: Lascia argentei il cardo al leggiero tuo alito i pappi suoi come il morente alla morte un pensiero vago, ultimo: l'ombra di un nome. E, nelle sfilze onomastiche di Gog e Magog, che ricordano la babelica lingua del Nembrot dantesco: di Mong, Mosach, Thubal, Aneg, Ageg, Assur, Pothim, Cephar, Alan, a me! la pura lingua dei nomi, in cui si è scritta la voce morta, degrada e si confonde con la glossolalia delle parole ...... , • .:.\.l.' •... : \..1,._~.;.; .... ...... ,_,. .r. .cr.., ....,.,'11..VC"' _,.,...._ che «velano e incupiscono il loro significato». L'esperienza di questo «trapasso» - che costituisce il luogo del dettato poetico pascoliano - è un'esperienza di morte. Solo morendo, infatti, nella lettera la voce animale si destina come puro voler-dire al linguaggio significante e solo morendo la lingua articolata può far ritorno al confuso seno della voce da cui è scaturita. La poesia è esperienza della lettera, ma la lettera ha il suo luogo nella morte: morte della voce (onomatopea) o morte della lingua (glossolalia), entrambe coincidenti nella breve folgorazione dei grammata. VIII. In questa dimensione possiamo intendere meglio anche quella.teoria del fanciullino in cui Pascoli ha cercato di cogliere la propria esperienza della poesia nei termini di un dettato (il fanciullino «detta dentro» come l'amore in Dante). Sé, davanti al testo pascoliano, il lettore sta sovente come il barbaro paolino che non conosce la dynamis delle parole, la pretesa che genuinamente caratterizza l'esperienza pascoliana del dettato è che anche «colui che parla» nel poeta sia un barbaro, che parla senza sapere quello che dice, che parla, cioè, proferendo la parola nel suo stato nascente, come puro voler-dire e lingua dei nomi. Coerentemente a questi principi, il dettato del fanciullino è colto prevalentemente in termini di voce («egli confonde la sua voce con la nostra ...si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire ... tinnulo squillo come di campanello ...udirne il chiacchiericcio») ed egli appare come «l'Adamo che per primo mette i nomi»; decisivo è, però, che, nelle poesie del Ritorno a S. Mauro che chiudono i Canti, la sua figura si sveli come figura tombale, profilo ombrato di un morto, che sfuma e quasi si confonde nei trattti di quell'altra morta che è la madre. Tutte le poesie del Ritorno a S. Mauro s'illuminano singolarmente se le leggiamo come un dialogo con la lingua morta (la madre) e con la voce morta (il fanciuilino ), che ora tradiscono la loro segreta unità. In Mia madre, la voce infantile dimora, infatti, presso la madre morta: Tra i pigolii dei nidi io vi sentii la voce mia di fanciullo ... e, in Giovannino, il fanciullino abita al limite del camposanto ed è, ormai, chiaramente equivalente, nella sua funzione poetica, alla figura materna. Ed è questa visione tombale che sta al centro della poesia in cui Pascoli ha colto nel modo, per lui, supremo la propria esperienza del dettato: La tessitrice, che serra in un dialogo fra il poeta e la voce l'evento tremendo della parola poetica. Qui - nel cuore del dettato - non si ode «il suono di una parola», il telaio che intesse la tela della lingua «non suona ...più» e tutto è soltanto «cenno 'muto». Finché, all'interrogativo due volte ripetuto, «perché non suona?», la vergine vocale (fanciullino e musa, voce e lingua materna) svela la propria immedicabile morte: E piange, e piange- Mio dolce amore, non t'hanno detto? non lo sai tu? Io non son viva che nel tuo cuore. Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso per te soltanto ... Così La tessitrice dice la verità che// fa11ciulli110 ancora teneva velata: che il fanciullino non c'è, che la voce infantile che detta la poesia è una voce morta, così come è una lingua morta la sola che ne raccoglie il dettato. Possiamo ascrivere questo tratto pascoliano fra quelli più profondamente scalfiti nella fisionomia culturale italiana: la volontà e la coscienza di operare in una lingua morta, cioè individuale e artificiosamente costruita, glossolalica nel senso che si è visto, con o senza «preghiera di interpretazione». on si pensi qui soltanto ai nomi che per primi vengono in mente fra gli scrittori del novecento: Gadda e Montale, Pasolini, Noventa, Zanzotto, ma anche a quei prosatori che operano in un'area apparentemente diversa, Longhi, ad esempio, le cui «scandelle» nel saggio su Serodine rendono alla frase un ombreggio pascoliano. Tale è ildifficile, enigmatico rapporto di questo popolo con la sua madre lingua: che solo può ritrovarsi in essa se riesce a sentirla morta, che solo discerpendola in reperti e brani anatomici può amarla e farla sua. La morte di Beatrice condiziona - anche qui - tutta la nostra tradizione letteraria e Laura (l'aura) di Petrarca non è che il fiato della voce - e questo, alla fine, solo «aura morta>. IX. li linguaggio umano è, dunque, sempre, per Pascoli, «linguaggio che più non suona su labbra di viventi>, nel duplice senso che esso è necessariamente una lingua morta o una voce morta, ma, in ogni caso, mai viva voce dell'uomo, parola di un vivente. Pascoli - potremmo dire - è sceso come Faust nel Regno delle Madri, di queste dee che custodiscono «ciò che da lungo tempo più non esiste>, nelle quali dobbiamo vedere una figura delle lingue madri, delle matrices linguae di Scaligero; e, come Faust, ha scoperto che esse sono morte, che intorno al loro capo aliano solo immagini «mobili, ma senza vita» (anche se è possibile, con un incantesimo, animarle in musica, farle cantare). E inattingibile e morta è, con esse, anche la voce della natura. (E non è forse vero che ogni nostra parola è «lettera morta», lingua morta che ci è tramandata dai morti e non può mai scaturire da qualcosa di vivo? Com'è possibile, allora, che queste parole senza vita diventino, a un tratto, la nostra viva voce, che, per un attimo, nel cuore del poeta, le morte lettere cantino e vivano?) Parlare, poetare, pensare può allora solo significare, in questa prospettiva: fare esperienza della lettera come esperienza della morte della propria lingua e della propria voce. Questo significa essere «uomo di lettere», tanto seria e estrema è, per Pascoli, l'esperienza delle lettere. Pascoli, «lui che, visto di spalle, sembrava un fattore», lui che ha certamente scritto «un numero incredibile di brutte poesie•, è,allora, veramente «il più europeo dei nostri poeti alla fine del secolo•: poeta della metafisica nell'epoca del suo tramonto, egli compie fino all'estremo l'esperienza del mitologema originale di questa: il mitologema della voce, della sua morte e della sua memoriale conservazione nella lettera. Proprio per questo, nel punto in cui registriamo la coerenza e il rigore della sua lezione, dobbiamo, però, anche porre la domanda che deve - qui - restare, provvisoriamente, senza risposta: è possibile un'esperienza della parola che non sia, nel senso che si è visto, esperienza della lettera? È possibile parlare, poetare, pensare oltre la lettera, oltre la morte della voce e la morte della lingua? li carauere di questo studio non ha permesso ali'Autore di soffermarsi sugli aspetti critici e filologici del/'ediiione pascoliana che gli ha fornito questo spunto. Deve però esser qui almeno notato che Maurizio Perugi, concentrando l'aueniione sul Pascoli prosatore epensatore, ha compiuto un lavorodi cui gli studi pascoliani non potranno in futuro non tener conto. Con tanta più impazienza a.spelliamol'uscita dei suoi annunciati Saggi pascoliani.

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