Cfr. I libri, le riviste, le mostre, gli spettacoli, la musica. Da questo numero, Alfabeta propone una nuova rubrica di brevi interventi critici al servizio del lettore. Un filo di Arianna nel labirinto della produzione, un tratto di dadi che non vuole abolire l'azzardo. Erik Satie Quaderni di un mammifero A cura di Ornella Volta Milano, Adelphi Edizioni, 1980 pp. 345, lire 14.000 Non badate troppo, anzi non badateci niente al risvolto editoriale di questo magnifico libro per il quale dobbiamo essere infinitamente grati a Ornella Volta (e non solo per questo, naturalmente). Non si può scrivere: «Satie si è rivelato col tempo uno dei Santi Protettori, insieme a Duchamp, di tutta la concezione moderna dell'arte». Satie è uno dei grandi delle avanguardie del nostro tempo, punto e basta, uno dei molti (per fortuna) e mi pare risibile il tentativo di ridurlo a Santo Protettore, come a voler circoscrivere le avanguardie dentro una .Chiesa. Si sottolinea che John Cage ha scritto, venti anni fa, «Satie ci è indispensabile». Ma venti anni fa erano i pieni anni sessanta! Bella scoperta che Satie era (e rimane) indispensabile, doveva dirlo John Cage, ora è diventato di moda, mentre ve111ai nni fa nessuno, tranne le avanguardie, sapeva chi fosse. E poi il risvolto editoriale continua: «Ma non bisognerà cercare il suo insegnamento in ponderosi trattati e neppure nelle sue vere e proprie 'opere' musicali». Ma quando e dove Satie ha mai scritto «ponderosi trattati» in cui ricercare il suo insegnamento? E non scherziamo usando le virgolette intorno alle «opere» musicali. «Satie possedeva un'eccentricità profonda che va ben più in là di quella, sempre un po' militaresca e squillante, delle avanguardie che lo circondavano». • Bene, bene, ma poche righe prima l'estensore di questa presentazione editoriale non aveva sottolineato che la circolazione a Parigi era un tantino frenetica tra Diaghilev e Max Jacob, Stravinsky e Picasso, Tzara e Cocteau? E che in mezzo ci stava Satie? Dimentichiamo questa logica delle distorsioni e godiamoci qualche battuta dal suo Carnet: «Certi giovani sono piuttosto vecchi per la loro età»; «Benché io sia cattolico, non ho mai auspicato che il numero degli arcivescovi a Parigi fosse portato a circa trecento»; «Non leggo mai un giornale della mia opinione: la troverei deformata»; «Corre voce che un cavallo ha fatto la prima comunione in una parrocchia dei dintorni di Vienna (Austria). È la prima volta che un simile fenomeno religioso si verifica in Europa; è noto, invece, in Australia il caso di un giaguaro che svolgeva le funzioni di pastore protestante, cavandosela piuttosto bene. È anche vero che non aveva un granché da fare». P.S. Un mio amico mi sta rimproverando aspramente perché ho criticato la presentazione editoriale di Adelphi. Chissà cosa diranno altri amici. È vero: a loro va comunque il merito di avere pubblicato questo libro geniale, sia pure con qualche smorfia esorcistica (ahimé, l'avanguardia colpisce ancora!). Antonio Porta Dubravko Pusék Carni trasparenti Manduria, Lacaita editore, 1980 pp. 139, lire 4.000 Che la poesia italiana attraversi una stagione felice, ognuno può vederlo. Aumentano e si diversificano le edizioni di poesia. Il pubblico si allarga, e si adatta. Alla difficoltà sempre più crescente del linguaggio poetico, innanzitutto; perché ha capito che quella difficoltà è segno della «cosa» di cui parla, e perché oggi solo la poesia può parlarla, quella «cosa». È un fatto: la poesia italiana è «forte». Io vorrei qui segnalare una poesia «facile», invece. E anche «debole». Quella di un giovane nato a Zagabria e residente da molti anni «nei pressi del lago di Lugano», ma che ha al suo attivo diverse raccolte già pubblicate (Forum, Rebellato, ecc.). Se dovessi dire quale è il colore fondamentale di queste Carni trasparenti (presentate egregiamente da Ferruccio Ulivi), direi che è il bianco, e non per contrasto al «giallo» di Van Gogh, piuttosto per la vicinanza al «bianco» di Malévic, anche lui slavo. Bianco delle «carni», appunto, delle «coltri», della «luna», dello «scheletro». Un bianco che incanta «l'ombra» che si muove nello «specchio», leggera come l'aria, che lambisce le «insonnie» del poeta, o il bianco dei «becchini» che aguzzano le «lame» nel «gelo» del suo corpo. Bianco, infine, come le «ossa» della sua amata Praga (una sezione del libro si chiama «Praga, cara»), «insediata» dalla «gelida beltà dei silenzi». «Ombra che vaga senza meta». E poi c'è Mozart, Trakl, Vienna ... il sangue che fiotta, «schizza copre/limita cattura/il corpo il cosmo» ... V. Bonazza <f~--"-· _,,_."--.---'"~- Wassili Kandinsky 43 opere dai Musei sovietici A Roma, Musei Capitolini, fino al 4.1.1981 A Venezia, Museo Correr, Sala _apoleonica, dal 15.1.1981 al 1.2.1981 Dopo la mostra choc alla Galleria d'Arte Moderna di Roma degli acquarelli e delle incisioni di Turner, con code inusitate, incredibili per l'Italia, e la folla che si riversava poi in festa nelle sale della Galleria un tempo semideserte, ecco un'altra sorpresa di dimensioni colossali, la folla in coda kilometrica per vedere le 43 opere (a olio, acquarello e inchiostro) di Wassili Kandinsky che la municipalità romana ha voluto esporre con geniale intuizione proprio in Campidoglio. Le opere vanno dal 190I al 1920 e si tratta di 43 capolavori, non vergognamoci a dirlo, a sottolinearlo. In alcune di esse sembra di entrare direttamente in un vortice, sembra di essere catturati dalla violenza delle spirali e subito dopo rilanciati fuori dalle esplosioni kandiskiane dopo essere rimasti a lungo prigionieri clelle sue irresistibili implosioni. Qui il mio dissenso con Giuliano Briganti (con cui ho trovato spesso punti di convergenza, per es. a proposito di Monet) è così marcato da indurmi a una sorta di allegria piuttosto che a dispetto o a rabbia. Kandinsky è più emozionante di Klee (è questo il paragone che ha tracciato Briganti su La Repubblica), più trascinante, proprio nel periodo che precede il grande raffreddamento astratto posteriore agli anni '20. _ Si riesce a emozionarsi anche in mezzo a una folla strabocchevole, soffocante? Sì, si riesce, si rimane perfettamente soli e in trip. Poi si ha anche l'agio di ripercorrere il «viaggio» sullo splendido catalogo della Silvana Editoriale. Raramente si troverà qualcosa di più fedel~ agli originali. Con il catalogo sotto braccio, pregustando la felicità di riguardarlo, è bellissimo passare e ripassare per le sale dei musei capitolini insieme a gente che non ci avrebbe mai messo piede se non ci fosse stato Kandinsky e rimanere, come tutti, senza fiato, davanti al San Giovanni Evangelist&_del Caravaggio, il nudo maschile più erotico che si sia mai visto. Guardando quelle anche e intuendo quegli inguini è impossibile non scoprire che l'eterosessualità è una fragile costruzione. Antonio Porta Kenji Tokitsu Lo zen e la via del karate. Per una teoria delle arti marziali Milano, Sugarco, 1980 pp. 189, lire 4.000 Maestro di karate a Parigi, ma anche sociologo, Tokitsu integra il metodo analitico del pensiero occidentale ad una profonda conoscenza della cultura tradizionale giapponese. li suo intento è farci comprendere una «forma di vita». Il termine non sembri improprio o eccessivo: nella storia della cultu.ra giapponese le arti marziali rappresentano, prima che un insieme di tecniche di combattimento, delle vere e proprie «modalità di esistenza elaborate dall'ordine dei guerrieri dell'epoca feudale giapponese». Fine del guerriero non è prevalere sull'avversario con la forza e l'abilità, e nemmeno raggiungere uno stato di «illuminazione» mistica attraverso determinate tecniche corporali, bensì ottenere una conoscenza della dimensione del «vuoto» zen, vale a dire di un movimento vitale liberato dalla coscienza riduttiva del pensiero e del linguaggio, dimensione rispetto alla quale la vittoria appare un mero riflesso esteriore. L'interesse dell'analisi di Tokitsu consiste soprattutto nelle sue convergenze con il metodo fenomenologico applicato all'esperienza percettiva (penso in particolare a Merleau Ponty): i poteri quasi «sovrumani» del guerriero (adesione totale al proprio corpo, al terreno su cui combatte, alle intenzioni e ai movimenti dell'avversario; capacità di divinare il flusso di una situazione, annullando la propria personalità fino a ridurla ad una pura intenzionalità che opera in un tempo «esploso», sono il prodotto di una modalità perce.ttiva puramente esistenziale, che gli consente di inerire con tutti i sensi ad un campo percettivo totale, senza disperdere la propria coscienza profonda nella superficie linguistica del pensiero. Silvano Arieti D Pamàs c.f Trad. it. dall'inglese di Francesco Saba Sardi Milano, Mondadori, 1980 pp. 180, lire 8.000 «Parnàs» è termine ebraico che indica il capo della congregazione locale. Questo libro di Silvano Arieti, uno psichiatra di larga fama, nato a Pisa ed emigrato negli Stati Uniti nel 1939 per sottrarsi alle persecuzioni razziali fasciste, narra le vicende che portarono al feroce omicidio del Parnàs di Pisa, Giuseppe Pardo Roques, trucidato dai tedeschi il 1 agosto 1944 insieme con altre undici persone, uomini e donne, ebrei e cristiani, nella casa pisana di Pardo. Il libro, che si avvale di una scrittura alta e commossa, non è soltanto una rievocazione della strage, ma ripercorre a grandi tratti le vicende della comunità ebraica pisana, e si sofferma, con una acuta ricostruzione, sulla malattia di cui Pardo era affetto, una grave fobia nei confronti degli animali. L'intreccio di questi temi fa de il Parnàs un'opera non soltanto singolare, ma di forte tensìone etica. m.s. Vincienzo Bonazza La casa di lacca Bari, Dedalo Libri, 1980 pp. 142, lire 5.000 A prima vista la pagina del nuovo libro di Bonazza può dare l'effetto del déja vu, nefandezze da Gruppo '63, tanto per fare un esempio. Quando la prima vista diventa seconda e poi magari terza e quarta e si va dentro la scrittura si può constatare ancora una volta quanto la prima impressione può ingannarci, quanto, a volte, il macrosegnale sia depistante. Leggendo La casa di lacca si è presi da un ritmo musicale di risata continua, dal sincopato dell'irrisione, tirati ora dalla parte del comico puro ora da quella del comico satirico: indicati a dito dal buffone. Dalla maschera. Travolti dalla danza carnevalesca (dove tutto si fonde e le distinzioni un po' troppo sottili, di tipo accademico, tra comico e satirico diventano irrilevanti); si prova la tentazione di mimare quello stesso linguaggio, come per riscattare tutta la nostra inevitabile alienazione. Un atto di dignità, infine, quello di non rinunciare alla voce e di far sentire ai potenti che i servi non sono tutti complici. Quj sì che conviene fare, e non a caso, finalmente, come in questi ultimi tempi è capitato di sentire, il nome di Céline. A111onioPorta Aut Aut nuova serie, n. 179-180, settembredicembre 1980 pp. 184, lire 3.300 Prosegue la vague francofila di Aut Aut? Dopo il fascicolo dedicato a Lacan, si passa a un altro argomento eminentemente francese, il postmoderno (Il riferimento più diretto è infatti La condition postmoderne, Paris, 1979, di Jean-François Lyotard; e Carlo Formenti, che ne ha curato la traduzione per Feltrinelli, scrive un saggio su «L'immaginario scientifico di Lyotard» ). Ma la continuità è solo apparente; è soltanto una continuità geografica. Di fatto, c'è una frattura profonda tra il «classicismo» strutturalista di Lacan e il sapere postmoderno. Quest'ultimo, infatti, nasce precisamente dalla sconfitta dello strutturalismo e dall'cimplosione» del post-strutturalismo (le aporie dei desideranti deleuziani, l'invecchiamento delle teorie foucaultiane del potere). Nasce anche da più lontano: dalla sconfitta della Teoria Totale, resa ineffettuale dai «djspositivi» della società tardo-capitalistica; dalla fine dell'ideologia e della sua critica; dal deperimento di tutti i discorsi legittimanti: nella società ampiamente tardo-capitalistica non solo non si crede più ai media, ma si diffida anche dei metadiscorsi ideologici e scientifici. Che cosa resta, allora? Probabilmente (e questa è l'ipotesi di Lyotard, avallata da molti degli interventi su Aut Aut), un «sapere narrativo». Cioè una pratica teorica ed epistemologica che punta sulla qualità estetico-immaginaria del sapere, piuttosto che sulle sue strutture formalizzate, assiologiche e normative. Occorre che la teoria piaccia, che - come sostiene Lyotard - «metta in movimento». Tutto il resto è nostalgia di una totalità perduta e improbabile. E allora il postmoderno si presenta come I'esa_ttoopposto della classicità strutturalista di Lacan: se quest'ultima lavora su un rigoroso determinismo simbolico, condannando come patologica ogni velleità immaginaria, il postmoderno è invece precisamente una glorificazione dell'immaginario. Di quj, una rivisitazione del sapere, che si vede abbozzata nel fascicolo di AutAut, tale per cui tutto appare postumo, successivo al crollo della Teoria Totale: post-sociologia in Dal Lago e Gozzi; post-psichiatria in Castel; informatica e telematica in Comboni; nuova biologia in Casella. La seduzione in Rosella Prezzo. m.f. ,· ~S~l~;,)A!~ . . . Gilio Dorfles L'intervallo perduto Torino, Einaudi, 1980 pp. 184, lire 12.000 Che cos'è l'«intervallo», e perché è stato perduto? L'interrogativo, così posto, fa un po' «hard-boiled story», ma la sostanza è in realtà più che seria. L'uno e l'altro, serio e leggero, sono comunque toni giusti per parlare di questo ultimo lavoro di Dorfles. In esso, infatti, c'è un ritorno ai modi della critica che hanno reso famoso l'autore di Nuovi riti, nuovi miti e Simbolo, comunicazione, consumo. Alludiamo alla maniera vivace e ricca di «impertinenze» con cw Dorfles riesce a djscutere di filosofia parlando di fantascienza e di spettacolo, o d'altro canto a irridere la seriosità di certi fenomeni filosoficià lamode mostrandone ilgioco vuoto e privo di basi. Fondamento di questo )jbro, dicevamo, il concetto di intervallo. Cioè la pausa dentro l'opera e durante il suo filo attivo, ma anche la separazione dell'opera dal suo contesto. Pausa costitutiva e pausa di fruizione, insomma, che - sostiene Dorfles - si sono entrambe smarrite nella società odierna, caratterizzata dall'elemento della velocità e della assoluta continuità. Ma questa non è la conclusione del libro, bensì il punto di partenza per un avventuroso viaggio attraverso le conseguenze operative di tale osservazione. Le conseguenze, cioè, nel campo della produzione di nuove opere: ad esempio il collage musicale, le nuove esperienze architettoniche, la recente critica letteraria, la demonicità dj certi recenti fatti artistici, la nuova corporeità teatrale, le aspirazioni misteriologiche della fantascienza. Le conclusioni sono poi tutt'altro che negative: secondo Dorfles l'intervallo perduto in qualche caso viene ritrovato. O, almeno, pare in via dj ritrovamento. Toni Negri Politica di classe o.e. Milano, Machina libri, 1980 pp. 59, lire 2.000 Cito due frasi bellissime di Negri: Questi souerranei, questi palazzi, vanno derauiu.ati I Oh, grande Rabelais, solo il tuo potente gro11escoha senso in questo disgraziato mondo, oggi! li libretto, che è della scorsa primavera, contiene la critica radicale del terrorismo come «forza parassitaria e subalterna» e del movimento armato, «orribile strappo»: teorizzando la mediazion_epolitica di massa. . Tardivo nella sua integrità attuale «dal campo di Palmi, gennaio 1980», oggi che «il tempo della pura auto-valorizzazione è definitivamente finito, troppi compagni sono in galera», risulta tuttavia corrispondente alla posi- ' zione espressa al tempo del giornale Rosso: la prima «campagna» è per il rifiuto del lavoro;-e cioè per la riduzione dell'orario di lavoro, c.Qntrol'etica ' produttivistica. • Una precisazione: non si è ancora letto nella stampa che - semp)jcemente -Rosso era il giornale di un organismo po)jtico non centralistico, i CPO, collettivi o comitati poHtici oper.u. Tutto si è letto (oh Rabelajs!) fuori che le precisazioni limpide e semplici delle scelte diverse di clinea» degli organismi minoritari, coi loro problemi e sforzi inutili, nella lotta politica in Italia per un decennio. F. Leonetti
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