...., di Sarastro, Einaudi, Torino, 1980. Cfr. anche Costanzo Preve, «Dopo l'operaismo», in Alfabeta, 15/16, luglio/agosto 1980), ove vengono sviluppate in più punti le analisi (in particolare cap. VI) dei limiti dei «doni» politici dall'alto e del modello politico borghese e delle sue riapparizioni camuffate, con le sue ingannevoli «garanzie», appunto, con le sue vie e varianti kantiane ed hegeliane, con i suoi sbocchi normativisti e decisionisti. La critica politica più radicale qui condotta al garantismo sta nell'individuarlo come sistema teorico a «carattere difensivo, inadeguato a fondare una strategia di cambiamento sociale» (p. 148), e nello stesso tempo vale richiamo all'esigenza che i grandi temi della filosofia politica siano esploratie la loro storia - e con essi la compatibilità di garantismo e deperimento della proprietà privata dei mezzi di produzione, sua base materiale. Q uali sono infatti le torsioni che le categorie del diritto pubblico cui la borghesia diede assetto costituzionale hanno subìto con il passaggio allo «stato dei partiti»? Una breve parentesi. L'impianto teorico dello stato borghese - vale ricordarlo - esige separatezza di società e stato, sistematizzata dai giuristi come teoria di stato-società/stato-governo (e nei manuali di diritt9 pubblico continua a boccheggiare la derivata distinzione scolastica forme di stato/forme di governo!) dalla quale discende la definizione di legge come espressione della società (e non del potere). Qui trionfa la cultura illuministica con il mito del Legislatore come fonte della legalità garantita allo stato-governo dal controllo esercitato per via di as- • semblee dallo stato-società. Certo è proprio uno schema. Ma lo schema subito salta quando la crisi del mercato denuncia conflitti d'interesse non più componibili privatamente, e lo Stato interviene nel sociale, e, di converso, competenze pubbliche passano alla sfera privata. Associazioni private, i partiti, si fanno istituzioni dello Stato, con funzione di produzione di consenso e legittimazione. In ragione di ciò i partiti perdono segno di classe e si investono- ognuno - di un presunto interesse generale (maschera di interessi_ dominanti) basilare per poter teorizzare una feticcia rappresentanza - ormai rinunciata - «nazionale» ieri, «democratica» oggi, ambedue varianti ideologiche della gestione del potere statale. È così che il sistema «democratico» dei partiti si fa centrale per la comprensione del processo di svuotamento di legalità e garanzie, e infatti le garanzie praticabili sono sempre più quelle politiche e, insieme, sempre meno quelle giuridiche. «E in questa particolarità si dimostra sempre più il ruolo oligarchico dei partiti politici italiani e sempre più si confermano le caratteristiche di regime ... l'ingresso dello stato nelle condizioni della propria illegalità». Così Paolo Pullega nella sua armoniosa analisi ( «Tackels: colpire duro», in li cerchio di gesso, sesto/settimo, novembre 1979, pp. 18-21). Legalità aveva infatti senso, nel modello liberal-borghese, come principio di sottomissione di amministrazione (non ultima quella di polizia) e giudici al «popolo sovrano» attraverso il processo di formalizzazione. È chiaro allora che legalità non sopporta aggettivi, se non, per ridondanza, «giuridica». Ma allora non è segnale da poco il fatto che i teorici autoritaristi introducano nel loro discorso, e ne facciano un punto di leva, un postulato, spesso nascosto, la nozione di «legalità democratica». È così, a parer loro, che «il tema delle garanzie ... riacquista la sua compiuta dimensione di salvaguardia della legalità democratica tutt'intera» (d. pul.= Domenico Pulitanò, «Giustizia penale, garanzie, lotta al terrorismo, in Democrazia e diritto, 3, 1979, p. 488). Suona bene «legalità democratica» ma è solo artificio che permette di dare parvenza logica al rovesciamento del principio garantistico. L'assenza di cultura storica è complice, e lo nota Pio Marconi (AA.VV., «Garantismo: la prova del fuoco» - Tavola rotonda (parti essenziali) del 14 novembre 1979, in Mondo operaio, 12 dicembre 1979, pp. 59-71) quando precisa che estendere oltre l'habeas corpus la no- ::: , zione qui discussa «ci porta indietro ~ nel tempo ad una concezione primitiva • ~ di garantismo, a quel garantismo di s; Bacone e di Hobbes ancora intriso di statalismo ... al principio secondo cui il giudice è tenuto ad agire in consonanza con l'interesse politico». La teoria della divisione dei poteri - notoriamente posteriore ai due classici ricordati da Marconi- immagina però la figura «Stato di diritto» come modello ove il garantito (ex definitione, come in ogni rapporto di garanzia, il più debole della triade, altrimenti non avrebbe alcun bisogno di essere garantito) è il «cittadino», il garante la «legge» (come legislativo) e i poteri da (contro) i quali si è garantiti esecutivo/ giudiziario. Il modello si fa grottesco all'ipotesi che i giudici vadano a farsi garantire (alias, guidare, manipolare, asservire) dall'esecutivo - o per esso dai partiti- contro il terribile e diabolico individuo. E passaggi argomentativi in tal senso sono sviluppati da Pietro Barcellona («Costituzione, partiti e democrazia», in Democrazia e diritto, I, 1978, pp. 21-31) ove viene riconosciuta la dissoluzione della fondante antitesi società-Stato, ma-sfuggendo la figura di «capitale» - si sviluppa l'ipotesi del diritto che rafforza lo Stato (modello speculare al garantista). Scomparsa la dicotomia società-Stato, e, necessariamente, accettata l'idea di riversare il sociale nel diritto (e conservata la dicotomia Stato-diritto) non v'è da stupirsi che il modello si rovesci. Ma occorre ben dire che analogo rovesciamento passa anche tra i garantisti quando, per sfuggire alle critiche che denunciano la preminenza del soggetto borghese si fa perno sul sociale asserendo che« ... non è il soggetto individuale che si pone il problema delle garanzie ma si tratta sempre del rapporto tra esplosione dei conflitti sociale e loro mediazione istituzionale» (Federico Stame, «Conflitti sociali, individuo e Stato», in Rinascita, 10, 10 marzo 1978, p. 24). Eppure, proprio contro forme di politicizzazione del giuridico, lo stesso autore aveva espresso il corretto rilievo che da due secoli «non vi è moderno teorico antidemocratico che non basi la propria elaborazione sul principio tiella situazione eccezionale» (Federico Stame, «Legalità e regole del gioco», in Quaderni piacentini, 74, 1980, p. 19). E ciò a rafforzare la risposta netta già data da Marco d'Eramo ( Garantismo: la prova del fuoco ecc., AA.VV., cit., p. 63) a quanti gridano «siamo in guerra!» D'Eramo precisa che si tratta di vero «abuso logico» quello di introdurre nozioni di «guerra» nello Stato di diritto; allora bisogna avere la chiarezza di negare il modello liberale. Il filo che va da «inique sanzioni» - retorica dell'assedio - a «emergenza»- retorica del disordine - non è spezzato. L egalità ·è categoria della cultura giuridica borghese e aggettivarla come «socialista» o come «democratica» è soffocarla nel politico. Così «legalità socialista» o «legalità democratica» sono incluse nella più vasta «legalità politica», forma abbreviata per «legalità al di fuori dalle leggi» e perciò - e logica del paradosso - «suprema». E legalità politica altro non è che la ben nota Ragion di Stato. Grazie all'ennesimo rovesciamento legalità sta per legalismo e postula principio di soggezione, la critica stessa all'Ordine - «socialista» o «democratico»-diviene quindi illegale, mentre si fa le 6 ale (legale per mero significato di uso delle leggi, forma giudiziale) colpire il dissenso. Ecco allora la nozione di «legalità democratica» che vale come principio di rapporto immediato tra esecutivo e giudiziario (e donseguentemente di esclusione del parlamento, ridotto a camera di registrazione di patti segnati in camarille e mafie) ove il collante è il sistema dei partiti elevato a tutore della categoria politica che lo sorregge e a inquisitore di democraticità. Il garantismo allora (e questo «garantismo allargato» (sic) lo si trova puntualmente elaborato dagli autoritaristi più adusi a forme culte) diviene garanzia de/l'interferenza di «soggetti sociali» (alias sindacati e partiti) nella giustizia e non più garanzia da/l'interferenza. Lo Stato «di democrazia» risulta così fondato sul non dissenso ove il démos è ristretto nel banale e nell'insignificante e dove il confine «democratico» ridefinisce la coppia legalità-illegalità con il suo carattere vuoto e arbitrario, proprio all'interno dell'universo giuridico dove infiltra vieppiù le «passioni» che la «ragione» sarebbe presunta controllare. Si produce così la giudizialità del sospetto come risonanza della crisi del potere ove si radica la teoria della doppia legalità. E oggi la doppia legalità penale fa parte del sistema vigente, i giornali ne parlano (Guido Neppi Modona, «Un diritto penale per i terroristi», in la Repubblica, 18-19 maggio 1980), come di «una sorta di diritto penale speciale con norme la cui applicazione è circoscritta a una determinata categoria di imputati: i presunti terroristi e i loro fiancheggiatori». Un diritto di pace e uno di guerra si embricano con fondazione comune nel «presumere». È chiaro che la norma (speciale) si applica spesso a imputati che sono tali solo per il fatto di essere «sospetti», e allora sarebbe più corretto dire che si tratta di norma (speciale) che si applica a chiunque (sia sospetto al potere) e perciò lo trasforma in imputato (speciale). Dice il proverbio: «Chi è in difetto è in sospetto», allora si potrebbe ben parlare del Potere Difettoso. Invece seguiamo Neppi Modona che riconosce l'esistenza di due sistemi paralleli, quello speciale contro il terrorismo e quello ordinario («Leggi speciali e nuovo Codice», ivi, 29-30 giugno 1980), come se il fatto che siano due, cioè separati, li fornisse ambedue di equidegna benché- e perché- distinta legalità! E poi ancora la stessa piroetta logica, si dà per scontato che norme di guerra colpiranno «i terroristi» come se fossero individuabili oggettivamente ex ante, Jl)entre sarà il sospetto (neppure si deve parlare di «presunzione» che diritto ha significati precisi) a far di tali norme il catalizzatore produttivo di «terroristi». Eppure è lo stesso autore che scrive nel frattempo un articolo («Lasciate in libertà gli avvocati difensori», ivi, 25 maggio 1980), ove si esprime l'esigenza che il principio - liberal-borghese - di parità tra accusa e difesa sia salvato; e ciò quando vengono ammanettati gli avvocati Spazzali e Fuga ed Edoardo Arnaldi, stoicamente (commoventi analogie si sentiranno risuonare se si legge Tacito, Annali, 61-64), si nega al potere con il suicidio. Certo, a volte i sentimenti la vincono, e questo è bello; ma se vogliamo essere logici perché non ammettere che, dati due sistemi penali, vi sia anche difesa «ordinaria» e difesa «speciale», e che gli avvocati dei «terroristi» debbano essere chierichetti, che parlino a capo chino, che invochino, al più, clemenza? È segno della confusione dei tempi. Neppi Modona, dopo il «7 aprile» chiese, sulla stampa del Pci, «rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza degli imputati» («La verità e il processo», in Rinascita, 34, 7 settembre 1979) e ciò gli valse una arrogante tirata d'orecchie di un sapiente partitico che di lì a poco sentenziò cosa vi fosse di «giusto» (cito) e di «sbagliato» (cito) nell'articolo del giurista. È l'articolo di Ugo Spagnoli («La discussione sul processo del 7 aprile e la lotta al terrorismo», in Rinascita 36, 21 settembre 1979), che arreca disagio con il suo tono di doverosità e prescrittività pedagogiche, esemplare per lo stile ecumenico dell'argomentare: «La nostra ottica supera i limiti delle garanzie processuali ... investe tutti i diritti del cittadino ... si estende alla collettività ... ». Per dilatazione (il «garantismo allargato») il problema è svuotato, il significato di «garantismo> sovvertito. I processi di Mosca, Budapest, Praga sono sullo sfondo e giocano in prospettiva con la storia dell'intolleranza, con i fumi inquisitoriali. La coppia amico-nemico, la doppia legalità si rivelano capaci di portare a conclusioni che lasciano attoniti. Si veda Marco Ramat («Il grande processo politico indiziario- Venti schede per un garantismo effettivo», in Democrazia e diritto, 6, 1979, pp. 791-808) ove si legge: «Per il garantismo e per il funzionamento delle istituzioni è necessario avere dei servizi segreti funzionanti e buoni, solo così il gigantesco processo politico indiziario, con tutti i suoi guai, non ci sarà più». Processo indiziario dunque (senza prove) e politico (senza garanzie), doppiamente negativo dunque («con tutti i suoi guai»). Nostalgia del buon tempo antico quando la «mano invisibile» faceva della giustizia affare interno della classe dominante. Ecco, allora occorre una nuova «mano invisibile», meno smittiana, più cattolica. «La democrazia, i suoi diritti, i suoi protagonisti, tutto insomma ciò che ci fa considerare liberi, ha estremo bisogno di una protezione segreta, proceduralmente scorretta, al limite illegale». Braccio secolare? Certo «doppia legalità> estrema. Il diritto si fa garante della società come metodo (è allora l'epistemologia del sociale che occorre sia garantita) e diffonde giudiziarietà ovunque, non una società poliziesca solamente, ma un tribunale diffuso, il suo rito le figure della delazione. La violenza degli apparati produce norme comunicate informalmente, l'esibirsi stesso del poliziotto come simbolo di violenza irresistibile si fa normativo. Così l'abusivo, l'arbitrario, l'oppressivo delle organizzazioni di potere si offre come tema privilegiato agli strumenti della ragione, all'analisi razionale dell'irrazionale. Un ultimo spostamento di piani viene al nostro tema da un giurista più di altri sensibile al sociale che rinvia al «controllo di un'opinione pubblica 'libera' ...ultimo baluardo ... di quel che rimane del garantismo nello Stato di ordine pubblico» (Ernesto Bettinelli, «L'affare Negri nello Stato di ordine pubblico», in Argomenti radicali, 12-13, 1979, p. 66). Ma è questo ideale che induce a riflettere sulle giovanili indagini habermasiane (e loro sviluppi), sulla morte di canali di comunicazione sottratti alla manipolazione. Il baluardo, nel caso, s'è rivelato ben debole. E Rossana Rossanda può scrivere: «Che si sia sopportato il 7 aprile e il 21 dicembre senza un sussulto, è cosa da cui si misura la temperatura non dei 'garantisti' ma di una nazione> («A un anno dal 7 aprile», in li Manifesto, 8 aprile 1980). e ome concludere? A parte una più generale riflessione sulla venuta del tempo dei «sentieri senza fine> e dell'inconcludenza, si può tentare di limitarsi a una riflessione iniziale di sapore empirico: perché l'uso di «garantismo», neologismo polisemantico, è divampato? Forse per la possibilità offerta di riannodare fili politici (se non persino partitici) e di tentare sintesi («un nuovo tipo di garantismo il cui aspetto individuale è coniugato con azione collettiva», Stefano Rodotà, «Garanzie democratiche e lotta al terrorismo> - Tavola rotonda, in Rinascita, 37, settembre I 979). Non si parla di diritti individuali (sedicenti «inviolabili»), con i quali i garantisti potrebbero farsi carico del loro rispettabile bagaglio liberal-borghese, né di diritti sociali che con i loro significati popolarsocialisti meglio si adatterebbero agli autoritaristi. Ma allora sorgerebbero i veri problemi. Come si potrebbe parlare di diritti sociali senza entrare nel problema del decisionismo statalistico, della trasformazione, sotto il manto di «legalità politica» della «legalità democratica» in «legalità socialista»? Quale posizione potrebbero prendere i giuristi che la scherniscono quando parlano di diritto sovietico (e polacco)? Nessuno potrebbe comunque nascondersi dietro il «garantismo come teoria positiva», strumento usato per tale «trasformazione». E come parlare di diritti della «persona» - della maschera - se il soggetto è divenuto punto fluttuante di un sistema di tensioni esitate da strutture inconscie e sovra personali («impersonali» come sub e super personali) alle quali dare forse solo qualche appiglio in riferimento alla devalorizzazione? Allora bisognerebbe prendere atto anche della verità che il carcere rinserra dal 7 aprile non «soggetti> di decisioni personali (con tanto di coscienza e volontà) ma simboli di rivolta. Non è ciò che hanno fatto che li condanna ma ciò che rappresentano. È oggi in questo «rappresentare> che si fonda la «responsabilità>. Responsabilità comunque rispetto al respiro lungo della storia e non all'ansimare del diritto borghese. Quali garanzie per l'individuo se la sola scelta che oggi ognuno vuole garantita è quella di individuare negli altri alleati e nemici? Tale garanzia non viene dalle leggi ma dallo slancio e dall'apertura al rischio, alla divergenza, all'infrazione. La polemica sul garantismo ha rivelato - se occorreva - l'inadeguatezza della struttura concettuale del diritto che ha operato come mera cassa di risonanza del passato, ed ha proposto il compito di oltrepassare i divieti di tutta una struttura logica rarefatta. Rinuncia dunque all'uomo cartesiano, abbandono dell'illusione giuridica, elaborazione di una teoria del distacco.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==