G. Deleuze, F. Guattari Mille Plateaux Parigi, Les Editions de Minuit, 1980 M il/e Plateaux non è un libro, ma un accadimento. A partite da questo accadimento sarà possibile, ancora, pensare. Di pensare abbiamo cessato, da un pezw, da quando sono sbucati, come topi famelici, dai carbonili del Titanic del socialismo della speranza (il Vietnam, la Cina, la Cambogia e, per quelli che ci hanno creduto, l'unione delle sinistre), i curatori fallimentari della crisi, in Italia, per stendere l'inventario della fine delle ideologie e delle vecchie razionalità, e in Francia gli abatini del Potere onnivoro e del Gulag incombente, con le loro omelie sul bene comune e sui diritti dell'uomo: al riparo dietro le lunghe ombre viennesi, da una parte, e sotto lo spauracchio di Soljenitsyn dall'altra. Inventari ed omelie fatalmente clericali, con le loro negatività commosse, coi loro savonarolismi accigliati, per raccontarci la filastrocca più logora, da oltre un secolo: nient'altro che la vecchia critica liberale dello Stato, rintonacata di un nuovo aristocraticismo di sinistra. L'élite, l'idea fissa di Mosca, Pareto, Maurras, Berth e Benda, si è clericalizzata, ed è passata a sinistra. Teoria del trasloco: si cambia, con armi e bagagli, di casa, per poter ridire le stesse cose di prima e di sempre. Ci si son messi persino gli storici e uno di loro ha scoperto nientemeno, datandolo alla fine del secolo scorso, quello che i giuristi del XIII secolo, dopo l'invenzione ecclesiastica della procedura inquisitoria contro gli eretici, chiamavano il metodo congetturale (indizi, inchiesta, confessione, tortura): il pezzo più vetusto della razionalità occidentale. Poco male, se queste pastorali non fossero che commemorazioni funebri di quello che ha cessato di funzionare, e che comunque non serve più: una certa idea imperiale della scienza, un certo uso sovrano della verità, una certa produzione politica dei saperi. Ma la critica del vecchio serve, quasi sempre, ad occultare la produzione del nuovo, e le crepe dei centri storici ci interessano meno delle nuove città delle periferie. E il nuovo non è mai stato cosi inventivo, insinuante, insidioso. In realtà, ciò che sta succedendo, ciò di cui siamo stoltamente contemporanei, è la fine della vecchia cultura politica (con le sue arti di governo) e l'inizio di quella che sarà, d'ora in poi, puramente e semplicemente, una politica culturale, con una nuova governatività. Una cultura politica: era un Latendaazzurra rapporto al mondo, al tempo e alla storia, fondato su antagonismi, lotte, appartenenze esclusive in un reale bellicoso, radicale e senza compromessi, con la produzione di pensieri logistici, solitari e passionali, con le loro strategie, poste in gioco, affrontamenti e partizioni esclusive nel campo sociale. A tutto questo sta succedendo, irresistibilmente, la politica culturale: le vecchie opposizioni si sono sfumate, i pensieri sono diventati discorsi, le convinzioni opinioni, i valori d'uso intellettuali valori di scambio socialmondani, in circuiti di pura circolazione in cui ad amici e nemici sono state sostituite alleanze aggregative e filiazioni tutelari: puro e semplice totemismo. on più il fragore delle battaglie e l'irriducibilità delle lotte, ma l'ovattata sonnolenza dei dibattiti, la stupidità delle discussioni, le fraterne acrimonie dei congressi, e tutto il campionario delle inerti convivialità massmediali. La cultura era servita, un tempo, a distinguere gli europei dai barbari. Poi con lo storicismo tedesco, la scuola storica del diritto, l'antropologia e la Gemeinschaft, da Herder a Savigny e Tylor a Spengler, è stata utilizzata, più o meno esplicitamente, come resistenza della comunità contro lo Stato. come difesa dell'organicismo e dello specifico sociale contro il saintsimonismo del Welfare State, dello Stato piano, del dirigismo e dell'ingegneristica sociale. Andato a mare tutto questo. con il '68, ecco riemergere dalle ceneri la vecchia fenice liberale, rianimata dalle scuole libertariane americane e tinteggiata di neosocialdemocrazia. con un nuovo discorso politico: la riesumazione delle patrimonialità storiche, la promozione di nuove intimità protette e di nicchie familiaristichb (tutti sul divano dell'analista), il contentino delle responsabilità e delle decentralizzazioni (nuovo girondinismo rocardiano ), mentre si consolida e si rafforza, sopra le teste, lo Stato mondiale e la sua nuova governatività, quella teorizzata da Mac Namara e dai generali sudamericani, la sicurezza nazionale, con l'identificazione del pericolo politico, all'interno, e l'imposizione autoritaria della pace col ricatto del conflitto nucleare esterno. Si vis bellum, para pacem. Arrivano Reagan e il vecchio Hayek, che aveva perso, negli anni '30, una battaglia con Keynes, ma che sta vincendo la guerra: ritorno alla trasparenza del mercato, in una società organica, quella dell'evoluzionismo ottocentesco, con uno Stato regolatore e difensore delle norme. Di qui, con la sicurezza e la responsabilità, il regno della cultura: \X AMERICAN PRIME Alessandro Fontana ad essa, d'ora in poi, verranno affidate la produzione dei consensi, la neutralizzazione dei conflitti, la promozione dei patrimoni, la saturazione, per eccesso, del reale (la nuova censura), le coesistenze pacifiche, o le guerre fredde, fra i discorsi, la socializzazione coatta di tutti i pensieri clandestini e la criminalizzazione di quelli ritenuti pericolosi e inaccettabili, con questo effetto capitale: l'esterno (lo Stato mondiale) sarà talmente esteriorizzato da diventare invisibile, l'interno (la società responsabile) sarà talmente interiorizzata da diventare opaca. Hegel aveva ammirevolmente annunciato tutto questo nel capitolo della Fenomenologia sulla cultura, dedicato al Neveau de Rameau: e il nipote sarà, d'ora in poi, nella cultura, il destino degli intellettuali. Ora, su questa confusione delle lingue, su questa circolazione svuotata dei discorsi, su questo ventre molle della cultura, ecco prodursi un accadimento. una rottura di stahilità. uno renderanno fertile la pianura. In questo senso, se la cultura è sempre clericale e conservativa, il pensiero è sempre ateo e rivoluzionario. Fine della dilaniata coscienza della critica, che non produce che aggregazioni conviviali e urbane. Fine del ricatto di quelli che, coi loro anatemi, volevano farci accettare lo Stato di diritto e la democrazia come il peggior regime, ad eccezione di tutti gli altri. Finito altresì (mea culpa) il confortevole artigianato archivistico dei fabbricanti di scatole per attrezzi (noi, nelle biblioteche, produciamo analisi giuste, e voi le utilizzerete come meglio crederete; noi non siamo intellettuali universali). Finita altresì la compiacenza stracciona dei ghetti, con le loro canonizzazioni (I'Altro), le loro autonomie, controculture, folklori, e postmodernità, curiosamente spalleggiate da quel nuovo sapere bon enfant che alimenta oggi la cultura: non più le vecchie scienze sociali, logore a forza di positività, non le più recenti antropologie (ivi compresa quella psicanali- Ja Ol{NAL ~~:?,:p;hs;~-~;er::~: !i :~:1:1~~~~:;:;: nuova stona e, meno modestamente, m Italia, microstoria. Segno dei tempi. Qui il reale è sem- 'fì>~TtfJ::. pre già dato: è qualcosa c_hesignifica, PriùffimDN - ~ l~~::~if ~::_~r€t~~Lii~n~:~~~:~ né rappresenta, disfa tutte le assiomatiche del Soggetto e degli Stati ed instaura, per coniugazione di flussi, con- or All catenazioni, vettori, velocità, precipi- r tazioni e trasformazioni, il proprio piano di consistenza, il corpo senza t:r ll''S organi del reale: molecolarità diffuse, O insiemijlous di singolarità, molteplicità non arborescenti ma rizomatiche: tutta una micropolitica del campo so- .•:'f.~-" ciale. Se il pensiero è macchinico, macchina da guerra nomade (mentre la cultura è sempre statale) allora Mille Plateaux non è un libro. Un libro è sempre uno stock dispotico di segni, informazioni, conoscenze; è una tesi con tutte le tecniche d'induzione della persuasione; è un discorso di verità con tutte le sue legalità e le sue pedagogie. Qui, niente di tutto questo. Mille Plateaux è, innanzitutto, un viaggio: viaggio intensivo, viaggio sul posto, viaggio nello spazio liscio del deserto. Non il racconto del viaggio, 'né la sua guida, né un reticolo di itinerari ed escursioni, ma il viaggio stesso, il viaggio come divenire: divenir donna, divenir fanciullo, divenire impercettibile. Il pensare come viaggio e il viaggio come divenire. Ma non solo. sfascio ccntrak (,·Jjimtln·111<·1C11<'ll/ral) come diceva Artaud, l'irruzione di un pensiero. Il pensiero è sempre uno sfascio centrale, una catastrofe sui piani di stabilità, una macchina solitaria che ritrova il reale, ne articola connessioni, vt:ttori e concatenazioni, produce nuove positività, crea l'incidente che ristabilisce il silenzio tra le chiacchiere, reinventa, da altrove e dal di fuori, il punto di vista, come diceva Proust, che rende di nuovo il mondo possibile. Nulla sarà più come prima. Siamo dotati di nuovi apparati di senso, di nuove percezioni, di una nuova affettività, di nuovi concetti. Il pensiero rompe le solidificazioni, disfa ilgranito del già visto e del già saputo, istituisce una circolazione produttiva nel già morto, dirama i torrenti di fuoco che Questo libro è anche una cosmogonia: formazione degli strati (l'organismo, il soggetto, il significato), emersione del linguaggio come parola d'ordine di comando e non come comunicazione, sedimentazione delle semiologie e dei loro regimi, creazione di ritmi, ambienti, terre e territori, invenzione della musica del mondo, opera macchinica, meccanosfera, e del ritornello, il divenire come musica (Schumann e il canto degli uccelli), apparizione degli apparecchi di cattura, con l'appropriazione della macchina da guerra da parte dello Stato (lo Stato militare), l'interruzione delle linee, il controllo delle velocità, la creazione degli stock (rendita, profitto d'impresa, imposte), la moltiplicazione delle assiomatiche capitalistiche e il passaggio, nel lavoro, dall'asservimento macchinico all'assoggettamento sociale; articolazione infine delle grandi formazioni (non in una linea evolutiva e storica): società primitive, coi loro meccanismi di congiurazione e anticipazione dello Stato, società a Stato, coi loro apparecchi di cattura, società urbane, coi loro strumenti di polarizzazione, società nomadi con le loro macchine da guerra. Con sempre, sullo sfondo, l'affrontamento tra gli Stati isomorfi ed eterogenei, coi loro modelli di realizzazione nello spazio striato delle linee di cattura e di ricomposizione, e i nomadi guerrieri, con le loro macchine da guerra, le loro metallurgie, le loro traiettorie intensive sulla superficie non metrica, direzionale ed acentrata dello spazio liscio. Mille Plateaux è, ancora, una cartografia, un diagramma: non tanto la rappresentazione del mondo, ma il mondo stesso, nell'immanenza dei suoi piani di consistenza, delle sue polivocità rizomatiche, con tutte le loro congiunzioni, circuiti, e con tutti i loro strati, soglie, passaggi e distribuzioni d'intensità, terre e territori «misurati alla stregua dell'agrimensore». Ma il pensiero, qui, non è solo viaggio, cosmogonia, cartografia; esso è, soprattutto, sperimentazione. Come ritrovare le molteplicità rizomatiche dietro le genealogie, generative o trasformazionali, dell'Albero; come liberare la muta contagiosa ed epidemica dei lupi, mute bolsceviche, folle, popolazioni dieJro l'identificazione edipica del significante unitario ed univoco; come rifare una pragmatica dietro le semiologie; come ritrovare il piano d'immanenza del desiderio destratificando il corpo dai suoi organi; come uscire dal buco nero e dal muro bianco della visagéité, surcodificazione identitaria e personologica della materia di contenuto e di espressione; come congiungere il piano di vita. di scrittura e di
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