Alfabeta - anno III - n. 20 - gennaio 1981

Mensile· di inforn:iazione culturale ·Gennaio 1981 Numero 20 - Anno 3 Lire 2.000 Spedizione iri abbonamento postale gruppo IIl/70 Printed in Italy CiLENGRANT ilpuro\fflisky dipuro malto d'(rl.O. M. Corti: Silenzio stampa* ·G. Tomassucci: Letteratura clandestina polacca* A.· Abruzzese: Censura* G. Agamben: Pascoli, esperienza della lettera* Domande a N. Chomsky, a cura di L. Vitacolonna * Cfr. * Testo: La macchina di guerra nomade (da "Mille Plateaux", di GJ Deleuze e F. Guattari); Conversazio~ con G. Deleuze, a cura di C. Descamps, D. Efibon, R. ·Maggiori* A. Fontana: La tenda azzurra* C. Monti: Elettriche sinèstesie * A. Maugeti: Poesie e realtà * G. Cacciavillani: Lo spazio del magico* L. Ammannati: 11. governo dell'economia* P. Gibellini: Ammansire suore e lupi* L. Ferrari Bravo: La pena preventiva * Giornale dei Giornali: .11 terremoto da dimenticare * Poesie di E. Bellocci, G. Ficara, C. Fratantonio, M. Pizzi,* Immagini di F. Garghetti * Lettere

Mensile di informazione e cultura in edicola il 15 di ogni mese Leimmagini di qu~!!! ! 'mero City Lights Books è il nome che Lawrence Ferlinghe11i, insieme con pochi amici, prescelse venticinque anni fa per la sua piccola casa editrice di 1es1i sperime111alie di avanguardia. li suo lavoro di poe1a lo aveva reso già 11010: ma il giro della grande produzione editoriale s1aruni1ensenon era cerro mie, nel I 955, da favorire la pubblicazione di opere che - se non ailro per il loro non-conformismo formale - alitavano un cerro odore di sovversione. Per la City Lights Books passarono un po' nari: Burroughs, Kerouac, Gregory Corso, Bob Kaufman, Ginsberg, Gary Snyder, Co/in Wilson, P. 1. Smilh con la sua A Key to the « Ulisses» of James Joyce, lames Laughlin, Pe1ere Lafcadio Orlowsky, lulien Beck; e con le Lor.,o1raduzioni delle opere giovanili Sommario Maria Corti Silenzio stampa pagina 3 'Giovanna Tomassucci Letteratura clandestina polacca (Nie1ze ezywswsé, di K: Brandys; Kompleks polski-Mala apokalipsa, di T. Konwicki; Miazga, di J. Andrzejew- • ski; Happy-end, di T. Nowakowski) pagina 4 Alberto Abruzzese Censura pagina 5 Giorgio Agamben Pascoli, esperienza della lettera (Opere di Giovanni Pascoli, a cura di Maurizio Perugi) pagina 7 Luciano Vitacolonna (a cura di) Domandea NoamChomsky pagina 9 Cfr. pagina 12 Testo Gilles Deleuze e Felix Guattari La macchina di guerra (da Mille Plateaux) pagina 15 d'amore di Marx, di seri/li di Artaud, di Michaux, di Voznesensky e via dicendo. Un ferme1110ideale e lei/erario che - die1ro l'insegna del 1itolo del celebre film di Chaplin - voleva significare un'America diversa, soli1aria, isolata. Ma un'America che qualcosa pure avrebbe conta/O, se molli dei fermenti che animarono la «beai ge11era1io11»e, coinvolsero i giovani di 1a111paarte del mondo, nacquero proprio lì, a San Francisco, in California, dai libri, dalle plaque11es,dalle serate di poesia di cui la City Lights Books fu editrice e promotrice. Queste foro di Fabrizio Garghe11isi rifanno alla manifestazione che scri110ri e i111elle11uaflriancesi hanno voluto dedicare-con una tre giorni di perforChristian Descamps, Didier Eribon, Robert Maggiori (a cura di) Conversazione con Gilles Deleuze pagina 17 Alessandro Fontana La tenda azzurra (Mille Plateaux, di G. Deleuze e F. Guauari) pagina 19 Claudia Monti Elettriche sinestesie (Tutti gli scri11i,di W. Kandinsky; li cavaliere azzurro, di W. Kandinskye F. Mare; Marine/li e ilfu1urismo, a cura di L. De Maria) pagina 20 Angelo Maugeri Poesie e realtà (Trauarello incostame, di A. Lumelli; Non per chi va, di G. D'Elia; Ipsometrie, di G. Guglie/mi; ls1ruzioni per l'uso della repressione, di L. Di Ruscio) pagina 21 Giovanni Cacciavillani Lo spazio del magico (La strega, di 1. Miche/et; Origine e funzione della cultura - Magia e schizofrenia, di G. Roheim; Corpo d'amore, di N. O. Brown) pagina 23 Laura Ammannati Il governo dell'economia (Tendenze della politica economica italiana nelle delibere del Comitato Jnrerministeriale per la Programmazione Economica 1971-1976, di S. Beretta-C. Magni-L. Porrolan; Jncenfivi e sviluppo del mezzogiorno, a cura di F. Marzano; L'economia e la politica ecÒnomica i1aliana, di V. Valli) pagina 25 Giornale dei Giornali li terremoto da dimenticare A cura di Index-Archivio Cri1ico dell'Informazione pagina 30 mances di vario tipo - ai ven1icinque anni della edilrice californiana, e alla mos1ra che in quella occasione venne prese111a1all'Americain Cen1er di Parigi. Unfauo-osesi preferisce, un episodio - della cronaca cuilurale, e cerro neanche tra i più vis1osidell'anno 011a11ta. Ma anche un modo per riaffermare quella circolazione «occide111ale»delle idee che spesso in flalia sembra giungere in ritardo, e ailre11a111s0pesso circondata da diffidenze conserva1rici. Le stesse del res/0, come si è dello, che si ritrovano anche aflrove; e forse, al di là della effervescenza dei circoli ris1re11i della imellighentzia, un po' dapper1u110 e sempre di nuovo. Finestre Pietro Gibellini Ammansire suore e lupi pagina 22 Luciano Ferrari Bravo La pena preventiva pagina 26 Poesie M.S. Ercole Bellucci, Giorgio Ficara, Carmela Fratantonio, Marina Pizzi pagina 11 Lettere Lettera di Nanni Balestrini a Niva Lorenzini; Lettera del Nucleo Vigilantes Falsi Testuali (COVIFAT) di Bologna pagina 29 Le immagini Fabrizio Garghetti alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeto Comitato di direzione Nanni Balestrini, Omar Calabrese. Maria Corti, Gino Di Maggio. Umberto Eco. Francesco Leonetti. Antonio Porta. Pier Aldo Rovatti, Gianni Sanni, Mario Spinella, Paolo Volponi Redazione Vincenzo Bonazza. Maurizio Ferraris. Carlo Formenti. Marisa Giuffra (segretariadi redazione). Bruno Trombetti (grafico) Art director Gianni Sassi Redazione, amministrazione, Intrapresa: Cooperativa di promozione culturale - via Goffredo Sigieri, 6- 20135 Milano, telefoni, (02) 541692, 541254 Coordinatore editoriale Gigi Noia Composizione GDB fotocomposizione via Commenda 41, Milano. Tel. 544.125 Tipografia S.A.G.E. S.p.A .. Via S. Acquisto 20037 Paderno Dugnano (Milano) Distribuzione Messaggerie Periodici Abbonamemo annuo L. 20.000 estero L. 25.000 (posta ordinaria) L. 30.000 (posta aerea) Inviare l'importo a: Intrapresa, Via Goffredo Sigieri, 6 20135 Milano

- D a qualche tempo la riflessione semiotica ci ha abituati a fare i conti con due nozioni fondamentali nei riguardi della vita sociale e culturale di un paese: la sua «testualità», nel senso che ogni manifestazione culturale, metti uno spettacolo rock, un comizio, una processione può intendersi un «testo» culturale da mettere in rapporto con tutti gli altri testi, scritti e orali; e la nozione di «memoria collettiva» come condizione indispensabile alla socialità della cultura, ai suoi processi comunicativi. In altre parole, perché qualcosa resti nella cultura deve essere socialmente ricordato. Se si mettono in rapporto queste due nozioni di testualità della cultura e di memoria collettiva, verrebbe fatto di trarne la conseguenza che i testi più duraturi nella memoria collettiva sono quelli che in qualche modo contano di più: la prima guerra mondiale è entrata nella memoria collettiva più della guerra di Libia; con un esempio banale di ambito letterario, l'Orlando furioso dell'Ariosto è durato e dura meglio dei vari cantari e poemi cavallereschi che l'hanno preceduto. Cioè a prima vista sembrerebbe che la gerarchia o graduatoria memoriale esistente nella collettività sia una gerarchia sensata, rispondente a una graduatoria di valore dei testi culturali esistenti. Invece, le anomalie sono molte: alcune si producono spontaneamente (fatti e cose importanti scomparsi dalla memoria collettiva per cause involontarie, naturali e no). altre anomalie sono provocate. Quest'ultimo fatto può risultare eccitante all'attenzione dello storico e del semiologo: dimenticanza creata artificialmente dall'alto. Vale la pena di ricordare al proposito alcune acute osservazioni di J.M. Lotman e B.A. Uspenskij sul meccanismo sociale della dimenticanza nel volume Tipologia della_,:ullura (Bompiani, 1975. p. 47): «La.~oria della distruzione dei testi, della loro estromissione dalle riserve della memoria collettiva si muove parallela alla storia della creazione di nuovi testi», dove «testo» ha il valore massimamente estensivo di cui sopra. Fatto l'esempio di alcuni movimenti culturali che revocano l'autorità dei testi su cui si orientavano le generazioni precedenti. magari addiriHura distruggendoli, i due autori concludono: «Occorre tener presente che una delle forme più acute di lotta sociale, nella sfera della cultura, è la richiesta della dimenticanza obbligatoria di determinati aspetti dell'esperienza storica». Da questo discorso si può dedurre che, a fianco della dimenticanza come fenomeno naturale e quindi elemento stesso della memoria, esiste un'arma della dimenticanza usata dal potere contro la memoria collettiva degli abitanti di un paese. C'è però un altro distinguo: la dimenticanza collettiva può essere provocata per vie negative (il silenzio) o imposta, resa obbligatoria attraverso regole di comportamento culturale e relative condanne ufficiali. el primo caso acquista importanza particolarmente il livello sociale linguistico in quanto il linguaggio è il più vasto sistema di comunicazione sociale;inquestocasol'arma essenziale della dimenticanza sta nel non parlare più di qualcosa che è avvenuto. el secondo caso il silenzio non è l'arma essenziale, è anzi uno strumento facoltativo: fondamentale è imporre norme comportamentistiche e condanne ufficiali atte a generare la dimenticanza. Traspare subito quanto più rozzo e vistoso sia il secondo metodo, che non merita quindi se non SilenziQ.cJtampa brevi cenni per essere poi messo da parte. Tutti i fascismi e tutte le persecuzioni ideologiche rientrano in questa seconda serie di usi dell'arma della dimenticanza; siffatti movimenti e operazioni pertanto, facendo scomparire i testi in disaccordo con un dato modello sociale, incidono a tal punto sulla memoria collettiva da ossificarla e provocare, mentre imperversano, una fase di regresso socio-culturale: tipico il nazismo, assai meglio organizzato in questo senso che non gli altri fascismi che gli vengono a ruota. Di persecuzioni ideologiche oggi il mondo offre alquanti esempi, a tutti ben noti; ragione per cui ne scegliamo uno medievale, abbastanza didattico agli effetti delle conseguenze nel tempo di tale soffocamento della memoria collettiva con mezzi violenti. el 1277 l'arcivescovo di Parigi Stefano Tempicr, condannando 219 proposizioni di filosofi dell'università di Parigi e di altri intellettuali e obbligando i loro autori all'esilio cui talvolta segui l'eliminazione fisica (è il caso di Sigieri di Brabante), impedl per sette secoli la vera conoscenza di un movimento filosofico e ideologico, l'aristotelismo radicale detto imprecisamente avverroismo. Anche se i condannati, come sempre accade, fecero proseliti, in effetti dapprima si produsse nella cultura alta del tempo un'autointerdizione da parte degli stessi seguaci che per timore cancellavano dai codici e dall'insegnamento orale i nomi dei mac~tri: poi lentamente gli a~pclli di pcm,icm più originali del movimento scomparvero dalla memoria colle11ivaal punto che solo nel nostro secolo, anzi solo in questi anni si stanno recuperando i testi e si sta riscoprendo che geniali pensatori furono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, quest'ultimo negli scrilli filosofici anche poeta come spesso è il grande filosofo. M a torniamo al primo uso dell'arma della dimenticanza,più so11ilee ambiguo. Mentre nella dimenticanza imposta per via violenta l'operazione è grossolanamente contenutistica, nella dimenticanza provocata attraverso l'imposizione del silenzio gli strumenti operativi sono squisitamente formali sicché sembra che sul piano dei contenuti non sia avvenuto nulla, ogni libertà sia stata e sia rispet- - tata. Sembra, naturalmente. Prima di riflettere sul fenomeno se ne danno due esempi: uno daccapo medievale e uno dei giorni nostri, quello da cui in verità ha preso l'ispirazione e le mosse tutto questo discorso. Il medievale è illustrato da un recente acuto saggio di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, «L'interdizione del giullare nel vocabolario clericale del XII e del Xlii secolo», dove si insiste sulla difficoltà di studiare la presenza geografica, la consistenza numerica, la stratificazione sociale, la produzione artistica dei giullari, dei clerici vagantes, degli attori dei teatri di piazza in una società in cui esisteva un'imposizione del silenzio su tutte le attività di• costoro, definiti sbrigativamente ministri Satanae. Trattandosi di operatori di una cultura «diversa» e trasgressiva, bisognava che i rappresentanti della cultura ufficiale li ignorassero, non ne parlassero; orbene, come osservano le due studiose, «i meccanismi dell'esclusione si fanno più articolati e differenziati negli interventi di quegli intellettuali che, con diverse competenze, queste esclusioni sono chiamati a gestire»; chi teorizza l'utilità del silenzio «scritto e orale», chi gestisce la cosa a livello pragmatico. Quando qualcosa di simile succede, qualunque sia l'epoca e il paese in cui succede, ecco che lentamente tutto si ritualizza negli scritti come nei comportamenti, diventa cioè iterativo e pacifico, un fenomeno appunto solo dell'ordine formale; non si fa abbastanza caso a quale parte da protagonista sostenga nel mondo la debolezza degli uomini. E veniamo allo sgradevole oggi. Ci sono stati vari scandali, c'è stato un terremoto. I mass media dalla televisione alla stampa hanno cercato, sia pure in prospellive differenti e magari con diverse finalità, di dare il massimo delle notizie inserendo, cosa importantissima, la documentazione dal basso: il microfono ai terremotati, ai soccorritori, al ci11adinocomune, eccetera. Si è subito notato in queste circostanze che l'informazionedal basso non coincideva con quella offerta dall'alto, cioè ufficiale: ritardi nel soccorso I tempi necessari al soccorso; disorganizzazione degli aiuti / organizzazione; corruzione a vari livelli / non corruzione; assenza dello Stato / presenza dello Stato. A questo punto la non coincidenza delle informazioni, anzi la loro natura antitetica, contrappositiva, invece di essere considerata il più serio oggetto di riflessione, se pure ammettiamolo sgradevole, si è configurata per chi ha il potere come un elemento di disordine, donde il solito secolare ricorso all'arma del silenzio. Preziosi al proposito alcuni commenti, non di semiologi naturalmente, ma di esperti di cose politiche, segnali di una minaccia dell'operazione regressiva, del declino che sempre incombe quando non si sa andare avanti; sulla Repubblica del 7 dicembre Eugenio Scalfari scriveva lapidariamente: «Che vergogna, quando gli uomini di governo invocano il silenzio in nome della solidarietà nazionale». Ma dall'invocazione del silenzio, che già si era sentita risuonare in occasione del serio e prezioso discorso di Pertini al paese, ora si sta passando a proposte di un concreto uso dell'arma del silenzio; leggiamo ancora sulla Repubblica del 14 dicembre. a firma di Giorgio Battistini: «Come risolvere una volta per tutte la questione morale? Semplice: cominciamo a ignorare gli scandali. Meglio: obbligando chi deve raccontarli a una saggia, prudente autocensura. Un confortante 'silenzio stampa' sotto il cui ombrello potrebbe rifugiarsi una parte della classe politica per sfuggire al controllo dell'opinione pubblica». E si affianchi l'allarmata presa di posizione del presidente della Federazione nazionale della stampa Paolo Murialdi e di altri responsabili giornalisti di vari indirizzi, che prospellano il pericolo di un progetto di legge per imbrigliare la libcrtà di stampa. V eniamo al nocciolo del fruito: la tecnica dell'interdizione della parola procede sempre per gradi (nel caso nostro si inizia dal «silenzio provvisorio» richiesto come forma di solidarietà nazionale di fronte a sciagura pubblica, cioè terremoto) e attraverso la gradazione si afferma una forma di ritorno regolare della tecnica del silenzio e la si ritualizza nei comportamentie nei testi. Questo ritorno regolare e conseguente ritualizzazione sociale sono falli assai gravi perché producono nei cittadini abitudine, il che vuol dire addormentano le teste. Inoltre essendo in politica, come in ogni realtà socializzata, inseparabile l'esistenza di una cosa dal suo essere «parlata», discussa, il silenzio equivale a inesistenza, produce inesistenza; proprio come accade, ad esempio, a proposito di fenomeni prodigiosi, miracoli ecc.: se avviene un miracolo e la gente si comporta come se non fosse tale, il cara11cre miracoloso dell'avvenimento è annullato. Donde le tecniche del «meltere a tacere» che puntualmente entrano in azione ad ogni nuovo scandalo. Il ciclo non è esaurito ancora: se la ritualizzazione del silenzio nei comportamenti sociali ha l'effe110 di produrre abitudine, a sua volta l'abitudine o meglio habitus, come lo chiamavano gli aristotelici, fa sì che la gente consideri successivamente il parlare come forma di disordine, quasi fosse il parlare di cose disordinate a creare il disordine. Il che in parte già avviene in Italia; a tulli noi è capitato in questo periodo di ascoltare frasi del genere: «Ma perché interrogare tanti terremotati e far sentire tutte quelle lamentele? Adesso bisogna essere uniti, e basta». Certo dietro questa logica, dietro a tali frasi, diciamo così, ineffabili di tanti italianiani e terreno adattissimo alle operazioni descri11e, una verità inconsciamente individuata c'è. Come dire che anche uomini che sembrano mancare di intelligenza del reale, ogni tanto possono coglierne un aspetto. Si tratta di quell'aspetto o verità che ben consciamente individua chi è al potere: la forte funzione pragmatica del linguaggio nella vita sociale. Proprio in conseguenza di tale rico- _noscimentodella funzione pragmatica del linguaggio, all'imposizione del silenzio si accompagna, sempre da parte di chi ha il potere e non si concede un attimo di pace al fine di trattenerlo, la creazione di un frasario sostitutivo (oggi come nel medioevo), a cui si affida il compito di produrre contenuti sostitutivi della cosa interdetta: a tale frasario sostitutivo appartiene, per esempio, il sintagma «la questione morale»: come se usare il sintagma «la questione morale» equivalesse a creare nella realtà qualco a che de factu sostituisca le malefatte; come se la denominazione già fosse medicamento, res concJeta (a parte l'effetto di umorismo preterintenzionale contenuto nella notizia di un grande quotidiano, umorismo contro il quale sarebbe consigliabile che i politici stessero un po' più in guardia: «Oggi ha avuto luogo fra i suddetti ministri una colazione di lavoro per discutere la questione morale»). Non si può non rilevare che da alcuni anni il frasario sostitutivo, felice ohimé flusso di parole, è quasi la sola offerta dei politici al paese disastrato. Al che viene in mente Balzac: «li n'y a rien de violcnt à Paris commc ci qui doit ctre éphémèrc» e, a ruota, Ugo von Hofmannsthal nel recente Libro degli amici (Adelphi, Milano 1980): «Non aleggia un fiato di morte e di disfacimento su tulli quegli istituti dove la vita viene posposta al meccanismo della vita?». Quanto al meccanismo del discorso politico, esso è già stato validamente illustrato da storici della lingua italiani e stranieri, oltre che da semiologi; e, data la sua fatale iteratività, ormai ~ anche al pubblico esso è ben noto. Sic- "' ché forse i soli a doverci ancora riflet- -~ ~ tere soprasonoproprioloro, i politici, -. a doversi quindi domandare se davve- ~ ro è possibile che un paese sia governa- _ 9 to a11raverso le tecniche dell'enunciac:s zione, le strutture della retorica e l'interdizione di un parlare «altro». Non è "' ~ e:, "' che i desideri di noi non politici si avverino mai, ma pur non potendo fare assegnamento su niente le nostre spe- ~ ranze di vederli avverarsi non muoio- ~ no mai. si

Letteraturaclgg!lestinpaolacca K.Brandys Nietze ezywsto~ (La non realtà) Varsavia, 1977 T. Konwicki Kompleks polski (Il complesso polacco) Varsavia, 1977 Mala apokalipsa (La piccola apocalisse) Varsavia. 1979 J. Andrzejewski Miazga (Poltiglia) Varsavia, 1979 T. Nowakowski Happy-end Parigi, 1970 Di Brandys e Andrzejewski sono state tradoue alcune opere in Italia; Nierzeczywisto~ è stata pubblicata in Francia. Konwicki, anche regista ci11ematografico, fu premiato a Venezia nel 1963, per il suo L'Ùltimo giorno d'estate. A La piccola apocalisse sta lavorando il prof Marchesani, per conto di Feltrinelli. « Da anni viviamo in w1 sistema in cui, al di fuori del culto della i11compere11zad, ella paura diffusa e della mediocrità, è in vigore la sfiducia verso ogni iniziativa non imposta (.....)» T. Nowakowski, Happy-end, Parigi /970. I ntorno al protagonista di Happy. end, autore di radiodrammi, si muove una folla ambigua di pennivendoli, da11ilografe,dirigenti e direttori, parenti e galoppini; di corridoio in corridoio, d'ufficio ad ufficio si sdipana la matassa dei petlegolezzi, delle lettere anonime, delle contorsioni servili degli addetti ai lavori della RadioTelevisione polacca. Alla fine del libro il protagonista tenta il suicidio, perché travolto dal disgusto per aver dovuto scrivere un radiodramma sulla liberazione cielsantuario cliCzestochowa eia parte dell'Armata Rossa: vittima cli «una storia specialista cli falsi verdetti», povero diavolo-intellettuale, non è né migliore né peggiore degli altri: gli è rimasto solo un grammo di coscienza in più. Scritto nel 1970, Happy-end non fa parte né cronologicamente, né «geograficamente» della letteratura del «samizdat» polacco, ma ciò nonostante anticipa inaspettatamente il tono sardonico dei romanzi «clandestini» degli anni '70, le loro paradossali piroetle linguistiche e figurative intorno al rapporto tra intellettuale e potere, o meglio la estromissione dal potere, lo scoprirsi impiegato della penna del primo. D'altra parte il diabolico onnipotente diret1ore della TV, che si muove a suo agio tra congiure ed intrighi, non è una figura simbolicamente «demoniaca», come a prima vista potrebbe sembrare: modellata su J. Sokorski, ex-direttore della TV, essa potrebbe servire altrettanto bene da stampo anche a Maciej Szczepanski, penultimo direttore in carica, recentemente defenestrato tra grandi e pubbliche esclamazioni di scandalo. L'apocalittico sarcasmo di Happyend, che ad un lettore occidentale potrebbe apparire come degradazione fantastica e «letteraria» della realtà, modella invece i suoi toni sulla quotidianità di uno «scontro» minuscolo e personale tra l'individuo e l'autorità burocratica. Ingoiando il suo flacone di tranquillanti, il protagonista cerca, a modo suo, di uscire dal vicolo cieco in cui si sente cacciato: nei labirinti della comunicazione letteraria, dominati da imperscrutabili meccanismi burocratici e selettivi, diviene sempre più impossibile credere in ciò che si scrive o si legge. Finito il «giro di valzer» col potere, finita la gestione culturale centralizzata del partito: finita anche l'ebbrezza del «dopo-disgelo» e l'illusione di una collaborazione. Tra le crepe e le falle dell'edificio culturale, a volte.sono possibili deviazioni ed imprevedibili compromessi: tutto è però aleatorio, preda del caso o del capriccio, delle mode letterarie e delle improvvise illuminazioni dei censori. La sfiducia e la rassegnazione degli scrittori si traducono nel compromesso interiore riassumibile nel motto: «ciò che puoi scrivere oggi, scrivilo domani» (Happy-end, p. 44), o nell'inclinazione verso i doppi sensi, gli eufemismi, le metafore alate, in ultima analisi l'accettazione delle condizioni imposte dall'alto. Quando in Polonia si è posta l'esiI le; "CS pRE:~S ZRA PQUNb MEJ\.10RIAL POE'CRY REAbiNG bA\7E l3ROMÌ(jE·LENNAH1t3"RUCE c;Ail ChiARRELLO"C· OMClARI< ANtmE cotmESCU· nol3€n-c CHEES e l'Uomo di marmo fa pane della costellazione mitologica _degli anni '50, rimossa dalla coscienza collettiva, dopo la «caduta degli dei» del disgelo, la figura dell'intellettualecompagno di strada, cantore della rivoluzione sociale e dei piani quinquennali, torna a galla, come brandelli d'inconscio nei sogni, nella letteratura «samisdat ». «L'operaio ha continuato a comparire come eroe dei reportages televisivi e delle prime pagine dei quotidiani, ma sempre come appendice della macchina, o come un automa che ripete parole e pensieri a lui estranei» (2) ha detto recentemente A. Wajda ad un convegno di lavoratori del cinema a Danzica. Mantenendo il parallelismo delle pani, potremo dire all'intellettuale è stata demandata negli anni '50 !'«eroica» funzione di un sostegno militante alla lotta di classe: fare letteratura non LEY·Mil<E0A\1ÌOSON-WiLLiAM.EVEHSON·LAWRENC(f:ERliNGhecr,· SUSAN c;RiFFiWt:OOMGUNN·JQANN~l,}'GER RON I.OEWiNsohN·(iERARb MAlANGA·hARoLb NORSE·MiChAELJ]AlMER·WM PARI\ÌNSON·StAN RÌCE·IACkShOEMAkER·JohN siMON·SO't:EREWRREGÌAN F Ri. t>ec. s8:30PM 't:El hi c;yM $1. 555 ChES't:NU"C. S.f. 6 ·sin Brld . g.:nza di fondare una .casa editrice clandestina («Nowa», aderente all'«lndex of Censorship» di Londra), per i dissidenti non si è trattato perciò solo di rompere le congiure del silenzio o di riempire le falle aperte dall'attività ininterrotta della censura, ma soprattutto di spezzare al tempo stesso l'invisibile circolo vizioso dell'autocensura degli autori e della diffidenza dei lettori, che si traducevano'~n u·n forzato ricorso alle allusioni e ad un faticoso «leggere tra le righe» a tutti i costi. Se perciò alla vigilia della fondazione di « owa» uno dei giovani poeti della «nouvelle vague» letteraria, in odore di eresia, S. Baranczak, si appellava al valore dirompente della verità, non affermava tanto il luogo comune del suo essere rivoluzionario, quanto denunciava «la fuga dalla realtà», i compromessi ed i garbugli supinamente accolti dall'intellighenzia, le comode scappa1oie di una «mente prigioniera» ('). La letteratura del dissenso doveva rompere con la prassi del venire a patti con le censure interiori, i tagli e le mutilazioni del testo, doveva invece essere immediata, sincera fino alla brutalità, basata su di un «hic et nunc» saldamente ancorato alla realtà, fin dalle sue implicazioni più «mi_seramente» •quotidiane. era un·occupazione piacevole, ma un duro impegno sul «fronte» della lotta alle forze della reazione e dell'oscurantismo. Il consenso dello scrittore passava attraverso il suo impegno come membro del partito, dell'Unione degli scrittori, come deputato. alla Dieta, attraverso i suoi articoli sui giornali e le pagine dei suoi libri, dove «era ridicolo e stupido tutto ciò che non fosse conforme a norme prefissate a priori, o che non realizzasse i piani alla cui attuazione era stato chiamato un determinato gruppo» (3). L'intellettuale si inseriva cosl nel gioco delle parti dei rituali e delle manifestazioni politiche. Con ildisgelo la situazione è divenuta più complessa: alla euforia editoriale e pubblicistica che ha seguito l'ascesa di Gomulka, aprendo inaspettati spazi alla pubblicazione di scrittori «eterodossi», è succeduto un atteggiamento di «indipendente» distacco della letteratura «ufficiale», vale a dire una sorta di scollamento da ciò che potesse richiamare alla vita problemi «reali» e scottanti. Questa tendenza fu definita nel 1974 da due giovani poeti della «nouvelle vague» come la fuga nel «mondo non rappresentato». La letteratura del dissenso porta alla ribalta questo mondo, lo amplifica, lo ingrandisce e vi si rispecchia: dalla pagina emerge una realtà «doppia», assurda e crudele, perché concentrata nella sua essenza, convulsa perché repressa e nascosta. La narrativa del dissenso è figliadella censura, ne reca le cicatrici, un po' come se essa, forma informante della letteratura ufficiale, facesse sentire la propria assenza nella massa pesante ed aggrovigliata delle cose da dire. Sembra quasi che gli esperimenti «al di fuori della censura» rovescino come un guanto l'abitudine dello scrittore ad una penosa simbiosi con essa. La generazione intellettuale polacca, passata attraverso gli anni '50, lo stalinismo e il «diktat» del realismo socialista non può certo dirsi intatta dalle «zampate»» del potere, anche per motivi oggettivi: la connessione politica-ideologica ha come lasciato delle profonde ferite nella coscienza intellettuale. Il crearsi di una «terra di nessuno» al di fuori della censura diviene' quindi la prni.:zionc ktteraria di queste cicatrici, dall'indubbio carattere catartico, intrecciata intorno alla storia ed alle vicende individuali del dopoguerra fino ad oggi. S crittori come J. Andrzejewski, T. Konwicki, o K. Brandys, passati ai loro tempi dalla «corvée» della stesura di mediocri romanzi socrealisti, sembrano perciò animati da un segreto sentimento di vergogna collettiva, di cui le loro opere odierne sono la testimonianza. La violazione del tabù della censura, profondamente radicato, fa come saltare il tappo ed esplodere violentemente i residui del non detto e del sottinteso. Tra le mani dell'autore, depositario di una memoria collettiva di abusi quotidiani, il testo strozzato dalle limitazioni perenni della censura sembra quasi scoppiare in una cascata febbrile di episodi, avvenimenti e denunce. Il tubetto di dentifricio strizzato dalla copertina di Poltiglia ( 1979) di Andrzejewski è un po' la rappresentazione grafica di questa fuoruscita improvvisa. In uno stato di inattesa libertà lo scrittore si trova alle prese con la catena di stereotipi della politica culturale del regime, delle interpretazioni ufficiali della storia e delle rappresentazioni idilliche della società socialista. La paradossalità degli stereotipi si risolve perciò nella paradossalità della denuncia: al ritornello della canzonetta« Va già bene, ma andrà ancora meglio» si contrappone idealmente la battuta, popolare qualche anno fa in Polonia: «Quando andrà meglio? Andava meglio prima». «In nome di una tattica finalizzata al nostro stare in santa pace o alla nostra sicurezza personale, ci perdoniamo il fatto di mentire, di essere disonesti e sleali nei rapporti professionali o pubblici, riservandoci invece la libertà di parola, la sincerità e la correttezza nei rapporti familiari o con gli amici più intimi» (4). Sono ancora parole di Wajda: come abbiamo già accennato, oggi il potere non chiede più allo scrittore di collaborare, o di tesserne le lodi, ma solo la sua passività e distacco dalla dimensione più strettamente sociale. Tutto ciò produce quello specifico stato che Wajda definisce «schizofrenia morale> tra il pubblico e il privato, tenendo per fermo che il privato è la sfera dello sfogo, della barzelletta, dell'eterna lamentazione, ed il pubblico quella della rimozione e della «liberazione» dalla realtà nel fantastico. Da questo universo chiuso di implicita complicità con la realtà dei fatti, che coinvolge l'intellettuale allo stesso modo di qualsiasi privato cittadino, è possibile perciò solo lanciare messaggi celati in una bottiglia. In questo senso La 11011 realtà di K. Brandys ( I977) e Poltiglia di J. Andrzejewski (I 979) 50110 dei «gryps», come vengono chiamati nel gergo delle prigioni i messaggi clandestini verso il mondo esterno: il primo è infatti la rielaborazione delle risposte ad un'inchiesta di un sociologo americano, incisa sul nastro e trascritta dal protagonista, un regista polacco, l'altro una sorta di diariomonologo dell'autore sui fatti ed avvenimenti degli ultimi trent'anni. Da queste emblematiche s1orieconfessioni, sempre confinate in una dimensione privata ed interiore, .:merge un'autobiografia collettiva del paese, con le sue rabbie, angosce e paure. La letteratura fa così necessariamente i suoi conti con la storia ed i suoi risvolti quotidiani, con il primato della forza e con le piroette dei suoi personaggi: dal patto Molotov-Ribbentrop alla guerra e l'occupazione, dallo stalinismo ai ricambi di potere che non modificavano niente, dalla speranza di Praga agli scioperi degli anni '70. Attraverso la rievocazione del passato e la testimonianza in prima persona sull'era dei conformismi e dell'ortodossia, la figura dell'intellettuale diviene cosl il reticolo attraverso cui fanno la loro comparsa i meccanismi del condizionamento quotidiano, lo stillicidio della disinformazione, l'incubo del carrierismo. La storia filtrata dalla coscienza individuale, la storia come unità microcellulare alla base dei processi del ricordo, la storia ancora polverizzata in nomi, date, episodi, simboli. È questo un modo di stare dentro la storia, di tenerla continuamente presente, ma anche di sfuggirla,_di neutralizzarne la carica catastrofica. Il tempo reale fa la sua comparsa se incasellato nei cunicoli della memoria, gli avvenimenti del nostro tempo sembrano invece sfuggire alla logica della storia. È la sfera della «non-realtà>, perché nella realtà scrittore e lettore sono calati fin troppo dentro, perché la sua paradossalità fa parte di loro. Su questa paradossalità torna ancora una volta Wajda: «Capita spesso che, stancati dagli insuccessi delle battaglie quotidiane, ne avvertiamo soprattutto la paradossalità, il non-senso, a volte il grottesco» ( 5). Al non-

senso e ai paradossi ci aveva abituati S. Mrozek, da lungo tempo in esilio, con il suo «teatro dell'assurdo», si trattava però di un assurdo sottile, prodotto finito di un lungo processo di raffinazione. La letteratura «clandestina> è invece piuttosto materia greggia, dove la non-realtà della burocrazia, della corruzione, della degradazione morale dell'individuo coscientemente perseguita, esprime tutti i suoi paradossi più segreti. L'allucinante allegoria de La piccola apocalisse (1979) narra di uno scrittore alcoolizzato prescelto dai suoi compagni dissidenti per darsi fuoco di fronte al tempio del potere, il «Palazzo della Cultura». II suo gesto «disperato» dovrebbe risollevare dalla crisi il dissenso polacco, dilaniato da rivalità e divisioni intestine. P roiettata in un futuro prossimo, ma non determinato, La piccola apocalisse è la storia del viaggio attraverso i vari «gironi» della città, dagli appartamenti di periferia agli squallidi snack-bar popolari, dalle strade buie popolate da ubriachi ai sotterranei del Palazzo della Cultura strapieni di ogni ben di dio. Sospeso tra reale e irreale, tra proiezione del quotidiano e raffigurazione simbolica, questo viaggio in una Varsavia fantasmagoricamente piegata dai razionamenti di viveri e di energia, è insieme l'una e l'altra cosa. È forzatura di tono di situazioni reali, come il ricordo reE ra tempo di far compiere un salto al concetto di censura, cercando di ricavare alcune caratteristiche fondamentali di tale dispositivo sociale direttamente dalle pratiche realmente in atto, piuttosto che dalle teorie sino ad oggi emerse su questo argomento. È quanto si è tentato di proporre a Ferrara, mettendo insieme competenze diverse tra loro- da Mario Tronti a Paolo Fabbri, da Remo Bodei a Giovanni Cesareo, da Adriano Aprà a Giangiorgio Pasqualotto, da Omar Calabrese a Ellis Donda, Amato Lamberti, e altri- e facendole ruotare attorno alla questione di fondo, a ciò che davvero conta e rende l'argomento non solo interessante ma necessario: la pratica censoria come produzione di strategie della rappresentazione e della comunicazione, come potere dunque. Siamo troppo abituati ai modi in cui si parla di censura in ambito cinematografico, televisivo, giornalistico e letterario o ai modi in cui le politiche culturali tentano di «sfruttare» il potenziale rivendicativo di coloro i quali sono o si dichiarano censurati: sono modi che riducono la concezione di censura ad un fatto puramente meccanico-amputare. oscurare, distorceree lo addebitano esclusivamente al potente, cioè colui che esercita un rapporto di forza e per di più contravvenendo alle regole della democrazia, cioè eccedendo negli strumenti di dominio di cui dispone. Si tratta invece di collocare il discorso sulla censura al livello che merita: identificare un insieme di meccanismi interni alla comunicazione, presenti non al vertice soltanto della comunicazione, ma tra le due parti, nel ciclo complessivo, della produzione e del consumo di informazione; non solo arma dei malvagi e degli «invasori», ma anche espediente dei buoni e dei subordinati. Dunque, volgendo l'occhio ad una concezione del potere meno rozza, ad una forma della conflittualità politica più diffusa e articolata rispetto al dualismo manicheo di tipo tradizionale. Vediamo perché. Il rapporto tra efficacia e verità - si cente del grande gelo del capodanno '78, che lasciò la capitale nel freddo, nell'oscurità e senza comunicazione pubblica per quattro giorni, con migliaia di persone che si spostavano per chilometri a piedi. Ma è anche, al tempo stesso, un viaggio a ritroso nella coscienza, tra i suoi gangli più dolorosi, nella passività, nell'impotenza e nella paura. «Anonimo homo sapiens», il protagonista compie a sue spese un esperimento sul corpo ideale della società polacca, su di se stesso: dentro non trova che disperazione mitigata da sarcasmo, fuori il pantano del cinismo e dell'indifferenza. Schiavi di un destino catastrofico di dimensioni planetarie che vede profilarsi il dominio dell'illibertà, gli altri sembrano aspettare nell'immobilismo l'apocalisse, la fine del mondo: «Ma questa fine può durare a lungo. Secoli interi» (pag. 76). Il secondo romanzo «samizdat» di Konwicki, Il complesso polacco (I 977) prende spunto dalla lunga attesa del protagonista (come l'autore expartigiano non comunista, ex-scrittore soc-realista, ex-membro del partito) in una fila che si trascina stanca, nel corso di tutta la vigilia di atale, verso un negozio di orologi. Tadeusz incontra così un uomo che sostiene di essere stato incaricato di ucciderlo negli anni '50, per il suo «tradimento» delle formazioni partigiane: ma la rivelazione, che potrebbe dare al tutto un tono tragico, si diluisce nel coro dei canti natalizi di sottofondo, nelle bottiglie di vodka trangugiate tra un discorso e l'altro, nella piccola folla in coda fatta di studenti, padri di famiglia, pensionati e balordi. Alla sera, arrivato finalmente il camion con le agognate merci, anche l'attesa si rivela inutile, perché al posto degli orologi vengono scaricati solo samovar elettrici in super inox. Proiezione caricata degli incubi della realtà storica polacca, delle sue drammatiche impasses, delle assurdità della vita quotidiana (di cui gli avvenimenti di questi ultimi mesi hanno fatto giungere un 'eco fino a noi), il realismo grottesco di queste opere è un modo di farsi specchio di esperienze collettive: la concentrazione dell'elemento grottesco rispecchia infatti questa esigenza di «universalità», questa voglia di uscire dalla dimensione strettamente individuale, pur narrando senza dubbio di sé. La caratteristica nuova di queste opere sta forse infatti in questa ricerca di una nuova collocazione e di un'identità sociale, da parte dell'intellettuale, ,in seno ad una società che cambia, che esprime i suoi disagi non più in maniera «schizofrenica». In Polonia l'uomo della strada fa i conti con i lati più meschini e «ridicoli» del potere, con le sue regole e divieti, intrallazzi, con i suoi timbri e scartoffie, con l'esercito dei suoi microscopici e servili esecutori, di funzionari, poliziotti, portieri o impiegati. Questa grigia schiera è la longa manus dell'autorità la più tangibile e reale, ma anche la più paradossale. Nei· romanzi di Konwiski questa dimensione viene concentrata ed esaltata al massimo: ai personaggi, così, non resta che trasformarsi in figureruolo, impoverite e prigioniere di schemi: il piccolo dirigente del partito, il carrierista, l'intellettuale, l'alcoolizzato divengono così rappresentazioni drammaticamente caricaturali della degradazione dell'esistenza. Si spiega così una certa «rigidità» delle figure di contorno che ricorda gli abbozzi dei personaggi di una certa letteratura «gialla»: la narrazione diviene un mezzo concentrato al massimo, per giungere ad un quadro d'insieme, dove i singoli elementi hanno un senso soltanto in relazione al tutto, e dove infine essi si inseriscono in un gioco di situazioni prefissato ed obbligato, dove non c'è più spazio per i sentimenti e per ogni forma di spontaneità, perfino nel linguaggio. La lingua di cui si servono i personaggi, infatti, è lo «small-talk» burocratico, la lingua primitiva e semplificata del potere che, in un interessante saggio socio-semiologico pubblicato da «Nowa» ( 6) è stata definita la «neolingua» di stampo orwelliano. Sulla falsariga della «lingua della propaganda» dei mezzi di comunicazione di Censura potrebbe anche dire tra potere e co'noscenzalcoscienza - viene dato di sovente come sostanziale per l'iniziativa politica. A seconda che la pratica censoria sia agita o patita, si suole porre l'accento su l'uno o l'altro dei due poli in questione, legittimando, in un caso, la censura come strumento di funzionalità politica, denunciando, nell'altro caso, la censura come strumento di sopruso e violenza sull'espressione e sui significati. In tempi di rapporto stretto tra politica e ideologia, che in Italia sono spesso anche i tempi di scontro frontale fra subordinati e potenti (si pensi agli anni della ricostruzione e alla «curva» del dibattito sul neorealismo come cultura di opposizione solloposta alla censura di governo), il concetto di censura assume la sua configurazione classica di Alberto Abruzzese polemica rivendicativa e ancor oggi dai più viene perpetuata come tale. Vale a dire che questa concezione di censuca si forma ed assume i suoi contorni di maggior rilievo nazionale quando la società civile gode si di un impulso di modernizzazione (da cui derivano, appunto, rischi conflittuali che vanno contenuti e dunque richiedono l'uso della censura), ma contemporaneamente soffre di meccanismi di socializzazione arretrati e difettosi (da cui un uso della censura di tipo rozzo e per così dire «deterministico»). Ma ora, tramontata ogni velleità neorealista ed ogni certezza ideologica, siamo finalmente di fronte alla verifica della profonda crisi che le forme dello scontro tra «interessi» opposti, le forme del conflitto tra diverse forze produttive e sociali, stanno attraversando, sino a rinnovare radicalmente la teoria politica, sino a renderla consapevole dei fatti che hanno minato gli antichi equilibri, distrutto la passata razionalità. E, quindi, è proprio la attuale crisi di valori e di modelli che produce o almeno può produrre un salto qualitativo nel definire le pratiche censorie non più sulla linea di demarcazione tra chi comanda e chi è comandato ma nel corpo stesso della società. Mario Tronti ha .usato, proprio in occasione dell'intervento al convegno ferrarese, una immagine del farsi storico del rapporto di potere, una metafora del costituirsi della forma contemporanea del comando estremamente suggestiva presa a prestito da Canetti: mentre prima l'uomo comandava il cavallo a distanza mediante il wiH/dm8lJRROll6flS, ,faek lv{ROVAC, •llui GINSN/lG, ~ OI.LOl/41.'I, glifMI CdtfO,.J1.fc,Jdio OIW)VJ1'(J, /lf tZl(o /fl~). BEATGENEBATION massa, Konwicki costruisce così una atmosfera brutale, rozza e senza più nessuna mediazione, rovesciando e denunciando implicitamente la politica, niente affatto occulta, di condizionamento dei mezzi di informazione. La piccola· apocalisse si chiude col rogo del protagonista; sotto il ronzio delle macchine da presa, lo scrittore in crisi de Il complesso... torna a casa gonfio di alool e di amarezza; il regista intervistato de La non realtà si porta dietro le sue confessioni sul nastro, nascondendole in tasca, visto che «dentro ad un sapone non c'entrerebbero». All'orizzonte, l'inquietante bagliore dell'illibertà, «rosso come il respiro della città (...) forse stella gi~ gantesca, forse ritratto di donna in pianto, forse baratro aperto dell'inferno». l) Secondo la felice definizione di Cz. Milosz, oggi premio Nobel. cfr. Cz. Milosz La mente prigioniera, ed. Martello I 955 2) A. Wajda, intervento al convegno dei lavoratori del cinema, Danzica 1980, in « Kultura» 2119/1980, pp. I 1-12. 3) J. Walc, T. Konwickiego przestawienis swiata, (La rappresentazione del mondo di T. Konwicki), tesi di dottorato mai pubblicata. J. Walc è oggi un attivo collaboratore del K.O.R. 4) A. Wajda, op. cit. 5) A. Wajda, op. cit. 6) La lingua della propaganda, Varsavia, Nowa, 1979. Trascrizione di una lezione tenuta all'Università volante clandestina. lancio di una freccia - e dunque la freccia è per così dire l'immagine originaria del comando - alla fine, ora, cavaliere e cavallo fanno un tutt'uno e viene cosi annullata la distanza tra chi comanda e chi è comandato. 11 nodo della questione, allora, è molto vicino a quel nodo teorico, molto più generale e drammatico, che riguarda la dinamica dei rapporti di potere in una società democratica. Quel nodo di problemi teorici che ha accompagnato strategie e tattiche del·- la conflittualità di classe mano a mano che i meccanismi di socializzazione hanno esteso capillarmente l'opposizione «originaria» del luogo di produzione a tutto il territorio della vita civile. E quanto più, dunque, la forma di governo democratico esplica una gamma articolata e sofisticata di dispositivi atti a regolamentare ilconflitto, a concedergli uno sviluppo non catastrofico, a contenere o mediare le punte più elevate di dominio economico-politico, tanto più i modi di produrre censura si diffondono, si interiorizzano, si moltiplicano ed occultano allo stesso tempo. Cosicché non risulta certamente paradossale sostenere che quanto più una pratica censoria si esibisce spettacolarmente, si denuncia nella evidenza della sua funzione, rende esplicita la sua scelta di potere, tanto più dimostra conflitti già risolti, improduttivi, o di «contorno». Mentre invece, laddove il sottile e profondo reticolo di strategie censorie agisce nel comportamento, nella conversazione, nella vita quotidiana, nella grande area dei consumi di massa piuttosto che ai vertici del comando o del pensiero, nei bisogni superflui e «immaginari», piuttosto che in concetti e valori, laddove insomma la censura non è corpo estraneo ma assimilato, elemento costitutivo per quanto «specializzato>> dell'agire, dire, pensare e sognare, ecco qui il potere nella sua realtà più profonda e avanzata, ecco l'efficacia di un comando che muove dall'interno, che agisce con rapidità elettronica e non più mec-

..... 00 °' ..... canica. Temi e questioni di cui conviene - come appunto è stato fatto a Ferrararestringere il campo su alcuni settori soltanto in cui l'atto censorio agisce sulla comunicazione o sulla rappresentazione dei fatti, sul modo di significarli, di esprimerli, di produrli concettualmente con la parola o l'immagine, di farli esistere nel consumo di massa. Tenendo a mente che il momento di una cultura di massa non viene scelto occasionalmente ma al contrario si impone oggi come punto di vista generale, come chiave di lettura dell'universo mediologico contemporaneo. Temi e questioni di grande peso non solo nel quadro di una economia politica dell'informazione e dell'industria culturale, ma anche nella direzione di un discorso specifico sulle forme politiche assunte dai partiti e in particolare dai partiti della sinistra, cioè quei partiti che storicamente sono legati alla crescita delle masse, alla valenza politica dei processi di industrializzazione, alla produttività sociale dello sviluppo <;temocratico. Nuove competenze nel campo massmediologico e critica della forma storica del partito di classe possono qui saldarsi con profitto; ed è anzi urgente affrettarsi nell'operazione. Infatti, l'incomprensione del fatto censorio e delle sue dinamiche nel campo dell'informazione trova il suo corrispettivo nella estrema arretratezza delle strategie di sinistra, nella rigidità del rapporto tra comando politico e competenze intellettuali o tecniche all'interno dei partiti stessi, in una pratica censoria rozza e dunque tanto inefficace al partito quanto utilizzabile dalla controparte. E si potrebbe continuare ma potrà essere fatto più estesamente in altre occasioni. A Ferrara, credo siano state toccate questioni fondamentali per poter procedere più speditamente nella direzione che ho detto sopra. In questa sede, più che fare il resoconto delle relazioni e del dibattito vorrei soffermarmi su qualcuna di quelle questioni che a mio avviso hanno assunto una particolare evidenza. R emo Bodei, elencando le diverse concezioni e pratiche di censura storicamente emerse nella nostra civiltà industriale - una storia che attraversa con curiose omologie sistemi totalitari e sistemi democratici, ideologie permissive e ideologie repressive, politiche della mediazione o integrazione e politiche dello scontro verticale - giunge a ricordare l'assassinio come forma massima di censura, come eccesso cli autorità, come determinazione spietata di una norma che ha possibilità e «diritto» di uccidere chi trasgredisce. Vale a dire che comunicazione e rappresentazione possono trovare modalità di controllo estremamente articolate nel grado di violenza oggettiva richiesta dall'intervento su chi comunica o rappresenta, ascolta o vede: questa violenza o va lasciata esistere, graduando la sua spontaneità (un contenimento di pericolo con piccole dosi di pericolo, diceva ancora Bodei), oppure viene esercitata in modo occulto o su livelli di violenza diversi, oppure, infine, viene concentrata in una forma esemplare di cui il delitto è la rappresentazione più loquace. È interessante notare che alla radice delle teorie dell'arte contemporaneanon a caso costituitesi sulla spinta dei primi clamorosi processi di industrializzazione, socializzazione e massificazione - troviamo la metafora dell'assassinio. In questo ambito l'assassino è il modello avanzato e progredito di artista: l'autore di un testo esemplifica il suo potere trasgressivo nei confronti delle norme della comunicazione attraverso l'immagine del delitto. Dunque nel cuore stesso dell'avanguardia intellettuale - laboratorio di tecniche per la futura società di massa contemporanea- la figura dell'assassino aveva il significato del massimo di trasgressione nei confronti di una forma testuale intesa come il massimo di potenziale censorio. Quella azione «liberatoria» dell'assassino fu presentata come fascinazione e seduzione del pubblico, accettandone la sua natura conflittuale e violenta, cominciando sin da allora - al punto di origine del rapporto produttivo di integrazione tra cultura d'élite e cultura di massa - a privilegiare il momento del consumo anche nei modelli di organizzazione del lavoro creativo, della produzione. E proprio quella azione liberatoria, quell'epoca felice di sperimentazioni delittuose e perverse, quella negazione d'ogni morale, doveva al contempo costituire nuove e più rigide forme. L'arco di esperienze storiche, che dall'esteta innovatore si spinge sino al rapporto tra terrorista e informazione, coincide con l'intero percorso coperto dalla vita, crisi e frantumazione delle forme della rappresentazione e della comunicazione nei paesi industrialmente avanzati. Il delitto è anche l'elemento normativo e pertinente del genere poliziesco, cioè di un dispositivo tipico della grande industria culturale dell'editoria e del cinema. li cadavere nasconde il sottile reticolo di norme e trasgressioni che il detective deve scoprire. Questo genere di massa e di consumo, questa «macchinetta» standardizzata e ripetitiva, disvela una identità originaria tra assassino e investigatore, mostrando il nesso stretto, funzionale e socialmente produttivo, tra la trasgressione delle norme e i percorsi tortuosi e «critici» mediante i quali tale norma può sopportare lo sviluppo, conservarsi nel conflitto, mantenere il suo potere comunicativo, informare. Dunque è essenziale un discorso sulla forma, necessario per il tempo presente, laddove sempre più acutamente si fanno sentire le voci di coloro i quali sostengono il nesso stretto tra massificazione e distruzione dell'ideologia, della razionalità, dei significati. Necessaria riflessione sulle forme della comunicazione, laddove sostenere che è caduta ogni possibilità di produrre significati porterebbe al paradosso evidente di un mondo che non comunica, di persone che non parlano, di eventi che non accadono, e per giunta porterebbe alla negazione di ciò che invece i teorici della catastrofe per la catastrofe maggiormente sentono e cioè l'esistenza di un dominio, la violenza di un comando, il potere della macchina sociale. N on a caso nel convegno ferrarese è stato più facile accettare una analisi non conformistica del meccanismo censorio se essa restava legata ad un piano concettuale, ad un'area tradizionale per quanto rinnovata del pensiero filosofico, ad un metodo critico per quanto aggiornato. Ed invece è stato molto più difficile comprendere i discorsi di Ellis Danda e Adriano Aprà sulla forma cinematografica, cioè sulla forma classica dell'industria culturale. Qui si dimostra che i termini attuali della crisi dei modi di produzione della comunicazione e dunque dei dispositivi censori si misurano sulla scomparsa, obsolescenza, frantumazione di rapporti e norme formali e non sull'assenza di significati. Si dimostra che proprio la nostalgia nella forma cinematografica classica (il grande cinema di genere hollywoodiano che come ricordava Aprà «faceva risplendere gli schermi») riscalda il nostro pensiero sino a fargli cogliere, nell'eccesso di una assenza senza alternativa o sostituzione, la sostanza effettiva della fase di passaggio da una cultura dello spettacolo ad una cultura dell'informazione. Nostalgia della censura, di una pratica censoria cioè capace di norme solide e definite, significa avere nostalgia dell'autorità delle tecniche di dominio necessarie all'espressione, della efficacia delle parole e dell'immagine, del piacere dell'evento. Significa essere conservatori e reazionari solo se la consapevolezza di un universo formale in dissoluzione e il desiderio della sua antica potenza vengono utilizzati come utopia di un ritorno, come invenzione nel futuro della Grande Forma del passato, come perpetuarsi di norme e tecniche destituite di ogni effettiva praticabilità. In altri e più semplici termini, proprio avendo vissuto sino in fondo il desiderio del cinema normativo, si può capire il flusso ininterrotto della comunicazione elettronica; ma solo pretendendo di far funzionare la televisione o la stampa di massa come il cinema o la letteratura si compie una operazione reazionaria. A questo punto quello che appare un progetto minimale e appartato, settoriale, tecnicistico, si rivela essere il piano più avanzato a disposizione, per rendere possibile l'innesto di qualsivoglia pratica innovativa. Fa bene Paolo Fabbri a invitarci sempre alla ricerca analitica dell'oggeuo del discorso per non perdersi sulle approssimazioni e sulle clamorose sviste delle vecchie strategie politiche, ideologiche, metodologiche. Desiderio di censura. In effetti sembra un paradosso inutile e dannoso. Ma vediamo di scioglierne meglio le implicazioni: desiderio di norme su cui potere esercitare l'insieme di manipolazioni che rendono forte il discorso; desiderio di una autorità da trasgredire nei vari modi, occulti o palesi, traslati o metaforici, con cui la trasgressione esercita il suo potere; desiderio di percorsi emotivi, passionali, con un alto indice di definizione in cui affondare i propri meccanismi di rimozione; desiderio di divieti e manipolazioni su cui eccitare la fantasia, scoprire immagini segrete, aprire fratture e determinare amputazioni; desiderio di una violenza coercitiva a cui rispondere con altrettanta violenza; desiderio di segreti e cifrari di cui scoprire la chiave di lettura; desiderio di codici ricchi di clausole, di tranelli, di interdizioni, di misteri con cui potere contrattare. Desiderio dunque di un terreno di scontro linguistico avanzato, tecnologicamente progredito: capace di significato. Ecco perché nostalgia delle forme conchiuse e definite: nostalgia del cinema come ultima occasione di spettacolo dotato di leggi con una loro coerenza. Ma, anche, ecco perché l'occhio deve necessariamente rivolgersi alla televisione, all'universo elettronico: qui il conflitto insito nelle pratiche della significazione, ha raggiunto il massimo livello tecnologico e il terreno dello scontro si è fatto sofisticato. Non più forme conchiuse, spettacoli, messa in scena coerente in termini spaziotemporali, ma un flusso continuo di informazioni, una «totalizzazione> del momento del consumo rispetto alla produzione. Di conseguenza in una società dell'informazione le strategie e le pratiche censorie hanno subito una modificazione radicale. S tiamo vivendo i tempi di trapasso da una cultura della produzione (privilegio dei «luoghi> e dei «soggetti» della produzione, privilegio della «forma» della merce, della sua «oggettualità») ad una cultura dei consumi (privilegio del ciclo nel suo complesso, delle forme frantumate della fruizione, del consumo come fattore determinante il significato dell'oggetto): in questo nuovo contesto il gioco di potere tra legalità e segreto, tra norma e trasgressione, tra tolleranza e censura, perde i sicuri riferimenti di cui poteva godere in una società dello spettacolo. Nel cinema o anche nel telefilm (come ultimo tentativo di sopravvivenza del cinema rispeuo alla TV) era ancora possibile scoprire le omologie linguistiche di uno scontro dualistico efromale, tipico, ripetiamo, di una cultura della produzione (lavoro contro capitale, classe operaia contro borghesia, campagna contro città, bene contro male e così via). ella televisione, nella manipolazione elettronica, i linguaggi dominanti nella società dello spettacolo si sono fatti strumenti intermedi, attrezzi necessari e pur tuttavia parziali, conoscenze settoriali o quanto meno preliminari; ma i modi del conflitto, della contrattazione, della «guerra» tra i significati, si sono fatti complessi sino ad una apparente «babele», ad una moltiplicazione e polverizzazione minuta tanto delle regole quanto della dinamica di sviluppo delle trasgressioni che sostengono tali regole. Questa «babele» è forse analizzabile e praticabile (se gli strumenti della ricerca sapranno stare :ii tempi rapidissimi dello sviluppo), ma è certo che nei modi in cui la censura è componente costitutiva dell'informazione elettronica, questa non trova più alcuna corrispondenza con il meccanismo manicheo di una cultura della produzione: nessun dualismo frontale ma uno «scambio» sempre più rapido di punti conflittuali, di soggetti che agiscono, di strategie alternative. Dire e non dire; lasciare dire e non lasciare dire; costringere a dire e a non dire: l'universo massmediologico ha moltiplicato e allo stesso tempo distrutto il patrimonio classico della censura, ma - ed è qui che dobbiamo ricominciare a pensare - ciò non toglie che il nesso tra rapporti di forza e informazione non continui a produrre innovazioni censorie efficaci, tecniche di potere fondate sull'occultamento o sulla coercizione linguistica, dispositivi di ricezione autoregolati, manipolazioni e così via. Resta probabilmente valida, ancora, la distinzione fondamentale- strategicamente e politicamente - tra apparecchiature censorie sofisticate, risultato di una scelta di potere socialmente maturata, e apparecchiature rozze, risultato di una scelta arretrata o «patologica». Nel nostro presente italiano questi due poli si intrecciano e confondono portando con sé, nella stessa ambiguità, le «politiche> e le «teorie» di quanti si assumono il ruolo di controparte nel rapporto tra chi infprma e chi è informato. L'AVVENTURAUMANA VITA E MORTE DELLA MEDICINA L'Ònline cannibale di Jac:ques Attali. Uno de;°libri piu letti e discussi in Europanell' ultimo anno. Lire 10.000 Nella stessa collana Cannibali e Re. :Le origini delle culture di M. Harrls. (3' ed.) Lire 8.000 / Le clttl del padri. Re, pastori, ladri e prostitute nelle dvlltà preindustriali di G. Sjoberg. Lire8.500 CRONACA DI UNA TRIBÙ 11 monda degli 1nc1..1. 1 guayald c:ecciatori r-..mac1i del Paraguay di Piene Clastres. L'affascinante racconto del lavoro •sul campo• di un antropologoche ha lasciato in eredità un'opera di crescente importan za. Con 21 ili. e 23 disegni di .,.__.._ Chavy. Lire 10.000 SETTE UTOPIE AMERICANE L'architetturdael socialismocomunitario 1970/1975 di DoloresHayden. Il rapporto Ira ideologia e architettura. progetto so ciale e progetto fisico, in sette comunità utopistiche americane nel corso -di due secoli. in appendice uno scritto di Gianni Baget-Bozzo. Con oltre 245 ili. Lire 25.000 MESMER o la rivoluzioneterapeutica di Franklin Rausky. Avventuriero,ciarlatano. uomo do tata di poteri paranormali.maniacò o pre cursore della moderna psichiatria. antici patore di Freud. di Moreno o di Wìlhelm Reich?Soltanto ora la storia comincia a r6ndere giustizia alla singolare personali tà del medico tedesco. Lire 9.000 MARGARET C. JACOB I newtoniani e l1 rivoluzione lngl1689/1720. Il primo tentativo di vasto re spiro di stabilire una connessione orga nlca e documentate fra Idee scientifiche e ambiente politico e sociale In cui esse , si svilupparo_no~.Ire 12.000 LA VITA INTELLIGENTE NELL'UNIVERSO di J. $. $kovsldJ e Cari S■gan. Edizione Italiana accresciuta a cura di Ubero So ' sio. Siamo soli o esistono milioni,miliardi di altre civiltà all'interno dell'universo? Dallacollaborazionetra uno scienziato rus so e un astrofisico americano un libro appassionante su uno dei problemi più avvincenti della scienza moderna. Con 154 ili. e 18 tav. a colori. Lire 28.000 MEDICINA E POTERE COI.LANAFONDATA0AG.A MACCACARQ LA MEDICINA NELCAPITALISMO di Vi cente Navarro. 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