Alfabeta - anno II - n. 19 - nov.-dic. 1980

costituito dalla risposta alla lettera di un «giovane studente» - è (anche) un non-essere-più o un non-essere-ancora. Ebbene, in relazione alla proposizione che dice: «Quando il cerchio era quadrato ...», è certo che risponderemo tutti che non può esserci un tempò in cui il cerchio era (o sarà) quadrato. E risponderemo così anche a proposito della proposizione che dice: «Quando il sole era la luna». Anche in questo caso diremo: «Non può esserci un tempo in cui il sole era (o sarà) la luna». Qui la nostra suscettibilità rispetto all'impensabile e all'assurdo è sveglia, avverte cioè immediatamente la contraddizione che consiste nel pensare un tempo in cui il quadrato è stato, o sarà, cerchio; un tempo in cui il sole è stato, o sarà, luna. Ma questa sensibilità, questa immediata capacità di percepire la presenza dell'assurdo ci manca-e questo ci vuol dire: manca a noi in quanto abitatori dell'Occidente-in relazione a quest' altra proposizione: «Quando la nostra giornata di oggi ancora non esisteva o 11011esisterà più ...»; oppure a questa: «Quando un ente qualsiasi non era, o non sarà più ...». Ormai, per «tutti noi» è fuori discussione che la realtà è storica: non ci sono più dèi, non ci sono più immutabili; quindi tutte le cose sono ciò che _Platone diceva a proposito di quel settore della realtà che è il metaxy (!'«intermedio») tra il pantelòs on, !'assolutamente essente, e il medamé on, il nihil absolutum: il metaxy è il metékon tou éinai te kai 1011me éinai, ossia il «partecipante dell'essere e del non-essere»; oscillante (il termine heideggeriano che nomina l'oscillazione dell'ente -Schwanken - è assolutamente platonico) tra il niente e l'essere. Tutte le cose sono oscillanti: nascono, cioè vengono fuori dal niente (sia pure in certa misura, e non totalmente: in quella misura specificata, per esempio, dalla teoria aristotelica sul divenire); e tornano nel niente. Questa è la convinzione di «tutti noi». Se non siamo d'accordo, è perché non sono stato capace di farmi capire; ma se esprimessi meglio ciò che vado dicendo, «tutti» (a parte quanti ancora si appellano alla tradizione cuiL a questione del nichilismo non mi pare, almeno principalmente, un problema storiografico; semmai è un problema geschichtlich nel senso della connessione che Heidegger stabilisce tra Geschichte (Storia) e Geschick (Destino). Il nichilismo è in atto, non se ne può fare un bilancio, ma si può e si deve cercare di capire a che punto è, in che cosa ci concerne, a quali scelte e atteggiamenti ci chiama. Credo che la nostra posizione nei confronti del nichilismo (che significa: la nostra collocazione nel processo del nichilismo), si possa definire mediante il ricorso a una figura che compare spesso nei testi di Nietzsche, quella del «nichilista compiuto». Il nichilista compiuto è colui che ha capito che il nichilismo è la sua (unica) chance. Quel che ci accade riguardo al nichilismo è, oggi, questo: che noi cominciamo ad essere, a poter essere, nichilisti compiuti. Nichilismo significa qui ciò che esso significa per Nietzsche nell'appunto che sta all'inizio della vecchia edizione del Willezur Macht: la situazione nella quale l'uomo rotola via dal centro verso la X. Ma nichilismo in questa accezione è anche identico a quello definito da Heidegger: il processo nel quale, alla fine, dell'essere come tale «non ne è più nulla». La definizione heideggeriana non concerne solo l'oblio dell'essere da parte dell'uomo, come se il nichilismo fosse solo la vicenda di un erramento, di un inganno o autoinganno della conoscenza, contro cui si possa far valere la solidità pur sempre attuale e presente dell'essere stesso, «dimenticato» ma non dissolto né scomparso. Né la definizione nietzscheana né quella heideggeriana riguardano soltanto l'uomo, su un piano psicologico o sociologico. Anzi: che l'uomo rotoli via dal centro verso la X è possibile solo perché «dell'essere come tale non ne è più nulla». Il nichilismo concerne turale dell'Occidente) saremmo d'ac-· cordo nel dire che la realtà è storica, che non ci sono immutabili. «Storica». Che cosa vuol dire questo termine? Vuol dire: la realtà è un essere- necessariamente - compromessa con l'essere e con il non-essere; è una combutta tra questi due, dove le cose non si lasciano catturare definitivamente né dall'essere né dal non non-essere, e quindi, appunto, oscillano tra l'uno e l'altro. È in relazione a questa condizione che Heidegger parla di «gioco». Anche il concetto heideggeriano di «gioco» è essenzialmente platonico. Nel finale del libro V della Repubblica, Platone parla dell'epamphoter(zein, ossia dell'epf ta amph6tera er(- zein delle cose, ossia del loro «essere contese dai due», «essere indecise tra i due», «oscillare tra i due» -e dal contesto si vede che« i due» sono appunto l'essere e il niente con i quali la cosa gioca. Il «gioco» heideggeriano non è nulla di diverso, per quanto riguarda il contenuto dell'Ereignis (ossia dell'«evento») dall'epamphoter(zein, ossia dall'oscillare; ha per contenuto l'oscillazione che porta le cose fuori dal niente, nell'essere, e poi le riporta nel niente. Questa situazione implica, allora, inevitabilmente la possibilità di parlare di un tempo in cui le cose ancora non erano, e di un tempo in cui le cose non saranno più; cioè di un tempo di cui si possa dire: «Quando le cose (che ora sono) non erano»; oppure: «Quando le cose (che ora sono) non saranno più». Ma, stiamo dicendo, quella sensibilità per l'assurdo, che noi abbiamo quando escludiamo di poter accettare l'espressione «Quando il cerchio è quadrato», quella sensibilità che ci fa dire che non può esserci un tempo in cui il cerchio è quadrato, ci manca - manca a noi in quanto abitatori dell'Occidente-quando siamo beati della beatitudine di Musil, cioè quando diciamo: «Quando una cosa era (o sarà) niente» («Prima che essa fosse», «Quando essa non sarà più»); o «Quando io - ognuno di noi può dirlo - ero niente» (Ognuno di noi, cento anni fa, non era. Ci saranno state le condizioni biologiche che preparavano la sua esistenza; o ci sarà stata la sua anima nella mente di Dio. Ma questa irripetibilità, questa specificità che costituisce ognuno di noi in quanto attualmente esistente, questa specificità, cento anni fa era un niente: perché se anche questa specificità, cento anni fa, ci fosse stata, allora anche ognuno di noi, cento anni fa, ci sarebbe già stato: nella specificità, appunto, che attualmente lo costituisce. Ognuno di noi nasce, proprio perché in lui c'è qualcosa che era niente). Così, quando diciamo: « oi morremo», vogliamo dire proprio questo: che resteranno certo molte cose di noi, ma qualcosa sicuramente non resterà, diverrà niente. È in relazione a questa ·situazione che si costituisce la proposizione: «Quando una cosa era niente ...», oppure: «Quando una cosa sarà niente ... ». Ma, inoltre, «noi» 11011imendiamo assolutameme rinunciare alla differenza tra la proposizione: «Quando il niellte era (o sarà) niente»,e la proposizione: «Quando io ero (o sarò) niente». Se avessimo il tempo di capirci, «tutti noi» risponderemmo che c'è una differenza insopprimibile tra il dire: «Quando il niente era (o sarà) niente» e il dire «Quando una cosa era (o sarà) niente». Abbiamo detto: «Quando una cosa era niente». Ma «cosa» significa appunto «non-niente»: una cosa è un non-niente. Dice Platone nel Sofista, usando il pronome indefinito ti (aliquid) per indicare «cosa»: «Questa espressione ti (to ti tanto rema) ep'onti legomenekastote: la riferiamo sempre ep'on (epl to on): la riferiamo sempre all'ente». A partire da Platone, non si può parlare di «cosa», se non in relazione al suo.non-esser-niente. Le cose sono i non-niente. E siamo così giunti al punto, col quale innanzi tutto dovrebbe cimentarsi ogni critica dei miei scritti: pensare un tempo in cui le cose non sono, significa pensare un tempo in cui il 11011-nientèe niente. Cioè, significa pensare il tempo dell'assolutamente assurdo, dell'assolutamente titopon - ossia dell'assolutamente «senza-luogo», giacché l'assurdo è ciò che non può trovare alcun luogo nell'essere. L'assolutamente titopon è pensare che il mondo che ci sta davanti sia un niente: appunto perché, pensando il tempo in cui il nonniente (il mondo-, e tutto ciò di cui si può dire: cè») è niente, si è persuasi che l'ente sia niente, e si vive e si costruiscono le civiltà conformemente a questa persuasione. Questo è il significato del nichilismo. Il significato essenziale del nichilismo, l'esser convinti che le cose che ci stanno davanti siano niente, è implicato con necessità dall'affermazione che la realtà è storia. Ma non è necessario che questa affermazione divenga l'affermazione che tutta la realtà è storia. Basta affermare - come faceva Platone- che c'è unmetaxy tra l'immutabile e il nulla che ha carattere storico; basta affermare che alcune cose (ad esempio, il mondo) divengono (cioè: prima erano niente, e poi sono niente) perché questa affermazione implichi con necessità l'affermazione che le cose sono niente (Ci penserà poi la coerenza interna del nichilismo a distruggere ogni immutabile e ogni dio). A bbiamo accennato al decisivo (ma un accenno al decisivo non può mai lasciar apparire la qualità autentica del decisivo). Ma siamo anche a metà strada. C'è infatti, nel decisivo, un ulteriore tratto che non ho mai visto discusso da coloro che tanto amabilmente hanno trattato le mie cose. Infatti, a questo punto si potrebbe dire: «Si, certo, allora le cose sono niente. E perché non dovrebbero essere niente?» Si tratterebbe, allora, di scegliere tra due tipi di umanità, il primo dei quali vuole che le cose siano niente, e il secondo invece protesta che le cose non sono un niente? Di fatto, l'Occidente, essendo convinto che la realtà è storia, è anche convinto che la realtà è niente. Ma perché questa affermazione negativa? Perché l'assurdo non può trovare alcun luogo nell'essere? So bene che, dato il livello della nostra cultura, chi ritenesse che l'Occidente è la convinzione che l'ente è niente, potrebbe anche ritenere di non aver bisogno di nient'altro per porre la negatività del nichilismo. Ma la filosofia autentica è esigente. Non basta, cioè, mostrare che l'Occidente è la convinzione che le cose 2. l'uomorotolavia anzitutto l'essere stesso; anche se questo non va accentuato come se significasse che, dunque, esso riguarda ben più, ben altro che «semplicemente» l'uomo. Anche circa i contenuti, i modi di manifestarsi, del nichilismo, le tesi di Nietzsche e quella di Heidegger concordano, di là dalle differenze di impostazione teorica: per Nietzsche tutto il processo del nichilismo è riassumibile nella morte di Dio, o anche nella «svalutazione dei valori supremi». Per Heidègger, l'essere si annichila in quanto si trasforma completamente nel valore. Questa caratterizzazione del nichilismo è congegnata, da parte di Heidegger, in modo da includere anche Nietzsche, il nichilista compiuto; anche se per Heidegger sembra esservi un possibile, e desiderabile, al di là del nichilismo, mentre per Nietzsche il compimento del nichilismo è tutto ciò che ci dobbiamo aspettare e augurare. Heidegger stesso, da un punto di vista più nietzscheano che heideggeriano, rientra nella storia del compimento del nichilismo; e il nichilismo sembra essere proprio quel pensiero ultrametafisico che egli cerca. Ma tutto ciò, appunto, è il senso della tesi secondo cui il nichilismo compiuto è la nostra unica chance ... Intanto, però: che significa che la definizione nietzscheana e quella heideggeriana del nichilismo coincidono? Per l'uno, morte di Dio e svalutazione dei valori supremi; per l'altro, riduzione dell'essere a valore. Sembra difficile vedere la coincidenza fino a che si insiste sul fatto che, per Heidegger, la riduzione dell'essere a valore pone l'essere in potere del soggetto che «riconosce» i valori (un po' come il principio di ragion sufficiente è principium reddendae rationis: la causa funge come tale solo in quanto è riconosciuta dal soggetto cartesiano). Nichilismo sarebbe quindi, nel senGianni Vattimo so heideggeriano, l'indebita pretesa che l'essere, invece di sussistere in modo autonomo, indipendente e fondante, sia in potere del soggetto. Ma non è probabilmente questo il significato ultimo della definizione heideggeriana del nichilismo che, isolata in questi termini, finirebbe per far ritenere che Heidegger voglia semplicemente rovesciare il rapporto soggetto-oggetto a favore dell'oggetto (cosi legge Heidegger Adorno nella Dialettica negativa). Per capire adeguatamente la definizione heideggeriana del nichilismo e vederne l'affinità con quella di Nietzsche, dobbiamo attribuire al termine valore, che riduce a sé l'essere, l'accezione rigorosa di valore di scambio. Il nichilismo, cosi, è la riduzione dell'essere a valore di scambio. Come coincide questa definizione con il «Dio è morto» e con la svalutazione dei valori supremi di ietzsche? Lo si vede se si bada al fatto che anche per Nietzsche non sono spariti i valori tout court, ma i valori supremi, riassunti appunto nel valore supremo per eccellenza, Dio. Tutto ciò però, lungi dal togliere senso alla nozione di valore - . come ha ben visto Heidegger- la libera nella sua potenzialità vertiginosa: solo là dove non c'è l'istanza terminale e «interruttiva», bloccante, del valore supremo-Dio, i valori si possono dispiegare nella loro vera natura. che è la convertibilità, e trasformabilità/processualità indefinita. Non si dimentichi che Nietzsche ha elaborato una teoria della cultura in cui, «con la conoscenza dell'origine, aumenta l'insignificanza dell'origine» (Aurora), in cui cioè la cultura è tutta nelle trasformazioni (rette da leggi di spostamento, condensazione, sublimazione in genere); se si vuole, in cui la retorica sostituisce completamente la logica. Se seguiamo il filo conduttore del nesso nichilismo-valori, diremo che, nella accezione nietzscheanoheideggeriana, il nichilismo è la consumazione del valore d'uso nel valore di scambio. Non che l'essere sia in potere del soggetto è il nichilismo; ma che l'essere si sia completamente dissolto nel discorso del valore, nelle trasformazioni indefinite dell'equivalenza universale. e he cosa ha opposto, o anche: che cosa ha risposto la cultura novecentesca a questo avvento del nichilismo? Sul piano filosofico, alcuni esempi mi sembrano emblematici: il marxismo nelle sue varie declinazioni teoriche (con l'eccezione, forse, del marxismo strutturalista di Althusser) ha sognato il recupero, sul piano pratico politico prima che su quello teorico, del valore d'uso e della sua normatività. La società socialista è stata pensata come quella in cui il lavoro si libera dei suoi caratteri alienati perché il prodotto di esso, sottratto al circolo perverso della mercificazione. mantiene con il produttore un rapporto di fondamentale riconoscibilità (ma quando più questa disalienazione del lavoro si sforza di sfuggire all'idealizzazione della produzione artigianale e «artistica», tanto più deve definirsi in termini di complesse mediazioni politiche, che finiscono per renderla problematica, svelandone alla fine il carattere mitico). Al di fuori della prospettiva dialettica, e dunque totalizzante, del marxismo, la grande discussione, che ha segnato la filosofia del novecento, sulle «scienze dello spirito» contrapposte alle «scienze della natura», sembra anch'essa rivelare un atteggiamento difensivo di una zona in cui viga ancora il valore d'uso, o comunque che si sottragga alla pura logica quantitativa del valore di scambio - logica quantitativa che regge per l'appunto le scienze delsiano niente: nella testimonianza del senso autentico della ecessità appare insieme il senso autentico del negativo. Il negativo è la negazione della Necessità. È ecessità che la negazione della ecessità sia autonegazione. Solo questa negazione è autonegazione. Quindi solo la Necessità non è volontà di potenza. L'autonegazione della sua negazione lascia nel cuore di ogni cosa, dove non trova alcuna resistenza su cui imporsi: la Necessità è il cuore di ogni cosa. Oggi tutta la «nostra cultura» si è liberata dal peso di ogni «necessità» (strutture e nessi immutabili, verità definitive e incontrovertibili, assoluti e déi): e, certamente, è Necessità che l'Occidente distrugga ogni «necessità» da esso evocata. Ma le «necessità» dell'Occidente sono le necessità che crescono all'interno della convinzione che le cose siano niente. Sono le «necessità» del nichilismo. Stanno nella lontananza estrema rispetto al senso autentico della Necessità. Nell'implicazione necessaria tra l'affermazione della storicità del mondo e l'affermazione della nientità delle cose, la Necessità appare col senso che le compete in quanto essa si apre al di fuori della storia del nichilismo. Le e necessità» del nichilismo sono padroni che esercitano la loro potenza sui servi. I servi sono i vari modi in cui si presentano le cose, nella cui storicità (nel cui epamphoterizein) si ha fede. «La storia è fatta dai servi», nel senso che è inevitabile che i servi si liberino dai padroni. Ma al di fuori dell'alienazione del nichilismo, la Necessilà non è un padrone, perché è l'apparire dell'impossibilità dell'esistenza di ogni servo e quindi di ogni padrone; ossia è l'apparire della Necessità che ogni cosa se ne stia presso il suo «è», non disposta a divenire preda delle forze che si propongono di trascinarla fuori dal niente e di ricondurvela. Prede, le cose Io diventano solo all'interno del sogno in cui quel proposito consiste. All'interno del sogno che sogna l'impossibilieall'interno del tentativo che tenta l'impossibile. Questo testo è la semplice trascrizione dell'intervento di Severino, revisionato da/l'autore. la natura, le quali si lasciano sfuggire l'individualità qualitativa dei fatti storico-culturali. (Ma già nella centralità che, per le scienze dello spirito, acquista il problema dell'interpretazione, nella sua dipendenza dal linguaggio, è aperta una via per gli esiti nichilisticialmeno tali paiono a me - dell'ermeneutica più recente; il che significa anche: non è un caso che proprio attraverso gli sviluppi ermeneutici del pensiero di Heidegger il nichilismo si imponga come !'(unica) chance del pensiero contemporaneo). li bisogno di andare oltre il valore di scambio, nella direzione del valore d'uso che si sottrae alla logica della permutabilità, è dominante anche nella fenomenologia (almeno dal punto di vista che qui ci interessa) e nel primo esistenzialismo, anche dunque in Sein und Zeil. Fenomenologia e primo esistenzialismo ma anche marxismo umanistico e teorizzazione delle «scienze dello spirito» sono manifestazioni di un filo conduttore unificante un largo settore della cultura europe.i - che potremmo anche individuare come caratterizzato dal «pathos dell'autenticità»; cioè, in termini nietzscheani, dalla resistenza al compiersi del nichilismo. A questo filone è stata di recente annessa anche una tradizione che finora, in molte sue manifestazioni, era apparsa come alternativa, quella che partendo da Wittgenstein e dalla cultura viennese dell'epoca del Trac1a111s, si sviluppa poi fino alla filosofia analitica anglosassone. Anche qui, almeno nella misura in cui si accentua «il mistico» wittgensteiniano, siamo di fronte allo sforzo di isolare e difendere una zona ideale del valore d'uso - cioè un luogo dove non valga la dissoluzione dell'essere nel valore. Ma la riscoperta del «mistico» wittgensteiniano, riscoperta che ha avuto un peso culturale decisivo, in sensi diversi, per la cultura italiana (il dibat-

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