- D a qualche tempo la riflessione semiotica ci ha abituati a fare i conti con due nozioni fondamentali nei riguardi della vita sociale e culturale di un paese: la sua «testualità», nel senso che ogni manifestazione culturale, metti uno spettacolo rock, un comizio, una processione può intendersi un «testo» culturale da mettere in rapporto con tutti gli altri testi, scritti e orali; e la nozione di «memoria collettiva» come condizione indispensabile alla socialità della cultura, ai suoi processi comunicativi. In altre parole, perché qualcosa resti nella cultura deve essere socialmente ricordato. Se si mettono in rapporto queste due nozioni di testualità della cultura e di memoria collettiva, verrebbe fatto di trarne la conseguenza che i testi più duraturi nella memoria collettiva sono quelli che in qualche modo contano di più: la prima guerra mondiale è entrata nella memoria collettiva più della guerra di Libia; con un esempio banale di ambito letterario, l'Orlando furioso dell'Ariosto è durato e dura meglio dei vari cantari e poemi cavallereschi che l'hanno preceduto. Cioè a prima vista sembrerebbe che la gerarchia o graduatoria memoriale esistente nella collettività sia una gerarchia sensata, rispondente a una graduatoria di valore dei testi culturali esistenti. Invece, le anomalie sono molte: alcune si producono spontaneamente (fatti e cose importanti scomparsi dalla memoria collettiva per cause involontarie, naturali e no). altre anomalie sono provocate. Quest'ultimo fatto può risultare eccitante all'attenzione dello storico e del semiologo: dimenticanza creata artificialmente dall'alto. Vale la pena di ricordare al proposito alcune acute osservazioni di J.M. Lotman e B.A. Uspenskij sul meccanismo sociale della dimenticanza nel volume Tipologia della_,:ullura (Bompiani, 1975. p. 47): «La.~oria della distruzione dei testi, della loro estromissione dalle riserve della memoria collettiva si muove parallela alla storia della creazione di nuovi testi», dove «testo» ha il valore massimamente estensivo di cui sopra. Fatto l'esempio di alcuni movimenti culturali che revocano l'autorità dei testi su cui si orientavano le generazioni precedenti. magari addiriHura distruggendoli, i due autori concludono: «Occorre tener presente che una delle forme più acute di lotta sociale, nella sfera della cultura, è la richiesta della dimenticanza obbligatoria di determinati aspetti dell'esperienza storica». Da questo discorso si può dedurre che, a fianco della dimenticanza come fenomeno naturale e quindi elemento stesso della memoria, esiste un'arma della dimenticanza usata dal potere contro la memoria collettiva degli abitanti di un paese. C'è però un altro distinguo: la dimenticanza collettiva può essere provocata per vie negative (il silenzio) o imposta, resa obbligatoria attraverso regole di comportamento culturale e relative condanne ufficiali. el primo caso acquista importanza particolarmente il livello sociale linguistico in quanto il linguaggio è il più vasto sistema di comunicazione sociale;inquestocasol'arma essenziale della dimenticanza sta nel non parlare più di qualcosa che è avvenuto. el secondo caso il silenzio non è l'arma essenziale, è anzi uno strumento facoltativo: fondamentale è imporre norme comportamentistiche e condanne ufficiali atte a generare la dimenticanza. Traspare subito quanto più rozzo e vistoso sia il secondo metodo, che non merita quindi se non SilenziQ.cJtampa brevi cenni per essere poi messo da parte. Tutti i fascismi e tutte le persecuzioni ideologiche rientrano in questa seconda serie di usi dell'arma della dimenticanza; siffatti movimenti e operazioni pertanto, facendo scomparire i testi in disaccordo con un dato modello sociale, incidono a tal punto sulla memoria collettiva da ossificarla e provocare, mentre imperversano, una fase di regresso socio-culturale: tipico il nazismo, assai meglio organizzato in questo senso che non gli altri fascismi che gli vengono a ruota. Di persecuzioni ideologiche oggi il mondo offre alquanti esempi, a tutti ben noti; ragione per cui ne scegliamo uno medievale, abbastanza didattico agli effetti delle conseguenze nel tempo di tale soffocamento della memoria collettiva con mezzi violenti. el 1277 l'arcivescovo di Parigi Stefano Tempicr, condannando 219 proposizioni di filosofi dell'università di Parigi e di altri intellettuali e obbligando i loro autori all'esilio cui talvolta segui l'eliminazione fisica (è il caso di Sigieri di Brabante), impedl per sette secoli la vera conoscenza di un movimento filosofico e ideologico, l'aristotelismo radicale detto imprecisamente avverroismo. Anche se i condannati, come sempre accade, fecero proseliti, in effetti dapprima si produsse nella cultura alta del tempo un'autointerdizione da parte degli stessi seguaci che per timore cancellavano dai codici e dall'insegnamento orale i nomi dei mac~tri: poi lentamente gli a~pclli di pcm,icm più originali del movimento scomparvero dalla memoria colle11ivaal punto che solo nel nostro secolo, anzi solo in questi anni si stanno recuperando i testi e si sta riscoprendo che geniali pensatori furono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, quest'ultimo negli scrilli filosofici anche poeta come spesso è il grande filosofo. M a torniamo al primo uso dell'arma della dimenticanza,più so11ilee ambiguo. Mentre nella dimenticanza imposta per via violenta l'operazione è grossolanamente contenutistica, nella dimenticanza provocata attraverso l'imposizione del silenzio gli strumenti operativi sono squisitamente formali sicché sembra che sul piano dei contenuti non sia avvenuto nulla, ogni libertà sia stata e sia rispet- - tata. Sembra, naturalmente. Prima di riflettere sul fenomeno se ne danno due esempi: uno daccapo medievale e uno dei giorni nostri, quello da cui in verità ha preso l'ispirazione e le mosse tutto questo discorso. Il medievale è illustrato da un recente acuto saggio di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, «L'interdizione del giullare nel vocabolario clericale del XII e del Xlii secolo», dove si insiste sulla difficoltà di studiare la presenza geografica, la consistenza numerica, la stratificazione sociale, la produzione artistica dei giullari, dei clerici vagantes, degli attori dei teatri di piazza in una società in cui esisteva un'imposizione del silenzio su tutte le attività di• costoro, definiti sbrigativamente ministri Satanae. Trattandosi di operatori di una cultura «diversa» e trasgressiva, bisognava che i rappresentanti della cultura ufficiale li ignorassero, non ne parlassero; orbene, come osservano le due studiose, «i meccanismi dell'esclusione si fanno più articolati e differenziati negli interventi di quegli intellettuali che, con diverse competenze, queste esclusioni sono chiamati a gestire»; chi teorizza l'utilità del silenzio «scritto e orale», chi gestisce la cosa a livello pragmatico. Quando qualcosa di simile succede, qualunque sia l'epoca e il paese in cui succede, ecco che lentamente tutto si ritualizza negli scritti come nei comportamenti, diventa cioè iterativo e pacifico, un fenomeno appunto solo dell'ordine formale; non si fa abbastanza caso a quale parte da protagonista sostenga nel mondo la debolezza degli uomini. E veniamo allo sgradevole oggi. Ci sono stati vari scandali, c'è stato un terremoto. I mass media dalla televisione alla stampa hanno cercato, sia pure in prospellive differenti e magari con diverse finalità, di dare il massimo delle notizie inserendo, cosa importantissima, la documentazione dal basso: il microfono ai terremotati, ai soccorritori, al ci11adinocomune, eccetera. Si è subito notato in queste circostanze che l'informazionedal basso non coincideva con quella offerta dall'alto, cioè ufficiale: ritardi nel soccorso I tempi necessari al soccorso; disorganizzazione degli aiuti / organizzazione; corruzione a vari livelli / non corruzione; assenza dello Stato / presenza dello Stato. A questo punto la non coincidenza delle informazioni, anzi la loro natura antitetica, contrappositiva, invece di essere considerata il più serio oggetto di riflessione, se pure ammettiamolo sgradevole, si è configurata per chi ha il potere come un elemento di disordine, donde il solito secolare ricorso all'arma del silenzio. Preziosi al proposito alcuni commenti, non di semiologi naturalmente, ma di esperti di cose politiche, segnali di una minaccia dell'operazione regressiva, del declino che sempre incombe quando non si sa andare avanti; sulla Repubblica del 7 dicembre Eugenio Scalfari scriveva lapidariamente: «Che vergogna, quando gli uomini di governo invocano il silenzio in nome della solidarietà nazionale». Ma dall'invocazione del silenzio, che già si era sentita risuonare in occasione del serio e prezioso discorso di Pertini al paese, ora si sta passando a proposte di un concreto uso dell'arma del silenzio; leggiamo ancora sulla Repubblica del 14 dicembre. a firma di Giorgio Battistini: «Come risolvere una volta per tutte la questione morale? Semplice: cominciamo a ignorare gli scandali. Meglio: obbligando chi deve raccontarli a una saggia, prudente autocensura. Un confortante 'silenzio stampa' sotto il cui ombrello potrebbe rifugiarsi una parte della classe politica per sfuggire al controllo dell'opinione pubblica». E si affianchi l'allarmata presa di posizione del presidente della Federazione nazionale della stampa Paolo Murialdi e di altri responsabili giornalisti di vari indirizzi, che prospellano il pericolo di un progetto di legge per imbrigliare la libcrtà di stampa. V eniamo al nocciolo del fruito: la tecnica dell'interdizione della parola procede sempre per gradi (nel caso nostro si inizia dal «silenzio provvisorio» richiesto come forma di solidarietà nazionale di fronte a sciagura pubblica, cioè terremoto) e attraverso la gradazione si afferma una forma di ritorno regolare della tecnica del silenzio e la si ritualizza nei comportamentie nei testi. Questo ritorno regolare e conseguente ritualizzazione sociale sono falli assai gravi perché producono nei cittadini abitudine, il che vuol dire addormentano le teste. Inoltre essendo in politica, come in ogni realtà socializzata, inseparabile l'esistenza di una cosa dal suo essere «parlata», discussa, il silenzio equivale a inesistenza, produce inesistenza; proprio come accade, ad esempio, a proposito di fenomeni prodigiosi, miracoli ecc.: se avviene un miracolo e la gente si comporta come se non fosse tale, il cara11cre miracoloso dell'avvenimento è annullato. Donde le tecniche del «meltere a tacere» che puntualmente entrano in azione ad ogni nuovo scandalo. Il ciclo non è esaurito ancora: se la ritualizzazione del silenzio nei comportamenti sociali ha l'effe110 di produrre abitudine, a sua volta l'abitudine o meglio habitus, come lo chiamavano gli aristotelici, fa sì che la gente consideri successivamente il parlare come forma di disordine, quasi fosse il parlare di cose disordinate a creare il disordine. Il che in parte già avviene in Italia; a tulli noi è capitato in questo periodo di ascoltare frasi del genere: «Ma perché interrogare tanti terremotati e far sentire tutte quelle lamentele? Adesso bisogna essere uniti, e basta». Certo dietro questa logica, dietro a tali frasi, diciamo così, ineffabili di tanti italianiani e terreno adattissimo alle operazioni descri11e, una verità inconsciamente individuata c'è. Come dire che anche uomini che sembrano mancare di intelligenza del reale, ogni tanto possono coglierne un aspetto. Si tratta di quell'aspetto o verità che ben consciamente individua chi è al potere: la forte funzione pragmatica del linguaggio nella vita sociale. Proprio in conseguenza di tale rico- _noscimentodella funzione pragmatica del linguaggio, all'imposizione del silenzio si accompagna, sempre da parte di chi ha il potere e non si concede un attimo di pace al fine di trattenerlo, la creazione di un frasario sostitutivo (oggi come nel medioevo), a cui si affida il compito di produrre contenuti sostitutivi della cosa interdetta: a tale frasario sostitutivo appartiene, per esempio, il sintagma «la questione morale»: come se usare il sintagma «la questione morale» equivalesse a creare nella realtà qualco a che de factu sostituisca le malefatte; come se la denominazione già fosse medicamento, res concJeta (a parte l'effetto di umorismo preterintenzionale contenuto nella notizia di un grande quotidiano, umorismo contro il quale sarebbe consigliabile che i politici stessero un po' più in guardia: «Oggi ha avuto luogo fra i suddetti ministri una colazione di lavoro per discutere la questione morale»). Non si può non rilevare che da alcuni anni il frasario sostitutivo, felice ohimé flusso di parole, è quasi la sola offerta dei politici al paese disastrato. Al che viene in mente Balzac: «li n'y a rien de violcnt à Paris commc ci qui doit ctre éphémèrc» e, a ruota, Ugo von Hofmannsthal nel recente Libro degli amici (Adelphi, Milano 1980): «Non aleggia un fiato di morte e di disfacimento su tulli quegli istituti dove la vita viene posposta al meccanismo della vita?». Quanto al meccanismo del discorso politico, esso è già stato validamente illustrato da storici della lingua italiani e stranieri, oltre che da semiologi; e, data la sua fatale iteratività, ormai ~ anche al pubblico esso è ben noto. Sic- "' ché forse i soli a doverci ancora riflet- -~ ~ tere soprasonoproprioloro, i politici, -. a doversi quindi domandare se davve- ~ ro è possibile che un paese sia governa- _ 9 to a11raverso le tecniche dell'enunciac:s zione, le strutture della retorica e l'interdizione di un parlare «altro». Non è "' ~ e:, "' che i desideri di noi non politici si avverino mai, ma pur non potendo fare assegnamento su niente le nostre spe- ~ ranze di vederli avverarsi non muoio- ~ no mai. si
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