senso e ai paradossi ci aveva abituati S. Mrozek, da lungo tempo in esilio, con il suo «teatro dell'assurdo», si trattava però di un assurdo sottile, prodotto finito di un lungo processo di raffinazione. La letteratura «clandestina> è invece piuttosto materia greggia, dove la non-realtà della burocrazia, della corruzione, della degradazione morale dell'individuo coscientemente perseguita, esprime tutti i suoi paradossi più segreti. L'allucinante allegoria de La piccola apocalisse (1979) narra di uno scrittore alcoolizzato prescelto dai suoi compagni dissidenti per darsi fuoco di fronte al tempio del potere, il «Palazzo della Cultura». II suo gesto «disperato» dovrebbe risollevare dalla crisi il dissenso polacco, dilaniato da rivalità e divisioni intestine. P roiettata in un futuro prossimo, ma non determinato, La piccola apocalisse è la storia del viaggio attraverso i vari «gironi» della città, dagli appartamenti di periferia agli squallidi snack-bar popolari, dalle strade buie popolate da ubriachi ai sotterranei del Palazzo della Cultura strapieni di ogni ben di dio. Sospeso tra reale e irreale, tra proiezione del quotidiano e raffigurazione simbolica, questo viaggio in una Varsavia fantasmagoricamente piegata dai razionamenti di viveri e di energia, è insieme l'una e l'altra cosa. È forzatura di tono di situazioni reali, come il ricordo reE ra tempo di far compiere un salto al concetto di censura, cercando di ricavare alcune caratteristiche fondamentali di tale dispositivo sociale direttamente dalle pratiche realmente in atto, piuttosto che dalle teorie sino ad oggi emerse su questo argomento. È quanto si è tentato di proporre a Ferrara, mettendo insieme competenze diverse tra loro- da Mario Tronti a Paolo Fabbri, da Remo Bodei a Giovanni Cesareo, da Adriano Aprà a Giangiorgio Pasqualotto, da Omar Calabrese a Ellis Donda, Amato Lamberti, e altri- e facendole ruotare attorno alla questione di fondo, a ciò che davvero conta e rende l'argomento non solo interessante ma necessario: la pratica censoria come produzione di strategie della rappresentazione e della comunicazione, come potere dunque. Siamo troppo abituati ai modi in cui si parla di censura in ambito cinematografico, televisivo, giornalistico e letterario o ai modi in cui le politiche culturali tentano di «sfruttare» il potenziale rivendicativo di coloro i quali sono o si dichiarano censurati: sono modi che riducono la concezione di censura ad un fatto puramente meccanico-amputare. oscurare, distorceree lo addebitano esclusivamente al potente, cioè colui che esercita un rapporto di forza e per di più contravvenendo alle regole della democrazia, cioè eccedendo negli strumenti di dominio di cui dispone. Si tratta invece di collocare il discorso sulla censura al livello che merita: identificare un insieme di meccanismi interni alla comunicazione, presenti non al vertice soltanto della comunicazione, ma tra le due parti, nel ciclo complessivo, della produzione e del consumo di informazione; non solo arma dei malvagi e degli «invasori», ma anche espediente dei buoni e dei subordinati. Dunque, volgendo l'occhio ad una concezione del potere meno rozza, ad una forma della conflittualità politica più diffusa e articolata rispetto al dualismo manicheo di tipo tradizionale. Vediamo perché. Il rapporto tra efficacia e verità - si cente del grande gelo del capodanno '78, che lasciò la capitale nel freddo, nell'oscurità e senza comunicazione pubblica per quattro giorni, con migliaia di persone che si spostavano per chilometri a piedi. Ma è anche, al tempo stesso, un viaggio a ritroso nella coscienza, tra i suoi gangli più dolorosi, nella passività, nell'impotenza e nella paura. «Anonimo homo sapiens», il protagonista compie a sue spese un esperimento sul corpo ideale della società polacca, su di se stesso: dentro non trova che disperazione mitigata da sarcasmo, fuori il pantano del cinismo e dell'indifferenza. Schiavi di un destino catastrofico di dimensioni planetarie che vede profilarsi il dominio dell'illibertà, gli altri sembrano aspettare nell'immobilismo l'apocalisse, la fine del mondo: «Ma questa fine può durare a lungo. Secoli interi» (pag. 76). Il secondo romanzo «samizdat» di Konwicki, Il complesso polacco (I 977) prende spunto dalla lunga attesa del protagonista (come l'autore expartigiano non comunista, ex-scrittore soc-realista, ex-membro del partito) in una fila che si trascina stanca, nel corso di tutta la vigilia di atale, verso un negozio di orologi. Tadeusz incontra così un uomo che sostiene di essere stato incaricato di ucciderlo negli anni '50, per il suo «tradimento» delle formazioni partigiane: ma la rivelazione, che potrebbe dare al tutto un tono tragico, si diluisce nel coro dei canti natalizi di sottofondo, nelle bottiglie di vodka trangugiate tra un discorso e l'altro, nella piccola folla in coda fatta di studenti, padri di famiglia, pensionati e balordi. Alla sera, arrivato finalmente il camion con le agognate merci, anche l'attesa si rivela inutile, perché al posto degli orologi vengono scaricati solo samovar elettrici in super inox. Proiezione caricata degli incubi della realtà storica polacca, delle sue drammatiche impasses, delle assurdità della vita quotidiana (di cui gli avvenimenti di questi ultimi mesi hanno fatto giungere un 'eco fino a noi), il realismo grottesco di queste opere è un modo di farsi specchio di esperienze collettive: la concentrazione dell'elemento grottesco rispecchia infatti questa esigenza di «universalità», questa voglia di uscire dalla dimensione strettamente individuale, pur narrando senza dubbio di sé. La caratteristica nuova di queste opere sta forse infatti in questa ricerca di una nuova collocazione e di un'identità sociale, da parte dell'intellettuale, ,in seno ad una società che cambia, che esprime i suoi disagi non più in maniera «schizofrenica». In Polonia l'uomo della strada fa i conti con i lati più meschini e «ridicoli» del potere, con le sue regole e divieti, intrallazzi, con i suoi timbri e scartoffie, con l'esercito dei suoi microscopici e servili esecutori, di funzionari, poliziotti, portieri o impiegati. Questa grigia schiera è la longa manus dell'autorità la più tangibile e reale, ma anche la più paradossale. Nei· romanzi di Konwiski questa dimensione viene concentrata ed esaltata al massimo: ai personaggi, così, non resta che trasformarsi in figureruolo, impoverite e prigioniere di schemi: il piccolo dirigente del partito, il carrierista, l'intellettuale, l'alcoolizzato divengono così rappresentazioni drammaticamente caricaturali della degradazione dell'esistenza. Si spiega così una certa «rigidità» delle figure di contorno che ricorda gli abbozzi dei personaggi di una certa letteratura «gialla»: la narrazione diviene un mezzo concentrato al massimo, per giungere ad un quadro d'insieme, dove i singoli elementi hanno un senso soltanto in relazione al tutto, e dove infine essi si inseriscono in un gioco di situazioni prefissato ed obbligato, dove non c'è più spazio per i sentimenti e per ogni forma di spontaneità, perfino nel linguaggio. La lingua di cui si servono i personaggi, infatti, è lo «small-talk» burocratico, la lingua primitiva e semplificata del potere che, in un interessante saggio socio-semiologico pubblicato da «Nowa» ( 6) è stata definita la «neolingua» di stampo orwelliano. Sulla falsariga della «lingua della propaganda» dei mezzi di comunicazione di Censura potrebbe anche dire tra potere e co'noscenzalcoscienza - viene dato di sovente come sostanziale per l'iniziativa politica. A seconda che la pratica censoria sia agita o patita, si suole porre l'accento su l'uno o l'altro dei due poli in questione, legittimando, in un caso, la censura come strumento di funzionalità politica, denunciando, nell'altro caso, la censura come strumento di sopruso e violenza sull'espressione e sui significati. In tempi di rapporto stretto tra politica e ideologia, che in Italia sono spesso anche i tempi di scontro frontale fra subordinati e potenti (si pensi agli anni della ricostruzione e alla «curva» del dibattito sul neorealismo come cultura di opposizione solloposta alla censura di governo), il concetto di censura assume la sua configurazione classica di Alberto Abruzzese polemica rivendicativa e ancor oggi dai più viene perpetuata come tale. Vale a dire che questa concezione di censuca si forma ed assume i suoi contorni di maggior rilievo nazionale quando la società civile gode si di un impulso di modernizzazione (da cui derivano, appunto, rischi conflittuali che vanno contenuti e dunque richiedono l'uso della censura), ma contemporaneamente soffre di meccanismi di socializzazione arretrati e difettosi (da cui un uso della censura di tipo rozzo e per così dire «deterministico»). Ma ora, tramontata ogni velleità neorealista ed ogni certezza ideologica, siamo finalmente di fronte alla verifica della profonda crisi che le forme dello scontro tra «interessi» opposti, le forme del conflitto tra diverse forze produttive e sociali, stanno attraversando, sino a rinnovare radicalmente la teoria politica, sino a renderla consapevole dei fatti che hanno minato gli antichi equilibri, distrutto la passata razionalità. E, quindi, è proprio la attuale crisi di valori e di modelli che produce o almeno può produrre un salto qualitativo nel definire le pratiche censorie non più sulla linea di demarcazione tra chi comanda e chi è comandato ma nel corpo stesso della società. Mario Tronti ha .usato, proprio in occasione dell'intervento al convegno ferrarese, una immagine del farsi storico del rapporto di potere, una metafora del costituirsi della forma contemporanea del comando estremamente suggestiva presa a prestito da Canetti: mentre prima l'uomo comandava il cavallo a distanza mediante il wiH/dm8lJRROll6flS, ,faek lv{ROVAC, •llui GINSN/lG, ~ OI.LOl/41.'I, glifMI CdtfO,.J1.fc,Jdio OIW)VJ1'(J, /lf tZl(o /fl~). BEATGENEBATION massa, Konwicki costruisce così una atmosfera brutale, rozza e senza più nessuna mediazione, rovesciando e denunciando implicitamente la politica, niente affatto occulta, di condizionamento dei mezzi di informazione. La piccola· apocalisse si chiude col rogo del protagonista; sotto il ronzio delle macchine da presa, lo scrittore in crisi de Il complesso... torna a casa gonfio di alool e di amarezza; il regista intervistato de La non realtà si porta dietro le sue confessioni sul nastro, nascondendole in tasca, visto che «dentro ad un sapone non c'entrerebbero». All'orizzonte, l'inquietante bagliore dell'illibertà, «rosso come il respiro della città (...) forse stella gi~ gantesca, forse ritratto di donna in pianto, forse baratro aperto dell'inferno». l) Secondo la felice definizione di Cz. Milosz, oggi premio Nobel. cfr. Cz. Milosz La mente prigioniera, ed. Martello I 955 2) A. Wajda, intervento al convegno dei lavoratori del cinema, Danzica 1980, in « Kultura» 2119/1980, pp. I 1-12. 3) J. Walc, T. Konwickiego przestawienis swiata, (La rappresentazione del mondo di T. Konwicki), tesi di dottorato mai pubblicata. J. Walc è oggi un attivo collaboratore del K.O.R. 4) A. Wajda, op. cit. 5) A. Wajda, op. cit. 6) La lingua della propaganda, Varsavia, Nowa, 1979. Trascrizione di una lezione tenuta all'Università volante clandestina. lancio di una freccia - e dunque la freccia è per così dire l'immagine originaria del comando - alla fine, ora, cavaliere e cavallo fanno un tutt'uno e viene cosi annullata la distanza tra chi comanda e chi è comandato. 11 nodo della questione, allora, è molto vicino a quel nodo teorico, molto più generale e drammatico, che riguarda la dinamica dei rapporti di potere in una società democratica. Quel nodo di problemi teorici che ha accompagnato strategie e tattiche del·- la conflittualità di classe mano a mano che i meccanismi di socializzazione hanno esteso capillarmente l'opposizione «originaria» del luogo di produzione a tutto il territorio della vita civile. E quanto più, dunque, la forma di governo democratico esplica una gamma articolata e sofisticata di dispositivi atti a regolamentare ilconflitto, a concedergli uno sviluppo non catastrofico, a contenere o mediare le punte più elevate di dominio economico-politico, tanto più i modi di produrre censura si diffondono, si interiorizzano, si moltiplicano ed occultano allo stesso tempo. Cosicché non risulta certamente paradossale sostenere che quanto più una pratica censoria si esibisce spettacolarmente, si denuncia nella evidenza della sua funzione, rende esplicita la sua scelta di potere, tanto più dimostra conflitti già risolti, improduttivi, o di «contorno». Mentre invece, laddove il sottile e profondo reticolo di strategie censorie agisce nel comportamento, nella conversazione, nella vita quotidiana, nella grande area dei consumi di massa piuttosto che ai vertici del comando o del pensiero, nei bisogni superflui e «immaginari», piuttosto che in concetti e valori, laddove insomma la censura non è corpo estraneo ma assimilato, elemento costitutivo per quanto «specializzato>> dell'agire, dire, pensare e sognare, ecco qui il potere nella sua realtà più profonda e avanzata, ecco l'efficacia di un comando che muove dall'interno, che agisce con rapidità elettronica e non più mec-
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