Alfabeta - anno III - n. 20 - gennaio 1981

anni di crisi molte differenze di produzione culturale sono cadute e un libro che prima magari pubblicava soltanto Einaudi, Feltrinelli, Laterza o Savelli, adesso lo pubblica tranquillamente Mondadori, Rizzoli, Adelphi o Guanda? Non so fino a che punto le cose si siano modificate nel senso di un ampliamento dell'orizzonte culturale in concomitanza con l'abbassamento dell'orizzonte ideologico, che è il tratto distintivo del pensiero degli anni settanta. Magari, in questa circostanza può essere utile riferirsi a ciò che un filosofo neorazionalista come Salvatore Veca chiama «la grammatica del programma artificiale» quando - ne Le mosse della ragione (li Saggiatore, Milano 1980) - dice che «il conflitto tra esclusi e inclusi (e quindi la relazione amico/nemico) passa ad attivare altri centri di riferimento della società» una volta che si sia neutralizzato un centro di riferimento precedente. «Consentire ciò- dice Veca - implica ovviamente che si neutralizzino gli effetti globalmente distruttivi, nell'interesse di tu/li i patners». È importante considerare la catena dei rapporti sociali di produzione e mercato culturale alla luce di continui spostamenti o sostituzioni dei centri d'interesse di natura politica ed economica. E allora: in termini di attività poetica (produzione, consumo) dove si è spostata la conflittualità che prima si accentrava nella messa in crisi dei rapporti tra editoria ufficiale e alternativa? E per quel che concerne i poeti (non la poesia, quantunque l'atteggiamento dei poeti verso la poesia costituisce già una dichiarazione di poetica), che ne è della «mancanza di nemici»? «Mi sembra che siamo rimasti un po' tutti senza nemici, - diceva qualche anno fa Nanni Cagnone - poiché le posizioni ormai si confondono, i discorsi si sovrappongono e aleggia su tutti una specie di superiore indulgenQ ua/ è la prima bella poesia italiana? Il punto di partenza di una storia /eueraria vale una etiche/la di presentazione. Non stupisce perciò che il laicissimo De Sancris vi ponesse a capostipite non il Cantico di San Francesco, ma il Contrasto di Cielo d'AI- . camo. Ecco un testo antichissimo, popolare, sanamente erotico: lui la corteggia, lei si schermisce, ma cederà, se lui si impegna ... Peccato che la costruzione poggiasse sulla sabbia: quel testo non è infatti così vetusto, e popolare ancor meno. L'autore (dimostrò il Monteverdi) è uno scalt;o e colto manipolatore di linguaggi: come il dialogo alterna spiritualità cortese e realismo carnale, così le parole variano dallo sfoggio prezioso («Rosa fresca au/enrissima») alla concrerezza dialettale («Tragemi d'esre focora»). Con pace del De Sanctis, nessun fiero amiclerica- /e negherebbe oggi che il vero cominciamento della nostra poesia sia merito del poverello d'Assisi. Di lui sino a ieri si conoscevano solo le Laudi delle creature o Cantico di frate sole: «Laudalo sii, mi Signore». Eppure resrimonianze anriche lo volevano aurore d'altre cose volgari, poi perdure «per ingiuria del tempo o piutrosroper incuria dei frari». Ed ecco la bomba, rrale più esplosive della filologia recente. Il padre Giovanni Boccali scova in un monasrero di clarissepresso Verona una poesia (o prosa ritmica) del Samo. Sul penultimo e ulrimo numero di Studi e problemi di critica te-: stualeAldo Menichetti e FrancaAgeno la resraurano e commemano da par loro: sulla paternità non resranodubbi. Scrosrara la parina veneta ( « vendarì» per «vendarete», «faiga»per «fariga»}, emendate alcune svisre del copisra, la prosa ritmica del breve componimenro di edificazione per le suore (quindici versetti o stichi) si aggiusta con linda za, una tenerezza che non risparmia nemmeno gli scapestrati». Forse perché il processo di spostamento o di sostituzione ha seguito il medesimo destino implosivo della poesia, i poeti oggi hanno a che fare con nemici interni più che esterni alla poesia e devono cercali là dove la seduzione del potere della parola vuole fondare un ordine di persuasione. I ntanto, questa collana è ricca di ambiguità: le referenze critico-poetiche dei due curatori, assai differenti per temi e per stili, non possono che influenzare le scelte. Certo, qualunque scelta ne sarebbe influenzata; ma qui la primissima impressione è di due collane in una, di due diverse simpatie e complicità. Poco male, il fatto non è riduttivo. Ma quello che più intriga è se il dibattito che la collana vuole aprire, se l'alternativa di cui vuol essere fautrice, segua dei criteri di omogeneità o di differenziazione. Insomma, che cosa privilegia Roversi? Che cosa Majorino? «Poesia e realtà» vuol porsi in funzione totalmente esteriorizzata ad almeno tre livelli: quello dell'alternanza dei testi (inediti o mai raccolti in volume; appositamente scritti; tolti da un silenzio più o meno interessato), quello della scelta dei poeti (sconosciuti o noti, appartenenti a generazioni diverse, personalità singole o interi gruppi) e infine quello delle specificazioni poetiche (anticorporative, antideologiche). A ciò si aggiunga quello che è, forse, l'elemento più nuovo ma anche più rischioso ai fini dell'immagine dell'autore e della sua opera: una presentazione personale (o delegata, e dunque privilegiata), e un dibattito critico finale a una o più voci. È questo l'intento programmatico, in campo editoriale, di ciò che Majorino penso ritenga ancora - come riteneva qualche anno fa a uno dei convegni sulla poesia organizzati a Milano al Club Turati - un certo grado di rovesciamento della situazione attuale per quel che riguarda il pubblico sempre più estensibile, della poesia: ossia la destinazione anche a un pubblico incomperente - in termini tradizionali - di poesia. Per Majorino i motivi del superamento di pratiche editoriali che poi si riproducono anche sul versante della critica, circoscritte e stridenti con l'allargamento culturale di vasti settori popolari, soprattutto giovanili, acuiscono il timore di una sostanziale immodificazione dei moduli editoriali accanto a quelli espressivi. Penso proprio che adesso Majorino non voglia impedirsi, magari a titolo di preoccupazione intellettuale, la possibilità di andare ben oltre la constatazione dell'amara seppur riscontrabile dipendenza della critica al sistema delle promozioni pubblicitarie interessate o delle alleanze corporative, per raggiungere il cuore dei rapporti tra complessità esreriore e complessirà imeriore, l'insieme dei rapporti tra tesro e conresto, attraverso «l'appropriazione di sensi nuovi generati dalla diversa appartenenza sociale» o «l'insofferenza per le istruzioni dirette e indirette della corporazione letteraria». Né Roversi, il quale finora ha saputo far coagulare in poesia gli scarti umorali e le eccedenze di senso provenienti soprattutto da quell'area emiliana ad alto potenziale creativo in cui vive, penso voglia inibirsi un riscontro continuo della marginalirà (poetica) sul corpo stesso dei testi ivi prodotti: il primo dei suoi prescelti, Gianni D'Elia, ne è un chiaro esempio. Eppure, questa operazione editoriale che dovrebbe costituire una bella scommessa sulla poesia tout court, non sarà più che altro una scommessa sul fantino anziché sul cavallo (sul poeta anziché sulla poesia)? Alla prova dei fatti, benché non abbia registrato imprevisti o subito incidenti, la «corsa» non ha offerto elementi di particolare suspense: Lumelli, Guglielmi e Di Ruscio, pur con lavori che importano e interessano, appaiono come delle conferme o delle riscoperte, mentre D'Elia - finora l'unico esordiente - è sembrato soltanto in possesso di buone possibilità di riconoscimento, e s'intende: a livello di poesia, cioè di risultati testuali, cioè di incidenze o interferenze rispetto al movimento della poesia di questi nostri anni. E ciò, in fin dei conti, benché ci si possa domandare perché quegli elementi di suspense, o se si vuole di provocazione, debbano rendere avvincente un'impresa. Forse che non basta un lavoro metodico, puntuale, impostato sull'attenzione verso autori vecchi e nuovi, o sulla considerazione di certe emergenze poetiche, con quel tanto di partecipazione intellettuale e magari emotiva che infine - si sa - è ciò che fa davvero critica, con tutti gli annessi di accettazione verso autori vecchi e nuovi, o La risposta fin troppo ovvia è che non basta. Nel dominio dei giochi linguistici, l'ultima parola non spetta a chi sovverte le regole, ma a chi instaura una prassi linguistica, cioè un rito che libera le parole dal senso mentre ne postula un consenso. È troppo presto per dire se «Realtà e poesia» sarà in grado di instaurare una prassi. Bisognerà vedere come reagirà il pubblico dei nuovi lettori e fino a che punto questo sarà disposto ad accettare il senso di una presunta incompetenza di lettura. Penso che ~uesta breve disamina possa servire come pretesto per abbordare i libri pubblicati. A scorrerli, sembra che Majorino e Roversi vogliano conseguire un risultato di attualità ben diverso da quello corrente: ·che importa non è il nuovo ma il valido, o meglio, ciò che dai due curatori viene ritenuto tale, cioè in grado di porsi come «testuale» in una situazione di grande fluidità poetica come quella presente. Ma il sospetto di un certo grado di Ammansirseuoree lupi Pietro Gibellini simmetria in due lasse monorime. Vi circola l'aria del Cantico. ma l'esortazione alle «poverelle» si conchiude nel dolce segno femminile della Madonna, supremo ausilio a superare infermità e rribolazioni: «Quelle ke sunt adgravare de infirmitare/ et /'altre che per loro sò adfarigate,I rurequante lo sosrengarein pace; I ka multo vendarere kara quesra fa riga I ka cascuna sarà regina/en celo coronata cum la Vergene Maria». La presenza di Francesco nel gusro letterario si fece inrensa fra romanticismo e decadenfismo. Persino il giacobino Carducci, nelle Rime nuove. non si peritò di riprendere il Cantico. citandolo quasi alla lettera, con la sua precisione di positivisru: «Cantando a Dio: Laudaro sia, Signore. I per nosrra corpora/ sorella morre». Più vaga ed esresa è l'evocazione di D'Annunzio, che in saio amava ricevere le sue ospiti, epoverello gli piaceva di chiamarsi (srimmate e'ranoforse le sue mani buche). Egli fu allievo di quel Monaci che aveva incluso nella sua crestomazia di amichi resrivolgari il manoscritto assisiaredel Cantico, fornendone la rubrica: « Incipint Laudes creaturarum quas fecit bearus Franciscusad laudem et honorem Dei cum esser infirmus ad Sanctum Damianum». Beato e non infermo, alla Capponcina di Settimiano e non a San Damiano, a onore della divina Eleonora e non di Dio, D'Annunzio volle parafrasare quell'incipit donando alla Duse il primo manoscritto delle sue Laudi profa- ' ne: « lncipint Laudes creaturarum quas fecit Gabriel Nuncius ad /audem et honorem divinae Heleonorae cum essei beatus ad Septimianum». Pochi sanno però che la sua celebre Sera fiesolana («Laudata sii...») fu scritta mettendo in versi gli appunti di un raccuino vergato... ad Assisi. Ambienrando poi il poema di Alcyone in terra roscana, il poera traslocò quelle note da Assisi a Fiesole: colli, ulivi, ronachee convemi non mancavano cerro anche n. Ma rrasmigrando e rifacendo il testo di Francesco, D'Annunzio cambiava ben altro che un luogo: le lodi mistiche per le creature divenravano un inno pagano alla natura. Il larente panteismo francescano si sfrenava in oltranza panica. Pare quasi che con prodigiose anrenne D'Annunzio presemisse l'audace iporesi del Foscolo Benedetto: che lodato per le crearure significasse, come col par francese, lodato dalle crearure, faue vive e animisticamente soggetti della lode. Il Bargellini, accogliendola, rammenta le parole allo Specchio: «Al mattino, quando sorge il sole, ogni creatura dovrebbe lodare Dio che la creò per nostra utilità». Se oggi c'è chi, come il Branca, ancora apprezza quell'ipotesi, i più son tornati all'interpretazione rradizonale, e imendono quel per come complemento di causa. Eppure piace pensare che nel per anche Giotto abbia percepiro un complememo d'agente o (come altri poi proposero), un segnale di tramite, simile al per liturgico o al dià greco. Nel suo affresco la diaspora delle cose e degli animali domina il campo, e leva a Dio una lode di cui il Santo non è che il docile demiurgo, lo schivo maestro di coro. E poi, nel fiorerto XVI, il Santo non esorta gli uccelli a lodare il Creatore? Nel Xl/ non parla con le «sirocchie» tortore? Non conversa, nel XXI, col lupo di Gubbio? Stesi tardi (1370-1390 circa) sulla falsariga degli Actus beati Francisci composri in /arino tra il morenre Due e il nascente Trecento, gli anonimi Fioretti di San Francesco si possono ora leggere in un volume molro ben curaro da Luigina Morini con una lucidissima inrroduzione di Cesare Segre (Rizzo/i, pp. 3/4, L. 3.500). Deliziosa /euura. Non esclusiva dei Fioretti, ma perfetramenre adeguala al loro spiriro, l'alrernanza dei 1empi verbali realizza il miracolo di attualizzare il passaro, di cambiare l'accadimento pumuale in un hic et nunc durativo, e1ernameme presente:« (Francesco J si volle uscirefuori a quesro lupo ... prende i/ cammino ... e digli così ... Allora santo Francesco gli parlò così... Allora samo Francesco disse ... E samo Francesco dice ...>.Non aveva scritto Agosrino che il 1empo umano svapora in passaro e fururo, memoria e attesa, memre il rempo di Dio è eremo presente? Con perfetta e inconsapevole crasi narrativa, i Fioretti non si limitano a raccontare il «santissimo miracolo che fece samo Francesco»: auuano nella scriuura il « folle» salro dei tempi che fonde ilprecario accidente e la sostanza perenne. Folle come la santa pazzia del poverello. Agostino ricorda, con Paolo, che l'umana sapienza è follia agli occhi di Dio, lacui scienza perfeua pare all'uomo assurda sroltezza. Non è follia parlare alle besrie? Francesco parla al lupo. Il più scettico positivista non negherà a piori I' attendibilirà del/'evemo. L'etologo potrebbe arricchirne la ricostruzione con tocchi suggesrivi. Un lupo vecchio (muore solo due anni dopo la «conversione», ancorché ben nurrito dagli Eugubini), solitario, sbrancalo, diviene perico/osameme aggressivo. Si rrauaforse di un capobranco spodestato: rispettando il codice del duello lupino, ha porto la gola al vincirore, ricevendone salva la vita. Ma caccialo dai boschi per le ferree leggi terrirorialidei lupi (assaifitti in Umbria, nel '200) ha dovwo lasciar le zone di cacciaspingendosi nei seminati, «ladro e omicida pessimo». Quamo sappiamo oggi sui cànidi - recupero rimane. Badando ai moduli espressivi e soprattutto alle istanze di poetica, con Guglielmi si propone una poesia scopertamente «datata> (né rimasta sotto silenzio: tutte le pani di questo libro erano già state pubblicate). E allora? Quel che viene «modificato> in Guglielmi è la successione naturale del tempo in cui i suoi testi sono stati scritti: le date vogliono avere un valore documentario non progressivo (alcuni testi del '53 e del '54, per esempio, sono inseriti tra raccolte pubblicate) nel '67 e nel '75). Bisognerà dunque leggere Ipsomerrie come un libro nuovo o come un libro unico sempre ripresentabile? Ipsometrie appare come un'opera riciclata nelle sue forme attuali e come cristallizzata nelle vesti di un piccolo classico quasi a dispetto della sua appartenenza alla neoavanguardia. Sebbene al suo interno operino forze di accumulo linguistico che tendono a una concezione sintattica tale da preparare e conseguire (come poi accade: vedi la sezione «Combestiario>) risultati di forte espansione o divaricazione di senso, si ha l'impressione che il destino di queste poesie resti bloccato in una coazione a ripetere l'inanità di senso delle «trasformazioni> o «disavventure strutturali> (come le definisce lo stesso autore) del sistema cui appartengono. Il sottotitolo del libro è Le stasi del sublime: l'implicito scambio ironico tra le stasi e/' esrasi in vista del «sublime> che costituisce l'orizzonte alto della tradizione aulica della poesia italiana, è il carattere meno rassicurante di questi testi, il più satirico, ciò che stabilisce continuamente distanze abissali tra il soggetto e il suo predicato, un vuoto immenso che il linguaggio può attraversare soltanto «al limite delle sue prestazioni>. Con valore documentario, è di grande interesse anche la nota di Pasolini, qui ripresa, sulla versificazione propria della poesia della neovansui lupi americani, sui licaoni d'Africa, sui cani che pur si credono ora non discesi dallo sciacallo dorato (Lorenz) ma dal lupo Mainardi - riconduce la loro ferocia e la loro domestici1à a un medesimo impulso: un forte senso di socie1àgerarchizzata. Frustralo, il senrimento produce aggressivÌlà; realizza- /O, idem i fica nel padrone il capobranco cui si deve obbedienza feudale. L'audace incoscienza di Francesco lo ha rivelato al lupo come leader del nuovo branco uinano; in un auimo e in un esemplare si è miraco/osameme consumata una domesticazione che per allri cànidi si è operaia nei secoli; e per i lupi forse mai. (Cacciaroresolitario, il gatto intrauiene con l'uomo un rapporroche i moralisti animali dicono parassitario, ma che gli etologi meglio definiscono simbiosi mwalistica). Segre rileva giustamente I' auÌ/udine antropomorfa di Francesco:« ... 1use' degno delle forche come ladro e omicida pessimo». (E la Morini ci ragguaglia, fomi allamano, su lupi impiccati e falconi decapirati). Meglio le 1ortore, elogiareanche nei Salmi e nei Bestiari, virtuoso esempio d'amor coniuga/e_ Ma ecco, pensando agli uomini, il paciere Francesco rovescia I' ouica, e il suo cuore parteggia ora per frate lupo: « io tipromeuo eh' io ti farò dare lespese continuameme, mentre che tu viverai, dagli uomini di quesra rerra; imperò che iQ so beneche per la fame tu hai fatto ogni male>. Una scintilla della rivoluzionaria visione del Samo sopravvive nel breviario edificame dei Fioretti. Così, dietro gli ingenui e clamorosi miracoli del Santo, più sottili e miracolosi risvolti fermentano questa scrirtura naive: un imprevisro cambio di tempi verbali, una anacronistica e totale fraternità col creato salvano i fragili Fioretti dal setaccio crudele dell'obno.

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