Alfabeta - anno II - n. 19 - nov.-dic. 1980

Rosenberg &Sellier ~ Editori in Torino Esteticae antropologia arte e comunicazionedei primitivi a curadi GiannCi archia e RobertoSalizzoni saggidi Boas, Lowie,Firth,G~hlen, Lévi-StraussB,'ateson,Bloch,Lero1-Gourhan pp, 238 L. 12 000 • La festa antropologiaetnologiafolklore a cura di FurioJesi saggidi Kerényi,Thevet,Lafitau,Karsten, Haekel,Pitré,VanGennep pp. 215 L. 6.000 GeorgesDumézil Venturae sventuradel guerriero aspetti miticidella funzioneguerriera tra gli indo-europei . con un saggiointroduttivodi FurioJesi pp XXXll-168 L. 7.000 RodneyNeedham Credere credenza, linguaggioe, sperienza introduzionedi DiegoMarconi pp XVlll-262 L. 7.000 Dall'analisli nguisticadellaparola"credere" all'analisiantropologicadella categoria di credenza La formalizzaziondeelladialettica Hegel,Marxe la logicacontemporanea a cura di DiegoMarconi saggid1Apostel,RogowskiK, osok,Dubarle, Jaskowski, Da Costa,Routley,Meyer,Rescher pp. 480 L. 28 000 Karl Otto Apel Comunitàe comunicazione introduzionedi GianniVattimo pp. XXXll-272 L. 8.S00 "una propostadi sintesi tra ermeneuticae filosofia nalitica"(GianniVattimo) AlfredSchutz Il problemadella rilevanza per una fenomenologiadell'atteggiamento naturale a cura di GiuseppeRiconda pp. XL-168 l. 6.000 l.'.ultimoapera del fondatoredell'indirizzo fenomenologiconellescienzesociali ClarenceJ. Lewis Il pensieroe l'ordinedel mondo schizzodi una teoriadella conoscenza a cura di SergioCremaschi pp. XXXl-255 L. 8 S00 l.'.operaprincipaledel grande pragmatista americano Letteraturae semiologiain Italia a curadi GianPaoloCaprettini e DarioCorno saggidiTerracinAi, valleC, orti,Segre,Orlando, Eco, Rossi,Pagnini,Caprettini,Serpieri pp. 541-l 9 400 La sfida linguistica lingueclassichee modelligrammaticali a cura di GermanoProverbio saggidi Cracas,Matthews,Hurst,Touratier, Lavency,Dressler,Happ, Steinthal,Kelly, Harris,Murru pp. 338 L. 13.SOO GabriellaGribaudi Mediatori antropologiadel potere democristiano nel mezzogiorno note introduttivedi AugustoGrazianie EdoardoGrendi pp. 202 L. 7.S00 Lavolontàpoliticache ostacolalosviluppo MichaelHechter Il colonialismointerno il conflittoetnico in Gran Bretagna, Scozia,Gallese Irlanda 1536-1966 introduzionedi PaòloPìstoi pp. XXXIV-334 L. 12.000 l.'.esplosiondeel problemaetnico nellesocie_tàavanzate Storiaorale vitaquotidianae culturamateriale delle classi subalterne a cura di LuisaPasserini saggi di Ewart-Evans.Thompson,Tonkin, Samuel,Taylor,Frank,Vigne,Howkins,Bird pp XLIV-303 L 8.S00 RobertRedfield La piccolacomunità La societàe la culturacontadina introduzionedi LucettaScaraffia pp XXIV320L 6 000 Lebasi teoricheper capirele culturelocali Rivistadi estetica • PareysoQ,Ariceschi,Assunto.Barilli, Dorfles,Fanizza,Perniola,Vattimo Arte e metropoli lasc+colomonografico (pnmavera 1980) analisistoricae teoricadel rapporto tra formed'arte e evoluzionedellacittà abbonamenlo 1980 L 18 (X)() ccp I 1571106 ( conversazione, Beeklam le sue statue. Rito o mania: un tic, o un'ossessione, il dito in bocca (e le altre sue varianti) condivide dell'hobby-horse la necessaria funzione di riparare dal reale un soggetto che, lungi dall'essere maestro e padrone della propria vita, è piuttosto a child o f mistake, and discontent, sport o f small accidents. Mettendo tra sé e il reale l'hobbyhorse, questo essere della disgrazia, e della privazione (misrake and discontent ), nello stesso tempo attacca e si difende: rivela, e svela, con audace travestitismo, come il reale lo si possa mas<!herare, e ridurre entro gli stracci del grottesco, e della parodia. Purché rimanga coperto il buco che in esso si mostra: quand'anche si tratti, per coprirlo, di tenere un dito in bocca. «Un difetto, che coltivo forse» - dice Lung (Il dito in bocca, p. I 3). Traccia infantile di una autonomia compensatoria, portando il dito alla bocca, il corpo si ricongiunge, e si chiude; e l'apertura avida della bocca si appaga del proprio corpo. Così, se letto nella sua dimensione sintomale, quel difetto porta alla luce dell'hobbyhorse la sufficienza narcisistica, l'autismo - la sua solitudine, infine. Coltivando il proprio difetto, il vecchio zio Tobia giocherà alla guerra nel giardino, e confonderà un fosso con una fortificazione; avendo allo stesso modo evacuato il reale, il giovane Tristram coltiverà un romanzo, che non è un romanzo, ma un hobby-horse di romanzo, una parodia. In ogni caso il romanzo, le fortificazioni, il dito in bocca, le statue, sono tutte evidenze di una autonomia. «Io mi basto». «A me basta del reale quel poco che posso rifarmi da solo»: così giudica il personaggio dedito al suo «vizio». La domanda, che sulla bocca si annida, si sospende al narcisismo di un piacere che mi posso autonomamente procurare: L'artista, come il bambino, gioca, e del suo gioco si soddisfa. Il bambino può essere dell'artista controfigura: per quel tratto puerile che Ii avvicina. Tratto che se trasferito nello spazio delle età umane, individua_ un luogo - l'infanzia - dove un corpo attende ancora l'evento, o il nome, che l'individui. E intanto in sé, stretto di sé si colma. Nel caso di Lung, il suo corpo, affidato a Neutra!, è indotto a riconoscere da subito «la precarietà di ogni femminile e maschile» (li dito ... , p. 67). i;.e si insegna dunque a mancare a quell'atto che, sessuandolo, dà all'essere il corpo: e glielo dà come corpo bucato, segnato in radice dalla propria insufficienza. Sì che l'uomo, l'essere frammentato, bucato, conosca soprattutto Io stato di domanda: che un altro tappi il buco di quella apertura. Un altro. O un'altra cosa. Può essere tutto. Anche un dito in bocca. Nel qual caso all'incontro viene sostituito il diniego. E all'altro, se stesso. II proprio dito. Sì che la bocca, invece che chiedere, e aprirsi all'esperienza della parola, si richiude nel proprio vizio. Tenendo il dito in bocca, Lung rifiuta il tramite della parola. E qifatti Lung non parla; pensa, riflette, sogna, investiga, commenta, si racconta delle storie. Sta con se stessa. Giocando il gioco del proprio dito, Lung soprattutto inganna: come sempre fa l'artista che al posto del corpo reale mette l'altro corpo posticcio della propria artificiosa creazione; e ciò facendo confonde il Iim'ite che separa la creazione, e· la generazione; e rende incerti, indistinti .i tratti che dovrebbero distinguere la creatura vera dal suo Golem. In una ripetizione attenta, accurata, il romanzo si è fatto spesso forma c!J.e segue là crescita -della nuova creatura di parole e di carta: vi sono stati romanzi di iniziazione, con a protagonisti appunto dei bambini, e· dei giovani, che si facevano grandi: Nick A,:Jams di Hemingway, lke MacCaslins di Faulkner, il giovane Holden di. Salinger... sono alcuni soltanto deiloro nomi. Ma qui, questi bambini della Fleur Jaeggy sono piuttosto gli eredi dei fantocci di Beçkett; a propri antenati essi hanno non più certamente quei giovani americani, ma quelle derive che sono i personaggi di Beckett. Così qui i rituali di iniziazione si confondono e si annullano, in una mirabile trascrizione beckettiana della passione dell'infanre: un neonato che non trova più nessun luogo da abitare, come quel bam: bino appunto, che terrorizza Hamm, in quanto «procreatore in potenza», al solo vederlo. E laddove l'iniziazione inscriveva ogni stazione dell'eroe fanciullo in una storia che era crescita, seguendolo come l'antico Perceval nelle sue avventurose imprese: qui, con questi bambini, ogni pr.ogresso è negato fin dall'inizio, perché la crescita comporterebbe «ciò che si chiama vicissitudine» (I/ dito ... p. 91)_ E se anche crescita v'è, «la bambina è diventata nana, verso gli otto anni»(ibidem, p. 42). La storia, non dandosi più il movimento di un percorso, si fa essenzialmente «mentale». Girano e rigirano nel testo frasi che sono echi di eventi una volta accaduti. V'è stata all'inizio una morte (della madre). V'è un lutto (del padre). V'è una malattia (del bambino). Ma di tutte queste stazioni di passione rimane.solo una memoria precaria, incerta - che il linguaggio aiuta a dissolvere, più che a conservare. Presi nella loro amnesia ( « L'amnesia infantile, per me, non è mai stata un problema»: dice Lung, p. 63), questi bambini sono soli. A scompensare la loro nascita v'è una morte, che nel punteggio della partita marca fin dall'inizio uno svantaggio: rimontare il quale è impossibil_e.Così i conti meglio non farli. Tanto nulla conduce a nulla: perché non può condurre verso l'altro - che è venuto a mancare. Sospesi tra l'autoconsumazione e il contagio, il contatto con il mondo è stato per questi bambini fatale: e dunque l'altro è - semplicemente - una fonte inesauribile d'angoscia. Minacciosa è la sua presenza; perché nulla fa presente se non la possibilità della sua scomparsa. Meglio dunque rischiare l'entropia della propria solitudine, e preoccuparsi di «mantenere una stabilità nella culla». Culla che è «una specie di piccola palude, dove» - dice Lung - «mi trovavo molto bene_.. »_ Purché non intervenissero i parenti «rovinandomi l'equilibrio (ibidem, p. 63). Proprio perché fa male, questa vita bisogna continuamente rifarla: perché là dove accade inaspettata ferisce. Mimandola nell'hobby-horse, o rifacendola nella pagina, invece, la si potrà finalmente controllare. Sia che si collezionino statue, sia che si lucidino le parole fino al nitore assoluto-sì che esse producano quèlle frasi pronunciate con calma, scritte con l'ostinato calcolo della perfezione: sempre ciò che è in gioco è un esorcismo. Necessario, sempre, a chi sa di portare in giro «le sue cellule avverse» (p. 41): destino che si può evidentemente rimontare solo con un atto di incredibile dispen° dio. Destino per cui la volontà alla vita - semplicemente: la volontà di vita - necessariamente si trasforma in volontà di potenza: per chi sia appunto come questi bambini afflitto dal sentimento della propria impotenza. Tale destino questi bambini condividono con il romanzo, si potrebbe dire: ovvero con chi si applichi oggi a una forma la cui impossibilità è stata più volte decretata. Sì che l'impossibile crescita di questi bambini è l'impossibile divenire del romanzo stesso: movimento che qui si dispiega nella continua interruzione a cui la narrazione è sottoposta. Sì da cancellare di continuo ogni disposizione narrativa del testo stesso: che si compone scomponendo ogni fluidità della prosa nei raggelati monologhi, o nell'alternanza costante delle persone narranti, la prima, la terza, e così via ... Bellissime come nell'attacco sontuoso delle Starue d'acqua, i gruppi di frasi perfette galleggiano un dramma_ II bello domina qui come il signore dell'orrore; tanto più bello il paesaggio d• frasi, tanto più terrificante ciò che esse nascondono_ La legge inversa di questa proporzione è il fascino di questa lingua. Esattamente come per i bambini jamesiani: la cui innocente bellezza rende ancora più credibile il sospetto di un loro commercio con il Maligno. Come nel caso dei bambini di James, questa scrittura pare nascondere ~ un vizio: una corruzione segreta, che qua e là tuttavia trapela. Quel segreto disordine che la bellezza nasconde, inquieta: proietta in superficie l'ombra di uno scambio diabolico, accettato dallo scrittore in primo luogo, e poi anche da chi legge: in virtù del quale gruppi di frasi fingono di rimettere ordine in una superficie ben esigua di linguaggio, laddove il mondo tutto ha rovinato nella catastrofe. Frasi e personaggi si aggirano come dei sopravvissuti, tra mucchi di rovine. Detriti galleggiano brevemente, e poi scompaiono, indifferentemente attirati, e persi, alla vita della pagina. Neppure più il ricordo si salva: visto che la vita non c'è stata, ché da sempre c'è stata semplicemente infanzia, il ricordo è «un prestito» (L'Angelo custode, p. 16). Soli, perché «non c'è nessuno qui, se ne sono andati tutti» (ibidem, p. 88), questi bambini sopportano un terribile peso: di «sapersi così inesistenti ed aspettare» (p. 51). - La perfezione è ciò a cui le frasi mirano: la perfezione esatta e meticolosa con cui i signori Burke e Hare preparavano, così racconta Schwob, l'assassinio: a testimoniare che cun'estetica» v'è, sia pure «del macello> (Le Statue d'acqua, p. 43). Ad officiare questo rito, o assassinio, o sacrificio, qui è la lingua: una lingua limpida, nuda, che trlle la sua bellezza esattamente dal fatto che a forza di carvi11g, di tranciare e scarnificare, si è saputa togliere di dosso tutta la carne: e ora mostra solo la propria anima. Una lingua anoressica, che nella propria secchezza mostra precisamente la sua grande fame. Una lingua che ha cessato di mangiare, e non più si agghinda per i lauti banchetti dei romanzi con tutte le portate in ordine, e l'antipasto, e il dolce in fondo, e il prologo, e l'epilogo: ma non per continenza, o per modestia, né per pudore. Ma piuttosto perché nulla la può saziare, se non il vuoto che fa intorno a sé. Perché del reale non più facendosi né specchio, né metafora, e quindi non potendolo più divorare, può solo annullarlo, e opporgli la propria astinenza. Una lingua verginale, anche: che respinge. Non tende le braccia a nessuno. Lingua che dell'infa11zia trattiene un carattere essenziale: la perfetta chiusura. La stretta connessione del frutto acerbo. D i questa lingua la bambina è simbolo_Come Lung, e Jane, e Kate, e Katrin, questa lingua è ammalata: della stessa malattia. Non sa, non vuole, non può disporsi verso l'altro. Può solo farsi più e più chiusa in se stessa: poesia_ E se la prosa è la lingua del «reale» («la vita al suo meglio è una buona prosa», diceva James; aggiungendo «quando non è cattiva prosa»), anche per questo questa lingua dalla prosa scarta; e si struttura in brani poetici, o in monologhi drammatici. O in conversazioni di perfetta tornitura formale. Sempre comunque ostacolando ogni andamento prosaico: resistendo come Lung all'«ordine>, alla «circolazione» (li dito ·-·, p. 95). Luogo di una resistenza ostinata, stretta come Prufrock alla propria immagine («dovrei chiudere e murare lo specchio», dice Jane, per evitare che vi si infiltri l'immagine della sorella, L'A11gelo ..., p. 13), come l'eroe (o piuttosto anti-eroe) eliottiano, la bambina liquida l'azione nella immobilità del monologo drammatico: annullando allo stesso modo il mondo esterno nella furia di quella cerimonia vicaria che è il parlare, invece dell'andare. «Let us go you and h, dice Prufrock alla propria immagine. E poi rimane fermo, e parla. Ostinate e impenetrabili- dicevamo - queste bambine sono l'analogon della scrittura_ Strette a sé, lottano come vergini per impedire una vicenda, una trama: la «vicissitudine»_ Natura mori~, o statue anch'essi, i personaggi si avvicendano sulla scena aprendo i solenni monologhi della loro meditazione. Avendo annullato l'azione, e il suo tempo, v'è ora tutto il tempo di parlare: di sistemare le parole, di ordinare il recitativo solenne dei monologhi. È il tempo della cerimonia funebre, che celebra del tempo la sua fine, o il suo trionfo come tempo del passato, del «defunto». «Io non ho parola> - dice Beeklam - «anche se chiacchero con uno spettro» (Le statue ..., p. 53). Le parole stesse si fanno spettrali: belle di una bellezza definitiva, spietata, che solo può accadere nell'eliminazione dell'imprecisione, del caso, del contìngente, dell'accadere stesso. O, in altre parole, della vita. E come le statue ancora, queste parole sono «vitree>: hanno la bellezza delle «cose che posano in se stesse» (ibidem, p. 21); la bellezza di parole terminali - come. dicevamo all'inizio. Che posano in se stesse. L'idea di metamorfosi che l'acqua veicola per via della sua liquidità, si flette-verso l'òpposto stato dell'arrèsto di vita (,Le_statue.._, p. 28)_Tra l'acqua e il suo flusso, e la statua e la sua gelida immobilità, si tende la storia, priva di trama, di uno «slancio trattenuto> (ibidem, p. 102); o di un movimento che ripiega su di sé_Questo andamento centripeto ancora sconfigge l'orientarsi centrifugo della prosa: del romanzo. E la lingua ritorna su se stessa, e il lettore di nuovo si trova di fronte Ja superficie «vitrea» di una scrittura che è vetro,· perché in essa interno ed esterno si confondono, e si fondono, mantenendo tuttavia, come il vetro, la parete-che-divide di una distanza segnata, invalicabile.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==