Il governo cl,tl.l' economia Silvio Beretta, Carlo Magni, Lucio Portolan Tendenze della politicaeconomica italiana nelle delibere del Comitato lotenninisteriale per la Prognmmazione Economica 1971-1976 (Tomo L Linee di intervento ed evoluzione nel contesto normativo; Tomo Il. Classificazione e analisi delle delibere) CIRIEC 1979 locentivi e sviluppo del mezzogiorno a cura di Ferruccio Marzano SVlMEZ, Giuffré, 1979 pp. 679, lire 12.000 Vittorio Valli L'economia e la politica economica italiana (1945-1979). Tendenze e problemi Milano, Etas libri, 1979 (nuova edizione) pp. 210, lire 6.500 R iemerge con forza nella più recente pubblicistica politica una categoria che da lungo tempo gran parte della sinistra si era abituata ad usare soltanto come referente negativo rispetto ad un nucleo positivo riassumibile nelle formule della «direzione pubblica», del «governo democratico» dell'economia: il mercato. Gli economisti della Rivista trimestrale cercano di misurarsi - talvolta un po' genericamente - anche con queste formule e mostrano quanto possa essere illusorio pensare di neutralizzare il «potere> del mercato con una programmazione, qualsiasi essa sia, generale o settoriale. Il mercato «imbavagliato» cova la sua vendetta. Barca, di rincalzo, dalle colonne di Rinascita ricorda che il mercato non è soltanto il luogo naturale dove si incontrano possessori di merci ma è anche teatro di conflitti sociali. E ancora che la storia insegna ad abbandonare l'ottica limitata che pone l'equazione mercato uguale mercato capitalistico. Sono, queste, soltanto le più recenti battute di un discorso ormai riaperto su questi temi. Troppo facile farci dell'ironia, da sinistra - come da pane di alcuni. Mi pare invece sia opportuno fare i conti con le questioni connesse al tema del mercato e all'universo problematico che gli sta intorno con meno frettolosità e sopraltutto con maggior riguardo. on si tratta di fondare ancora una volta un partito pro o contro la «riabilitazfone» di questa categoria. ma di considerare con molta attenzione le implicazioni teoriche ed anche politico-economiche che la questione solleva. La connessione tra i problemi brevemente accennati e quelli che i tre contributi qui considerati affrontano tematicamente non è poi così sotterranea e nascosta. on solo e non tanto perché hanno ad ogge110 le tendenze della politica economica, quanto piuttosto perché ripercorrendo - a11raverso queste ricostruzioni - contenuti e strumenti dell'intervento statale si ha l'impressione che il mercato ed i suoi meccanismi siano stati di fatto i grandi assenti anche nei più significativi tentativi di ridefinire le linee della politica economica e delle connesse questioni istituzionali. Le analisi condotte in questi volumi mi pare inducano a riflettere sulle formule e sugli istituti in cui si è condensato, soprattutto a partire dagli anni '60 in poi, il governo dell'economia e ad esaminarle in rapporto agli effetti conseguiti sul sistema produttivo italiano. L'invito più o meno esplicitato è a ripensare profondamente il ruolo ed i modi dell'intervento pubblico. Questo rimette in discussione da un lato i contenuti della politica economica, ma dall'altro le procedure stesse di formazione delle scelte economiche e la configurazione della struttura decisionale, potenzialità ed effettivo grado di efficacia delle decisioni elaborate dai più diversi soggetti competenti. Si parla molto, e da ogni parte del crescente processo di «amministrativizzazione» dell'economia, della progressiva «dipendenza» dei soggetti economici dalle decisioni della pubblica amministrazione. Esempio chiaro e significativo sono le più importanti leggi in materia di politica industriale e di sviluppo economico degli ultimi anni. Valga per tutte il caso della legislazione di incentivazione industriale attualmente in vigore. Le conseguenze sono state molteplici e di vario ordine. Si è assistito al consolidarsi di quel fenomeno definito dei politologi «sovraccarico di governo», per cui all'autorità politica sono stati demandati compiti di direzione e gestione dell'economia; la stessa pubblica amministrazione che aveva in prevalenza una funzione di controllo preventivo o successivo si trova ora nella condizione di determinare anche il contenuto di molte decisioni. Un 'altra conseguenza, e non certo l'ultima per importanza, è che la complessa articolazione dei processi decisionali fa si che le scelte siano il prodotto di un'altrettanto complessa mediazione di interessi e competenze. A conclusione di questo processo le decisioni hanno raggiunto un tale grado di «rigidità» che il soggetto istituzionale che ne è formalmente responsabile non può far altro che "registrarle con atto poco più che notarile senza poter incidere in una qualche forma sui loro contenuti. I n questa ottica mi pare si collochi la ricerca di Bere1ta, Magni e Portolan che ha come oggetto principale i processi di formazione delle decisioni in mat.:ria ui politica crnnomica. e che assume come punto di osservazione privilegiato quello del comitato per la programmazione economica. Agli autori pare assai ridotto ed in molti casi addirittura inesistente, anche nei tentativi più raffinati di verificare con lo studio delle tendenze di politica economica in sistemi concreti schemi teorici predeterminati, «il rilievo attribuito alla struttura del policy-maker come elemento costitutivo del processo di formazione delle decisioni, e quindi come fattore che contribuisce a determinare il grado di efficacia di queste ultime. Quando si riconosce l'esistenza del problema, si conviene di solito di eluderlo avanzando l'ipotesi semplificatrice secondo cui l'autore di decisioni di politica economica è un individuo oppure un soggetto i cui schemi di comportamento sono riconducibili a quelli individuali. A tale semplificazione se ne sovrappone spesso, sovente in modo implicito, un'altra che consiste nel non tenere conto dell'esistenza di 'norme' che regolano i rapporti di un soggetto con gli altri nell'ambito del processo di formazione delle decisioni» (p. 5). Se l'obiezione degli autori sulla parziale produttività di un'indagine limitata ai risultati del processo di decisione è esplicitamente rivolta alle ricerche di stampo economico, questo aspetto non può essere so11ovalutato neppure da parte di chi pratica il terreno dell'analisi istituzionale. Infatti di regola quest'ultimo è ben consapevole che la configurazione organizzativa e le stesse forme di attività dei soggetti ai quali sono demandate le decisioni sono disciplinati da norme che strutturano il loro processo di formazione. Ma non molto di frequente si è prestata sufficiente attenzione, prendendo ad oggetto una decisione concreta, alle effettive modalità della sua formazione, ai reali ambiti di competenza dei soggetti che vi sono intervenuti, al possibile scarto tra obiettivo prefissato e contenuto concreto. Dicevamo appunto che il Cipe rappresenta senz'altro un osservatorio privilegiato. E almeno per un duplice ordine di motivi. La sua costituzione è il «risultato di un'operazione di ingegneria istituzionale»: l'obiettivo era quello di unificare in questo organismo tutte le competenze disperse in una miriade di comitati in materia di programmazione economica. D'altra parte si è venuto cosi a trovare «al centro di una complessa costellazione di rapporti di competenza» (p. 7), in quanto inserito al vertice di quasi tutti i procedimenti di formazione delle decisioni di politica economica. Attraverso un'analisi delk tklihere PRUTETCHTEARTH e quindi del tipo di interventi che in esse hanno trovato espressione, gli autori cercano di ricostruire «un quadro di riferimento del potenziale di intervento della stru11ura decisionale». L'approccio ado11ato consente di valutare l'effe11iva capacità di una struttura di funzionare in modo adeguato rispe110all'obie11ivo assegnatole e di formulare eventuali proposte per un riadeguamento degli strumenti di politica economica agli obiettivi prefissati. Il tentativo di verificare la funzionalità di una stru11ura, quanto ad ambito e strumenti di intervento, in rapporto all'obie1tivo assegnatole acquista particolare interesse in un momento di crisi palese e riconosciuta dei modelli e degli strumenti di governo dell'economia finora adottati. In quali forme è allora oggi possibile un «governo» dell'economia e con quali strumenti? La ricerca non risponde e non pretende di rispondere a questa domanda per cosi dire «cosmica». Forse ci aiuta però a sottrarci alla tentazione che sia comunque necessario ricominciare sempre da capo, anche se non nel senso di innovare «razionalmente», ma di procedere attraverso interventi successivi sulle istituzioni, per cui il nuovo ed il vecchio non riescono mai ad elidersi, ma continuano a convivere insieme nella stessa struttura. È questa la storia del Cipe; e qui il riferimento al Cipe allude significativamente all'esperienza della(e) programmazione(i). Molto si è detto su questi terni. Le ambiguità e le incertezze presenti già nella stessa costituzione del Cipe, la «spartizione» delle competenze, che pure avrebbero dovuto spettare al comitato, tra questo e i vari ministeri competenti per singoli settori di intervento, le resistenze opposte da molti organi della amministrazione pubblica di fronte a questa sorta di «espropriazione» a favore del nuovo organismo, tutto ciò si è sommato alla effettiva mancanza di un programma come fondamento essenziale di ogni attività del comitato. Le procedure della programmazione prevedevano l'intervento determinante del Cipe nella formazione di ogni decisione di politica economica; ma il comitato per la programmazione divenne appunto la sede in cui venivano sanzionate decisioni e scelte prese altrove. La parvenza di un momento di sintesi si sommò alla persistente frammentazione dei processi decisionali. Q uali le cause di questa impossibilità del Cipc di porsi come «unica» struttura effettivamente competente per ogni decisiom: in materia di progra111111azione quindi di politica economica? Come è ben evidenziato dalla ricerca, la vastissima legislazione che ne regola le competenze non pone mai il Cipc come soggetto che può di per sé innescare un processo decisionale. Esso è invece sempre e soltanto un soggetto «passivo» che di volta in volta viene attivato da altri organismi; formula le sue decisioni sulla base di istrultorie non elaborate al suo interno, ma che nella maggior parte dei casi vengono fornite dai ministeri competenti. Istruttorie che il comitato non ha normalmente possibilità alcuna di verificare né tanto meno di modificare. Constatazione che non deve comunque destare alcuna meraviglia. Nessun organo cli governo ha, nel • nostro paese, possibilità di acquisire come indispensabile strumento di lavoro quell'insieme di informazioni, anche di caraltere tecnico, necessarie per una adeguata formazione delle decisioni. Il Cipe non si è distaccato da questa «tradizione». La sua posizione istituzionale per cosi dire di «ombrello» rispetto a tutti i procedimenti decisionali che lo coinvolgono, viene accentuata dalla assenza di una autonoma acquisizione ed elaborazione di informazioni provenienti in particolare dagli altri organismi della pubblica amministrazione. Neppure le richieste esplicite indirizzate anche ai vari ministeri hanno avuto un qualche esito. Significativa mi pare la constatazione definita di «ordine semantico» che nella maggior parte delle delibere «è osservabile una rilevante uniformità del linguaggio utilizzato per la stesura delle medesime», in quanto «in molti casi queste riproducono la lettera delle disposizioni normative che determinano l'intervento cielCipc e ne regolano le competenze nel caso specifico» (p. 16I). Ad ulteriore riprova si può osservare come, ad esempio nel caso della concessione del «parere di conformità» per l'autorizzazione ai nuovi impianti industriali, «in 1icssuna direttiva Cipe pubblicata risultino precisati i parametri sulla base dei quali il Cipe stesso si propone di determinare sia lo stato di congestione della zona di localizzazione sia la relativa disponibilità di manodopera» (i due criteri tecnici cioè sulla base dei quali il comitato su istru1toria del ministero del bilancio concede o rifiuta il parere di conformità) (p. 126). Anche se può sembrare «problematico» - coine sostengono gli autori - «desumere dalla constatazione dell'avvenuto adempimento formale degli obblighi, e dal rispetto elci limiti di competenza, l'esistenza di un effettivo esercizio dei poteri che la legge stessa affida al Cipe per indirizzare, coordinare e controllare soggetti cd atti della politica economica» (p. 16I), non sono pochi gli indizi forniti in questa direzione. Alla istituzione ciel Cipc era sottesa la tendenza a farne un organismo di coordinamento della politica economica, una istanza cioè cli «razionalizzazione» della sua gestione. Tendenza che ha avuto anche in un primo momento effetti e risultati contrastanti e spesso formali, e su cui negli ultimi anni ha prevalso cli nuovo una forte spinta alla frantumazione delle competenze. Ma non è solo questo il punto critico nell'esistenza e nell'attività del Cipc. Anche nell'ambito delle funzioni che gli venivano espressamente attribuite, il comitato non è stato in grado di realizzare il suo potenziale di razionalizzazione e di controllo. Quasi del tutto inesistenti sono le direttive per il coordinamento delle a11ività della pubblica amministrazione e degli enti pubblici; non c'è traccia di un effettivo esercizio delle funzioni che pure gli competevano cli controllo sull'attività e sullo stato di attuazione dei programmi di enti quali l'Encl o la Cassa per il mezzogiorno, così come di quella attività di verifica di strumenti e contenuti di intervento ritenuta dal Cipe stesso necessaria per un adeguamento dei suoi orientamenti. Nell'ambito della politica industriale il Cipe si presenta come un coerente - O() °'
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