11dibattito sul garantismo, del quale qui ora si vuol solo dare una rassegna - seppure percorsa da una riflessione che anticipi elaborazioni future-quasi bibliografica, si è sviluppato a partire dal 1977, anche se lungo strada ha subito significativi mutamenti di segno. Fu per un paio d'anni- sino al «7 aprile», appunto-individuato da un continuo richiamo, da parte dei garantisti, alla legalità, in polemica ufficiale con gli abusi del potere ma anche tenendo nel mirino i «violenti». E dopo puntò contro la violenza delle istituzioni, che si rivelava quella più grave e minacciava, e ammoniva colpendo bersagli esemplari. Un suono di confusione percorre tutto il discorso, e per ricondurlo a una linea di lettura che non sia una rete ove si resta impigliati occorre risalire, passo passo, per il dibattito. I garantisti da un lato, gli autoritaristi (in concreto quasi tutti giuristi dell'area Pci) dall'altro, schieramenti frontali e speculari. Gli autoritaristi, quando veleggiavano con allegria domenicale spinti dal vento del «compromesso storico», patentavano i garantisti come «intellettuali estremisti» latori di «settarismo ideologico» (Domenico Pulitanò, «La funzione coercitiva-garanzie giuridiche e democratizzazione degli apparati», in Democrazia e diritto, l, 1978, pp. 139-157), figurarsi poi dopo quando parlare di «garanzie individuali» valeva intralciare il disegno di fare terra bruciata a sinistra della sinistra. Si vede lo stile. Una domanda allora, cosa si intenda - almeno in primo approccio - per «garantismo» s'è cosi terribile spettro per l'establishment. Diciamo ch'è usato per dare un set di diritti ( «inviolabili», si dice) del cittadino specialmente in riferimento al processo penale e alle amministrazioni delle polizie, principio di legalità visto a parte subjecti. E i suoi contenuti sono abbastanza noti, quindi ci bastino accenni senza pretendere all'elenco: diritto alla difesa (senza il rischio per gli avvocati di finire in galera), tutela della libertà personale (e non sequestri di persona) che vuol dire, tra l'altro, privazione di questa solo dopo un processo (e non carcerazioni «preventive» che sono imbastigliamenti), giudice naturale precostituito (e non giudici ad hoc preconcetti), presunzione d'innocenza (e non, viceversa, onere di dare spiegazioni e giustificazioni e alibi e prove in negativo), determinatezza delle fattispecie penali (e non figure di reato vaghe e/o ambigue). Il tutto sembra ovvio ma è invece gravido di problemi, e lo si comprende a riflettere sul ruolo centrale che la nozione di cittadino/individuo svolge, e che può spiegare, alla fine, le ragioni profonde del blocco in cui garantisti (e autoritaristi) si sono trovati. Il dibattito insinua sin dalle prime battute il dubbio che i fronti polemici siano prigionieri di un comune fantasma, che indicherei nella figura del soggetto, l'uomo essenzialistico e astorico del diritto, riflesso dell'antropologia borghese. Il diritto borghese incorpora - quasi suo scheletro - l'uomo cartesiano, diviso, che subordina ed è subordinato, che giudica ed è giudicato, uomo-ragione che diffida dell'uomo-emozione, spinto dal timore dell'ombra oscura di sé a proporre l'illusione di un diritto-ragione che padroneggi lo Stato-violenza. Allora la violenza, mai dominata proprio perché separata, prende la sua rivincita ponendosi come termine primo e ultimo del diritto. Il terreno è comune c la speranza di uscire dal labirinto delusa se i percorsi non vengono lacerati. Dunque ecco i limiti di questo dibattito - e la sua debolezza politica, i confini di un'antropologia cartesiana e borghese che si risolvono in un dualismo irriducibile a sintesi: corpo e anima, materia e spirito, estensione e pensiero, essere e dovere, stato e diritto. La sintesi non si può dare e allora per via di assolutizzazioni e di ipostasi il diritto è presentato come fenomeno razionale, ordinatore di violenza in Garantismo forza - e perciò ordinato - e regno illuministico di soggettività. Non solo, tale antropologia ha contagiato, con il virus dell'Aufklarung, l'ortodossia marxista, e cosi posizioni che vorrebbero essere fedeli al materialismo dialettico si rivelano affezionate a un legalismo della ragione che non si slaccia dall'Ottocento. Una domanda comunque s'impone, quale senso abbia assumere garanzie giuridiche a centro di problema, cosa resti (travolto che sia - come è - _il modello liberalborghese) del valore, sia pure ideologico, delle garanzie di libertà. E come salto di qualità çhe chiude il dibattito (e ne apre uno ben più importante e difficile) è da prendere a indicatore l'articolo di Umberto Eco («Che genere di lupi?», in Alfabeta, numero 15/16, luglio/agosto 1980, p. 3) in quanto obbliga a pensare il tema della «libertà in un universo tecnologico in cui tutte le opinioni circolano in ritmo diverso che nel settecento, e raggiungono tutti gli strati sociali», in quanto obbliga a forme di pensiero che della dialettica materialistica conservino il cuore e non le parvenze. E il rapporto linguaggio-oggetto allora viene a emergere. I nfatti altra spia di un terreno comune (e arretrato) ai protagonisti del dibattito sul garantismo è il problema del rapporto che il linguaggio istituisce con il suo oggetto, proprio in quanto problema da essi evaso. Nel caso il linguaggio è sempre rappresentativo di normatività e svela l'omogeneità di una forma di pensiero metafisico che «descrive» i confini delle garanzie in termini concettuali come un sistema di elementi-dati, esterni. Non si riflette sul carattere interpretativo/ imperativo del parlarne, sulla fine incombente nella nostra cultura - e sui suoi riflessi nel giuridico - della metafisica contemplazione autoritaria di obiettività e certezza. Il discorso normativo può essere radicale solo in quanto pratichi la sua fondamentalità, sia istigazione nel fatto dell'uso stesso della parola. E nell'ortodossia della tradizione giuridica l'istigazione all'ossequio e alla conservazione per astrazione del reale è occultata dietro il parlare di normè (e ben si comprende l'essenzialità epistemologica della dicotomia esseredovere a fondazione della teoria giuridica, e la sua ineliminabile dipendenza dall'universo di pensiero borghese, e la necessità - se rottura si vuole - di passaresuterreniqualiquellosuggerito da Eco), e ciò per - e da ciò la - «scientificità», prescritta e prescrittiva, teoria come contemplazione di essenze normative. Così parlare di norme (e le garanzie sono tali) è dicere jus, prescrivere, e gerarchizzare, ove gerarchia è tracciata dai fatti. La lezione negriana de li dominio e il sabotaggio. ricerca di un diverso modo del discorso sulle norme, sembra progetto troppo avanzato. Cesare Donati E qui invece, nel dibattito sul garantismo, si resta arroccati alla contrapposizione di Stato e diritto, più indie- ·tro dello stesso Kelsen, e si continua a sentire una nota stonata, che viene dallo strumento, il tradizionale «sapere giuridico», barriera alla riflessione sulle coordinate di campo, possibilità e scelta, categorie di nuova ragione sociale. Si riflette il dualismo borghese, e allora o lo Stato si fa etico e pedagogico - e il partito sua anima perversa - o il diritto si ricollega alla morale - e sono varianti neokantiane e giusnaturalistiche. La contrapposizione Stato-diritto è già di per sé, in quanto contrapposizione, atto di dominio, che se non cale per gli autoritaristi, fautori di dominio politico «autonomo». (rectius, portatori d'interessi di burocrazie partitiche sindacali - parallele a quelle statuali e manageriali) ha invece peso per il pensiero garantista. Non solo, anche sulla struttura interna di dominio che il garantismo comporta occorrerebbe riflettere, sulla logica di gradi, di subordinazioni, di limitazioni ove norme garanti presiedono a norme garantite. Riflettere sulla dimensione di «restaurazione» che è perno dei temi garantistici, e sulla nozione di «decadenza», suo logico sottinteso: la condizione non decaduta, nel caso, s'identifica con il liberalismo borghese. E tutto questo riconduce al tema della perfezione anteriore e originaria, quella del libero mercato come fondamento. Sembra divagazione questa introduzione, ma è resa necessaria dal peso dato nel dibattito alla contrapposizione: più diritto e meno Stato (i garantisti), più Stato e meno diritto (gli autoritaristi). E il rigido contrapporsi aveva già fatto dubitare che il tema garantistico valesse solo come epifenomeno e che era invece nell'uso del diritto fatto nelle dinamiche sociali che si collocava il problema (cfr. Romano Canosa, «Sistema giuridico tra garantismo e istituzionalismo», in Quaderni piacentini, 67-68, I 978, pp. 11-32). Cosl proponeva di spostare la discussione su altro piano. E merito di Canosa è anche questo suo essersi esposto a parlare di giusnaturalismo («Il garantismo oggi», in Quaderni piacentini, 72-73, 1979, pp. 35-5 I) e di avere espresso una «necessità di una sorta di nuovo giusnaturalismo attraverso cui passino le esigenze e i bisogni insoddisfatti delle masse», proponendo il «problema della costruzione permanente di una nuovanormatività». E mentre il garantismo maschera elementi di giusnaturalismo avviene che Canosa individui lo sbocco del processo di riflusso della dottrina giuridica dello Stato (tempo alto della civiltà borghese) nel giusnaturalismo, sintomo di gracilità borghese, fase di «ritorno». Egli si libera della zavorra dei diritti pubblici soggettivi e risale dalle acque fonde della teoria giuridica alla superficie della ragione dove flottano i diritti dell'uomo. Ma il quesito si ripropone: quale uomo? E l'illuministica ragione non riconduce alla pania di una nuova «natura» modellante, la società intesa come principio di ordine? Certo il tema qui proposto, quello della «costruzione permanente di una nuova normatività» lascia spiragli aperti su destrutturazione e flussi e si promette al problema della crisi della ragione giuridica. M a non è più nel mito dell'ordine - natura e/o ragione - che si • può trovare significato e progetto. Infatti la continuità si rivela pericolosa: «Il garantismo muta di segno: da sistema di garanzie delle libertà individuali e del dissenso diventa sistema di garanzie di sicurezza, a tutela non più dei cittadini ... ma dello Stato e delle sue 'democratiche' istituzioni contro il dissenso e l'opposizione dei cittadini.» Così Ferrajoli («Esiste una democrazia rappresentativa?» in L. Ferrajoli e D. Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano, l 978, p. 56) che è oggi il più elaborato teorico del garantismo e che dopo il «7 aprile» ha ribadito le sue posizioni («L'infausto abbecedario della scolastica terzinternazionalista», in il Manifesto, 24 luglio 1979) in risposta a Rossana Rossanda («Perché non sono più 'garantista'», ivi, 17 luglio 1979) la quale, dopo avere riaffermato il suo garantismo meramente processuale ne aveva negato però l'uso politico, c'è da credere nella cautela di evitare di trovarsi- con tale uso politico - gomito a gomito con i teorici della «legalità democratica». Pochi giorni dopo il giornale ospita ll!III 1Wi/J un articolo che ricostruisce il quadro individuando uno dei possibili aspetti del problema centrale, scritto da un magistrato, Giancarlo Pellegrino («Il garantismo non è né una prassi proces, suale né una teoria istituzionale. Ma un modo (tradizionale) di intendere il rapporto tra diritto e politica», ivi, 5 agosto 1979) che espone la tesi enunciata nel titolo e precisa che il garantismo «ha un senso se s'ipotizza un'oggettività .del quadro normativo» ma che «proprio questa oggettività non esiste» cosicché la rottura dello schema di separazione tra politico e giuridico che il modello borghese esige e che le pratiche cosiddette alternative del diritto (i pretori d'assalto!) avevano incrinato viene ad essere recuperato nella non separazione tra diritto e partito,inbellaconvivenzacon il capitale. Questo rilievo non è trascurabile, e di ciò a tra poco sub «legalità». Torniamo all'«opuscolo» feltrinelliano di Ferrajoli e Zolo per ricordare che quest'ultimo, nel saggio «Democrazia corporativa, produzione del consenso, socialismo» (pp. 67-101) dà per «prioritario il recupero rivoluzionario della tradizione garantistica ... la fondazione di un garantismo tardocapitalistico» come risposta al nuovo sisterna di potere. La proposta ci sembra poco pertinente, non foss'altro che per il suo essere tutta sovrastrutturistica, foriera di rischi di ricaduta in giusnaturalismo occulto e legalità politica. Ma il garantismo oggi sembra altro, appello alla tutela delle minoranze, seppure poco proponibile in tempi di deperimento della dottrina politica dell'opposizione, o, ancor più riduttivamente, del principio d'eguaglianza. Forse occorrerebbe riesplorare la base materiale per orientarsi meglio, e ricorrere ad analisi storiche per vedere nel garantismo il momento conclusivo - e di compromesso - di una lotta di classe che aveva proclamato vittorie e sconfitte ed esigeva una sintesi (in patto - costituzionale - sancita, appunto) che facesse riprendere il cammino con reciproche garanzie. Ciò servirebbe a far chiarezza; e in tale direzione si muove Antonio Negri quando, dal carcere, nell'estate 1979, scrive: «li garantismo è la stessa cosa del costituzionalismo, considerato prevalentemente dal punto di vista delle procedure» («Per un garantismo operaio», in Critica del diritto, 15, p. 18) e chi conosce il pensiero negriano in merito al costituzionalismo, del quale in garantismo è definito come sottoinsieme, ormai paravento di subordinazione al governo di legislativo e giudiziario, non può avere molti dubbi; ma, semmai, una certezza, che la critica di Negri allo «stato dei partiti» è stata profetica. Di questo diremo fra poco, ora ancora uno sguardo alla letteratura garantista, per ricordare che esiste anche una letteratura sulla letteratura, le recensioni dell'«opuscolo» Ferrajoli-Zolo. Eleonora Fiorani Leonetti «apre» al vero problema («Nuova sinistra e classici», in Alfabeta, 3/4, luglio/agos.to I 979) tentando il terreno con riserve sullo «azzeramento di fondo della politica proletaria» che i garantisti operano e arrivando infine alla critica che colpisce il -loro impianto teorico con questo esergo: «Secondo Illuminati gli autori procedono ... a una nuova fondazione antropologica del marxismo in cui sostituiscono ai rapporti di produzione 'la costituzione trascendentale dei soggetti'; con ciò la loro posizione presenta accanto al merito di una polemica rivelatrice, un carattere contraddittorio». Il riferimento è alla precedente recensione di Augusto llluminati («Democrazia autoritaria e neogarantismo», in Monthly Review, febbraiomarzo 1979, pp. 42-45) con la quale il discorso sale insù, prende una folata di vento e si colloca in alto. Eccone il cuore: «Il neogarantismo italiano per un verso accentua alcuni caratteri giusnaturalistici (Stame), l'assoluta autonomia del soggetto presociale e supersociale rispetto alla società politica, per altro (Zolo) radica questo orientamento in una nuova 'naturalità' che è quella dei bisogni frustrati dall'emancipazione borghese ... (la sua) fondazione antropologica (gli) dà un contenuto preciso ... la tutela degli spazi di autonomia dei nuovi soggetti sociali e dei nuovi bisogni che si risolve (Donolo) in democratizzazione dei processi decisionali e deistituzionalizzazione di ambiti di vita». Quello che è messo in evidenza è la ..., contraddizione interna che il garanti- "' smo oggi reca seco, una certa sua de- .s crepitezza, la rivendicazione dell'indi- ~ viduo astratto. «L'individuo prodotto ~ con lo Stato si salva in esso (e cade con ~ esso)» e se a tale nesso di soggettività si aggiunge che «la legge aderisce a 1( ogni forma di statualità borghese, il .; suoprimato è identitàcon loStato»,si -~ vede quanto vi sia d'illusione edipica ~ nell'appello del fanciullo cittadino alla 1( materna legge contro il severo Stato: .; la loro connivenza-convivenza è indis- _ ~ solubile. Perciò «la rivendicazione li- g bertaria del neogarantismo è, in tali ::; termini, contraddittoria». .; E chi vuole approfondire l'analisi ha l: oggi a disposizione, per un più ampio 1; quadro, l'ultimo libro dello stesso au- <l:!, . tore (Augusto Illuminati, Gli inganni <i
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