le Origini» (CLPIO), che presto usciranno a cura di Avalle presso la casa editrice Ricciardi, il «Tesoro della lingua italiana delle Origini» (TLIO) e una grossa bibliografia delle edizioni a stampa usate per il TLIO. D ue parole sul TLIO: in varie pubblicazioni Avalle ha illustrato le ragioni e le finalità di questa impresa; vediamo di darle schematicamente. I vocabolari generali di una lingua sono in effetti molto meno generali di quanto promettano dato che a costituirli è per lo più il materiale della lingua letteraria, come se tale lingua letteraria ipso facto si identificasse con la lingua di un paese, mentre tutti quotidianamente sperimentiamo che chi parla o scrive mescola vari linguaggi speciali o settoriali, dei quali uno solo è costituito dalla lingua letteraria. Inoltre i vari linguaggi settoriali si modificano nel tempo in seguito a differenti ragioni socio-culturali. Per questo oggi l'«Opera del Vocabolario» si presenta con un programma in via di realizzazione alquanto diverso dal tradizionale grande vocabolario storico della lingua italiana dalle Origini a oggi. Si è cominciato col TUO o Tesoro della lingua che si estenderà dalle OriAeur Jaeggy O dito in bocca Milano, Adelphi, 1968 pp. 106, lire 3.000 L'angelo custode Milano, Adelphi, 1971 pp. 91, lire 3.000 Le statue d'acqua Milano, Adelphi, 1980 pp. ll0, lire 5.000 S ono come Robinson su un'isola. E ho con me - al contrario di Robinson che aveva un solo libro e molti strumenti - soltanto tre libri: i tre romanzi di Aeur Jaeggy. Sono da più giorni in silenzio. n linguaggio è ora per me solo parola scritta: roman- • w. Se parlo è in un'altra lingua, una lingua straniera, che di me, non dice nulla; ma per me-semplicemente parla la necessità della comunicazione. Ci sono tuttavia i tre libri: tre libri che ho portato perché del terzo, Le statue d'acqua, del suo attacco lento e solenne mi ero, prima di partire, innamorata. Della lingua mi sono spesso innamorata. Accade allora che quella bellezza mi ammutolisce: e quella parola, più forte di qualsiasi altra che io possa trovare in me, mi espone all'impotenza del mio linguaggio. Alla mia povertà in esso. Allora faccio cosi: lascio che quella lingua completamente mi invada. Lascio che parole e frasi si depositino nel fondo della mente, confidando-sperando che Il sapranno attecchire, e germogliare. Cosi, spesso, di un testo, alla si.:ascoperta, mi guida questa fiducia: che quella parola che mi ha invaghito saprà condurmi a trovare l'immagine che illumini, trovata la quale come noce, guscio, gheriglio, il testo si aprirà, e mi confiderà il segreto della sua bellezza. Impenetrabili, i tre romanzi di Fleur Jaeggy mi stanno di fronte: impenetrabili perché del piacere che questa lingua mi dà non ne so nulla. Li rileggo allora più volte. Alla lettura ogni volta mi attira una scrittura che muove la lingua ai bordi della sua inaccessibilità. orni e parole si allineano sulla pagina: li capisco, sono nella mia lingua. Pure da essi qualcosa mi separa. Cerco allora una storia. Ma non v'è una trama che io possa rimontare: come si guadagna un cammino, dopo che ci si è persi. Pure, nei meandri di quella pergini al 1375, data scelta con motivazioni storico-culturali e linguistiche che è qui impossibile riassumere. Inoltre sarà diviso in due sezioni, di cui la prima andrà sino alla fine del Duecento, condotta attraverso spogli del corpus testuale intero assai sicuri perché eseguiti su manoscritti che siano essi stessi del Duecento, cioè confezionati ad opera di copisti contemporanei ai testi. Ciò non era mai stato fatto. Il lettore si domanderà: ma perché ci sono a parte le «Concordanze della lingua poetica delle Origini» (CLPIO)? Venendo all'osso del problema, si può rispondere che nel medioevo le tecniche espressive di poesia e prosa riflettono codificazioni linguistiche assai diverse e assai salde; si tratta di «insiemi» non confondibili l'uno con l'altro, diversi tanto sull'asse culturale che su quello geografico (mai come allora ord e Sud hanno seguito strade linguistiche proprie). li lettore si domanderà ancora: e per i secoli successivi che cosa si intede fare? La proposta per ora dominante su altre è quella di costituire in Crusca una «banca dei dati», cioè di offrire all'utente la consultazione delle «memorie» della Crusca, elaborate su un grande numero di testi dal calcolatore elettronico. Ed eccoci all'atto più delicato, il passaggio dalla cultura alla tecnica attraverso l'applicazione delle più moderne metodologie scientifiche e la collaborazione del C UCE (Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico) di Pisa, a cui si devono spogli lessicali, concordanze, liste di frequenza, lemmatizzazioni e elaborazioni varie: da un lato i lessicografi, arricchiti da metodi stru11uralistici e semiotici, dall'altro gli ingegneri elettronici, dunque un'operazione interdisciplinare atta a dare frutti in entrambe le discipline così lontane come punti di partenza. Chi si reca oggi in Crusca, sia uno storico della lingua o uno scri11ore (consiglierei l'esperienza ai poeti), per consultare le concordanze della lingua poetica, aiutato sempre da Avalle e dai suoi collaboratori, fra cui la straordinaria Freja Anceschi che ha il corpus dei manoscritti tulio in testa, non solo si stupisce del razionale funzionamento dell'Istituzione, che unito allo splendore della sede gli dà l'idea di una felice oasi della ricerca, e della maggiore presenza di studiosi stranieri che italiani (!), ma è incantato dai tabulati che come vetrine gli offrono i gioielli della nostra lingua, che tanto spesso trascuriamo coltivando lo spirito linguistico standard dei rappresentanti di ditte tecnologiche O' delle «Cesire» di gaddiana memoria. Se oggi si vuole una sana politica dei beni culturali, non va dimenticato che uno di essi è proprio la nostra lingua; questo non è purismo o conservatorismo, è salvaguardia di una storica identità. Agli italianisti e agli amanti della nostra letteratura si può rivolgere un supplemento di riflessioni: i tabulati della Crusca non solo offrono, mettiamo, le concordanze del Cavalcanti, del Parini, di Montale, che sono dei fili di Arianna per girare dentro il sublime labirinto della lingua di un artista, ma Scrivere ~"" l'acqua dita - perché è un perdersi questa lettura che non capisce, e afferra solo parole, come frammenti di siderale solitudine - c'è qualcosa che salvo; ed ogni volta ritorno dalla fine all'inizio con il desiderio di provare ancora. O meglio, ancora desiderando il testo, che nella lettura ancora una volta non ho posseduto. Nella superficie qualcosa si muove che mi attira: è una parola che non dà nulla, e non porta difatti che solitudine. E non dona - lo provo - che separazione, e distanza. È tuttavia una parola che, nella sua verginale freddezza, mi costringe a sé con la forza di una presa implacabile. Perché ne accetto il peso, ne riconosco l'urgenza. Credo alla sua esigenza assoluta. Stretta a sé come una vergine questa parola emana un gelo segreto: come un riverbero della sua impenetrabilità. So che non si arrenderà mai completamente. Non mi parlerà mai di nulla: se non, vergine e narcisista, di se stessa. Cosi l'accecante trasparenza del suo manifestarsi darà a vedere soprattutto una cosa: la sua inaccessibilità. In ciò questa parola ricorda la freddezza ardente di quella forza che difende con passione la verginità dell'eroina Ehrengard; e non a caso di lei il seduttore Cazotte vuol vedere il cedimento nel rossore che, colorandole le guance, farà per l'appunto affiorare il fuoco di cui è fatta quella verginità glaciale. La stessa ossimorica disposizione è attiva nei testi che ho di fronte. Limpidi, tersi come cristallo, essi tuttavia impediscono, nascondono: tutto concentrando nella pura esteriorità di una parola intraducibile. O più esattamente, terminale: nel senso che finisce in lei ogni viaggio. Non si può viaggiare oltre questa parola, avventurarsi al di là di essa come se la parola fosse accesso, via, o semplicemente tramite. Questa parola è finale: termina in lei ogni viaggio. Con questa parola, a cui non so rispondere, posso solo corrispondere: dilatando in me il movimento di fuga che è in essa, la sua melodia, o tonalità, o apertura simbolica. Perché questa parola è assoluta. Avendo sciolto ogni legame a ciò che io lettore sarei tentato di chiamare realtà, questa parola mi espone alla tirannia della sua legge: a cui non posso che arrendermi, se in questa parola io voglio restare. Organismo ribelle ad ogni formalità cortese nei confronti del lettore, questo corpo che io chiamo testo vive precisamente in virtù della sua autosufficienza: come da molti anni ormai ogni atto di scrittura. Non più dunque, come da molti anni, una trama che dispieghi il testo, e al lettore offra il tenue appiglio di una storia. Non più un ordinato disporsi di tempi, né un'assennata teoria di personaggi. Non più eventi significativi, che configurino una saggia rel~zione a ciò che il romanzo, mettendola al suo esterno, usava denominare «realtà». Essendosi l'opera fatta, in virtù di questi mutamenti, più inafferrabile e scontrosa, il desiderio che essa suscita è tanto più ardito, e disperato. Poiché non la si trova più in nessuno dei luoghi dove prima soleva dare appuntamento, la ricerca di lei è ora passione sempre più esclusiva. Passione semplice e radicale: perché vuole dell'opera il segreto della sua origine. S e torno a leggere i tre libri è perché questa passione mi ha preso: passione che è- semplicemente - desiderio del testo. Ma questo desiderio che dell'opera vuole il segreto - quando esso non sia più le mirabilia della sua composizione formale, esse sì descrivibili; né l'esemplarità della sua soluzione in arte (artificio) di universali verità e morali, queste sì parafrasabili; né la miracolosità della sua abilità di rifrazione del reale, anch'esse certo raccontabili- quando dunque il segreto del testo non lo si possa più trovare là dove da tempo ormai gli artisti stessi ci hanno insegnato a non cercarlo, cosa farà allora il lettore? Dove incontrerà o attenderà quel segreto? E poi, in che lingua ne parlerà? Ora a me, che ho di fronte i tre libri, pare che il segreto che voglio sapere è questo: che mi si riveli quel punto vivo, pulsante, dove è intessuto l'evento (la parola) che segna l'inizio della scrittura. In modo indiretto, segreto, rilevabile come il tetragramma nella Torah solo per via di sprofondamenti mistici, quel nome, o immagine, o parola, io credo che viva nel testo come il segreto della sua necessità. E mi pare che leggere sia parte di questa avventura di ritrovamento: che è anche uno sprofondare verso quel luogo in cui l'opera si stringe in inestricabile connessione al proprio creatore, e il testo, novello mostro, impegna il suo Frankenstein nel corpo a corpo della sua nascita. Questo punto io non so come ci si arriva: pure, credo, dopo molto ascolto, di averlo trovato, in questi romanzi. Solo che non posso dirlo: posso invece trascrivere il percorso accidentato che mi ha portato li, dove credo di aver trovato un accesso. O più esattamente lì, dove credo di aver intravisto del testo il suo centro generativo: lì credo sia il segreto dell'opera. on riguarda infine ogni segreto il mistero della generazione? on è sempre ogni mistero un segreto sessuale? Che sempre ripete l'insistenza della domanda infantile: chi ha fatto il mondo? chi ha fatto me? Si può - così mi pare - di un testo, dopo attento e paziente ascolto, indovinare l'energia che lo guida a comporsi secondo una ripetuta metafora. Metafora e ossessione personale - secondo la coniugazione di Mauron - si sposano nell'opera. L'opera trova qui la sua necessità, per chi la scrive: perché risolve in superficie trame profonde di avventure interiori altrimenti invisibili. L'opera risulterebbe dunque di questa energia profonda, latente, che muove la lingua all'espressione; e poi per via di trasformazioni, e mutazioni successive quella tensione compone qualcosa da cui è inscindibile il carattere di geroglifico. Perché la superficie su cui quella energia si inscrive risulta in caratteri, prende forma di immagine, diventa parola; imponendo così a chi verso di lei si dispone il velo flessibile ed opaco della lingua che divide. ci fanno scoprire che spesso i dati tradizionali della nostra cultura non funzionano tanto bene, che la localizzazione di un testo antico è diversa, che il rapporto fra due generi letterari nel corso dei secoli va corretto, che un manoscritto antico che raccoglie rime di poeti non è solo una raccolta, ma un punto di vista critico del raccoglitore, così come non sono semplici antologie quelle odierne di Sanguinet i e di Mengaldo. Rendersi conto di tutto questo vuol dire ricevere informazioni che possono mutare il nostro punto di vista nei riguardi di molti aspetti della tipologia culturale nel corso dei secoli. Se è cambiato il modo di fare lessicografia, con il sussidio ormai indispensabile dei calcolatori e l'utilizzo da parte dell'intelligenza umana dei loro dati bruti, le conseguenze vanno lontano e investono non solo la storia della lingua e della letteratura, ma quel grande sistema semiotico di comunicazione che è la cultura. Ci si augura quindi che la Crusca non abbia più in sorte di cadere sollo l'artiglio di poteri superiori indifferenti, minaccia che in qualche momento dell'anno 1980 balenò all'orizzonte, e possa conseguire una lunga stabilità istituzionale così utile oggi alla cultura del paese. Qualcosa si può tuttavia sperare che sfugga: qualcosa come un lapsus, un tic, o un vezzo. Una traccia, che è anche un indizio. Nei romanzi della Jaeggy io incontro la parola che illumina nella ripetuta immagine dell'infanzia. L'infanzia è acerbità: trattenimento al di qua di un possibile accesso. Infanzia è qui l'insistenza perversa di uno sguardo infantile che domina il reale attraverso un solo atto: quello del diniego. e omei bambini jamesiani del Giro di vile confondono i confini tra il reale e l'irreale, e girano piuttosto la loro vita stretta alla loro menzogna, cosi che l'infanzia pienamente si rivela nel diabolico piano dello scrittore James (avvitato da sempre intorno a questo tema dell'innocenza e della corruzione) come stagione della corruzione più grande, quando la vita è cosi stretta intorno al proprio perno da non lasciar passare altro che dei fantasmi; così i bambini di Fleur Jaeggy, impudichi e perversi, stringono la loro , esistenza intorno alla presenza malefica di spettri, che divorano la loro vita, avidamente. In entrambi i casi i bambini, in perfetta simbiosi con il testo in cui abitano, si offrono come analogon della scrittura stessa. In James essi incarnano della sua arte il movimento che espone della scrittura la natura più intima: ovvero quel suo essere lo spazio sfuggente e indecifrabile di una menzogna, in cui la «fantasia» prende corpo, e svuota il reale. In Fleur Jaeggy i bambini mostrano della scri11ura un altro movimento; e cioè che essa si fa in virtù di quel gioco preliminare, in cui, tenendolo a distanza e ritardandolo, la narrazione (la «fantasia») investiga, tormenta, ispeziona, tortura il nucleo di reale, dal quale per l'appunto ossessionata, essa apre l'altro spazio, e l'altro tempo del racconto. V'è in entrambi i casi, un fantasma. La scrittura, come i bambini, ne è posseduta: essa (essi) ha (hanno) a che fare con una morte, e con degli spettri. V'è sempre, in ogni racconto della Jaeggy, «un posto vuoto, la cui «silenziosa tirannide» (Le statue d'acqua, p. 16) domina il racconto stesso. Con un allo che l'apparenta all'infelice eroe sterniano, Tris tram Shandy, anche qui il protagonista del racconto ricorre a un hobby-horse: Lung ha il dito in bocca, Jane e Rachel hanno la
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