Alfabeta - anno II - n. 19 - nov.-dic. 1980

Mensile Spedizione di informazione in abbonamento postale culturale Novembre/Dicembre 1980 Numero 19 - Anno 2 gruppo IIU70 Printed in ltaly Lire 2.000 • :~.- ... - ···-:- ; • ":- .. ,. __ ,,. ..·· << /' ·:~.·•. . . . , . . I i CiLENCiRANT il puro whisky dipuro malto d'orz.o C. Donati: Garantismo* O. Calabrese: La Grande Censura* E. Ghezzi: Cinema a pezzi F. Bolelli: La scena impura* M. Corti: La Crusca fa bene* Testo: M. Ferraris: Nichilismi; E. Severino: Il niente non è innocente; G. Vattimo: L'uomo rotola via; J. Baudrillard: Trasparenza • N. Fusini: Scrivere con l'acqua *•. Sheehan: Filologie heideggeriane •Cfr. * R. Benatti: Produrre la piazza * B. Cottafavi: Un dizionario del senso . F. LeonettiÌI R. Luperini: Stalin e_glidèi * M. Turchetto: Tempi (più) moderni F. Poli: mercato dell'arte * Giornale dei Giornali: Fiat: Dopo l'accordo Poesie di V. Aleixandre e C. MiJosz * Immagini di George Brecht * Lettere

- .. Sapere e Potere convegno internazionale Genova palazzo Tursi 27-30 novembre 1980 Comune di Genova Assessorato alla cultura E Agazzi J Baudrillard HD Bahr P Bellasi E Bellone L Berti R Bodei M Cacciari B de Giovanni J Donzelot FEwald A Fontana F Fornari J Freund M Galzigna AGargani G Giorello A Heller N Luhmann I Mancini V Marchetti FMenna J LNancy G Pasquino L Pellicani M Perniola P Portoghesi G Procacci FRella PA Rovatti G Scalìa U Scarpelli M Schiavone M Spinella S Tagliagambe G Vattimo Le immagini di q~!!~}!.!~'° ARTI E MESTIERI Che cos'è un mazzo di carte? La ri.sposta non è poi cosi semplice come. potrebbe sembrare. Innanzitutto, bisognerebbe domandare: quali carte? Le francesi, quelle del poker per intenderci, in mazzi da 52? O le italiane, quelle da briscola e tresette, con le loro infinite varietà regionali e locali? O infine i tarocchi, da cui forse tutte le carte hanno origine, con le famose rappresentazioni dei figuranti, come «La Morte», «L'Impiccato», «L' Assassino», «Il Castello», e cosi via? li fatto è che le carte, siano esse per gioco come nei primi due casi o per divinazione come nell'ultimo, non sono definibili soltanto come dei repertori di simboli. Esse devono anche essere definite per l'uso che se ne fa (il gioco, la divinazione) e per la strategia con cui tale uso viene reso il più efficace. Infine, esse possono essere perfino definite per delle varianti non pertinenti rispetto alla loro funzione: per esempio, la qualità della raffigurazione. Se iogioco a poker, le carte che sono suddivise per seme (ossia per famiglia) e per figura sono individualmente provviste di un valore. Ma questo valore cambia nella combinazione prevista anch'essa dal gioco. E, come è noto, questo valore della combinazione per contare davvero deve essere inserito in una strategia di gioco (bluff, rilancio, eccetera) che ha luogo non soltanto nella «regola», prima del gioco, ma precisamente dentro il gioco, dentro quel gioco. La carta, cosi, è certamente un elemento all'interno di un repertorio, ma consente anche di produrre strategie discorsive. E, in più, non considerata nella sua funzione ludica, è essa stessa un testo finale, un testo di natura pittorica. In questo numero, presentiamo un mazzo di carte da gioco. Un mazzo assai particolare, come si può vedere. Lo ha composto George Brecht, artista di punta del gruppo Fluxus inventore dei Tam pax, all'interno di un progetto di Fluxgames, che come è noto sono a centinaia. Ricordiamo ad esempio le scatole con attrezzi per suicidio di George Maciunas. Oppure i F/uxusdreams, cioè isogni di Fluxusl di Yoko Ono. E ancora altri giochi di Nams June Paik, di Wolf Vostell, eccetera eccetera. Perché sono particolari le carte di Brecht? Elenchiamone qualche ragione, anche se non tutte. In primo luogo, l'autore ribalta il rapporto funzionale della carta: prima la pertinenza figurativa, poi quella ludica. Jn·secondo luogo, si ribalta il concetto di gioco: queste non sono più carte da gioco, ma giochi di carte. Ovvero: il gioco è stato già giocato, anche se rimane tuttora giocabile. Ai repertori pronti per l'uso dei re delle regine e dei fanti, si sostituiscono qui dei repertori usati, quelli degli oggetti della vita quotidiana, rifatti o addirittura ripresi (a sottolineare la possibilità combinatoria che rimane però ancora aperta) alla maniera dell'illustrazione del dizionario e dell'enciclopedia. Sfogliare un dizionario tecnico per credere. Quanto il reale quotidiano (o il simbolico quotidiano, non importa) sia ancora giocabile sta poi al lettore di queste carte determinarlo. Tutto dipende dalla sua capacità di adibirle a giochi che essi stessi sono da inventare. o.e. ANTICA BARBIERIA ·cou.A. ovvero della salute dei capelli di Franco Bompieri. L'opera a morosa e sapiente di artlgla no-scrittore che può essere de finito •maestro d'arte•. Lire 6.000 SETTE UTOPIE AMERICANE L'architettura .del soclallsmo • comunitario 1790/1975 di Dolo res Hayclen. Il rapportp fra i deologia e architettura, proget to sociale e progetto fisico, in sette comunità • utopistiche a mericane nel corso di due se coli. In appendice uno scritto dj Gianni Baget-Bozzo. Con ol tre 245 ili. Lire 25.000 ENCICLOPEDIADEL TEATRODEL'900 a cura di Antonio Attisanl. Opere, autori, registi in una serie di voci scritte dai più autorevoli specialisti europei. Un'opera unica, fondamentale. 200 ili .in bianco e nero e 8 ta - vole a colori. Lire 38.000 COCAINA Storia effetti cultura esperien ze di Giancarlo Arnao. Dello stesso autore di Rapporto sul le droghe e Erba proibita. Rap porto su hashish e marihuana. Lire 3.500 MAMMA, ME LO COMPRI? Come orientarsi tra i prodotti per i bambini di Anna Casu e Bruna Miorelli. Lire 5.000 L'ALTROESERCITO La classe operaia durante la prima guerra mondiale di Ales -s---------.----~-T_e_s-to------------~F_ra_n-ces_c_o_P_o_l_i --------~ sandro Camarda e Santo Peli. Ommar10 Maurizio Ferraris II mercato dell'arte Introduzione di Mario lsnen Nichilismi (li pubblico e fa fruizione, di A.M. ghi. Come la classe operaia ha Ai lettori Per esigenze tecnico distributive questo numero è di 32 pagine e si riferisce ai mesi di novembre e dicembre. A partire dal 1°numero del 1981 Alfabeto sarà regolarmente in edicola entro il 10 di ogni mese. CesareDonati Garantismo pagina 3 Omar Calabrese La Grande Censura (Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il servizio fotografico e cinematografico, del Comando Supremo dell'Esercito Italiano; La guerra rappresentata) pagina 5 Enrico Ghezzi Il cinema a pezzi pagina 6 Franco Bolelli La scena impura (My Lifein the BushofGhosts, di Brian Enoe David Byrne; Possible Musics, di Brian Eno e Jon Hassel; Remain in Light, di Talking Heads; Crollo Nervoso, dei Magazzini Criminali; Conversazioni, di Gilles Deleuze e Claire Parnet; 24? Satie, Milano 12-13 aprile 1980) pagina 7 Maria Corti La Crusca fa bene pagina 8 Nadia Fusini Scriverecon l'acqua (Il dito.in bocca - L'angelo custode- Le statue d'acqua, di Fleur Jeaggy) pagina 9 Thomas Sheehan Filologie heideggeriane (Gesamtausgabe, di Martin Heidegger) pagina 11 Cfr. pagina 12 pagina J 5 Mura; Il mercato dell'arte, di C. Her- combattuto durante la prima Emanuele Severino chenroder;Arteedenaro,diG.Bemier) guerra mondiale la sua batta Il niente non è innocente pagina 27 glia sia nelle fabbriche sia nel pagina 15 le piazze contro il padronato Gianni Vattimo Giornale dei Giornali e l'apparato. repressivo dello L'uomo rotola via Fiat: Dopo l'accordo stato liberale. Lire 4.800 pagina 16 A curadi Index-Archiviocriticodell' InJean Baudrillard formazione Trasparenza pagina 30 pagina 17 Roberto Benatti Produrre la piazza (The Dinamics of Architectural Press, di R. Arnheim; Seminario presso l' Istituto di Storia dell'Artedell' Universitàdi Bologna, 1978; La città: istruzioni per l'uso, di P. Caste/novi; Le strutture antropologiche dell'immaginario, di G. Durand; L'invenzionedelmondo fra gli indian i Pueblo, di L. Sebag) pagina 19 Beppe Cottafavi Un dizionario del senso (Sematica strutturale - Del senso - Essais de sémiotique poétique - Maupassant. La sémiotique du texte: exercises pratiques - Sémiotique et sciences socia- /es, di A.J. Greimas; Sémiotique, dictionnaire raisonné de la théorie du /angage, di A.J. Greimas e J. Courtés) pagina 21 F. Leonetti - R. Luperini Stalin e gli dèi (Gli anni delle riviste 1955 - 1969, di AA. VV; Origini della nuova sinistra: le riviste degli anni sessanta - Per un nuovo marxismodellacrisi,diA. Mangano; li signor Carlo Marx, suppongo, di G. Sassi; La cultura de/l'estremismo, di AA.VV.) pagina 23 Maria Turchetto Tempi (più) moderni (La fabbrica e il cronometro. Saggio sullaproduzione di massa, di B. Coriat; La ristrutturazione nelle grandi fabbriche /973-1976,diA. Graziosi; Lavoro e capitale monopolistico, di H. Braverinan) pagina 25 Poesie Czeslaw Milosz pagina 18 Vicente Aleixandre pagina 21 Lettere LetterediAlbertoArbasinoediRomano Modera. Poesia di Cosimo Onesta pagina 28 Le immagini George Brecht alfabeta mensile di informazione culturale ComilatodidirezioneNanniBalestrini,Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Direuore editoriale Gino Di Maggio Redazione Vi.ricen7.ÒBonazza, Maurizio Ferraris, Carlo Fonnenti, Marisa Giuffra (segretaria di red"4ione), Bruno Trombetti (grafico) Art director Gianni Sassi Redazione, amministrazione Multhipla edizioni. 20 I37 Milano, Piazzale Martini, 3 Telefono (02) 592.684 Composizione GDB fotocomposizione via . Commenda 41, Milano, Tel. 544.125 Tipografia S.A.G.E. S.p.A.. Via S. Acquisto 20037 Paderno Dugnano (Milano} Di~tribuzione Messaggerie Periodici Abbonamento annuo L. 20.000 estero L. 25.000 (posta ordinaria) L. 30.000 (posta aerea) Inviare l'imporlo a: Mullhipla edizioni. 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Aspetti storici, biologici, ecolo gici e terapeutici di Edoardo Gallico. Presentazione di Um berto Veronesi. Lire 3.500 Novità e successi

11dibattito sul garantismo, del quale qui ora si vuol solo dare una rassegna - seppure percorsa da una riflessione che anticipi elaborazioni future-quasi bibliografica, si è sviluppato a partire dal 1977, anche se lungo strada ha subito significativi mutamenti di segno. Fu per un paio d'anni- sino al «7 aprile», appunto-individuato da un continuo richiamo, da parte dei garantisti, alla legalità, in polemica ufficiale con gli abusi del potere ma anche tenendo nel mirino i «violenti». E dopo puntò contro la violenza delle istituzioni, che si rivelava quella più grave e minacciava, e ammoniva colpendo bersagli esemplari. Un suono di confusione percorre tutto il discorso, e per ricondurlo a una linea di lettura che non sia una rete ove si resta impigliati occorre risalire, passo passo, per il dibattito. I garantisti da un lato, gli autoritaristi (in concreto quasi tutti giuristi dell'area Pci) dall'altro, schieramenti frontali e speculari. Gli autoritaristi, quando veleggiavano con allegria domenicale spinti dal vento del «compromesso storico», patentavano i garantisti come «intellettuali estremisti» latori di «settarismo ideologico» (Domenico Pulitanò, «La funzione coercitiva-garanzie giuridiche e democratizzazione degli apparati», in Democrazia e diritto, l, 1978, pp. 139-157), figurarsi poi dopo quando parlare di «garanzie individuali» valeva intralciare il disegno di fare terra bruciata a sinistra della sinistra. Si vede lo stile. Una domanda allora, cosa si intenda - almeno in primo approccio - per «garantismo» s'è cosi terribile spettro per l'establishment. Diciamo ch'è usato per dare un set di diritti ( «inviolabili», si dice) del cittadino specialmente in riferimento al processo penale e alle amministrazioni delle polizie, principio di legalità visto a parte subjecti. E i suoi contenuti sono abbastanza noti, quindi ci bastino accenni senza pretendere all'elenco: diritto alla difesa (senza il rischio per gli avvocati di finire in galera), tutela della libertà personale (e non sequestri di persona) che vuol dire, tra l'altro, privazione di questa solo dopo un processo (e non carcerazioni «preventive» che sono imbastigliamenti), giudice naturale precostituito (e non giudici ad hoc preconcetti), presunzione d'innocenza (e non, viceversa, onere di dare spiegazioni e giustificazioni e alibi e prove in negativo), determinatezza delle fattispecie penali (e non figure di reato vaghe e/o ambigue). Il tutto sembra ovvio ma è invece gravido di problemi, e lo si comprende a riflettere sul ruolo centrale che la nozione di cittadino/individuo svolge, e che può spiegare, alla fine, le ragioni profonde del blocco in cui garantisti (e autoritaristi) si sono trovati. Il dibattito insinua sin dalle prime battute il dubbio che i fronti polemici siano prigionieri di un comune fantasma, che indicherei nella figura del soggetto, l'uomo essenzialistico e astorico del diritto, riflesso dell'antropologia borghese. Il diritto borghese incorpora - quasi suo scheletro - l'uomo cartesiano, diviso, che subordina ed è subordinato, che giudica ed è giudicato, uomo-ragione che diffida dell'uomo-emozione, spinto dal timore dell'ombra oscura di sé a proporre l'illusione di un diritto-ragione che padroneggi lo Stato-violenza. Allora la violenza, mai dominata proprio perché separata, prende la sua rivincita ponendosi come termine primo e ultimo del diritto. Il terreno è comune c la speranza di uscire dal labirinto delusa se i percorsi non vengono lacerati. Dunque ecco i limiti di questo dibattito - e la sua debolezza politica, i confini di un'antropologia cartesiana e borghese che si risolvono in un dualismo irriducibile a sintesi: corpo e anima, materia e spirito, estensione e pensiero, essere e dovere, stato e diritto. La sintesi non si può dare e allora per via di assolutizzazioni e di ipostasi il diritto è presentato come fenomeno razionale, ordinatore di violenza in Garantismo forza - e perciò ordinato - e regno illuministico di soggettività. Non solo, tale antropologia ha contagiato, con il virus dell'Aufklarung, l'ortodossia marxista, e cosi posizioni che vorrebbero essere fedeli al materialismo dialettico si rivelano affezionate a un legalismo della ragione che non si slaccia dall'Ottocento. Una domanda comunque s'impone, quale senso abbia assumere garanzie giuridiche a centro di problema, cosa resti (travolto che sia - come è - _il modello liberalborghese) del valore, sia pure ideologico, delle garanzie di libertà. E come salto di qualità çhe chiude il dibattito (e ne apre uno ben più importante e difficile) è da prendere a indicatore l'articolo di Umberto Eco («Che genere di lupi?», in Alfabeta, numero 15/16, luglio/agosto 1980, p. 3) in quanto obbliga a pensare il tema della «libertà in un universo tecnologico in cui tutte le opinioni circolano in ritmo diverso che nel settecento, e raggiungono tutti gli strati sociali», in quanto obbliga a forme di pensiero che della dialettica materialistica conservino il cuore e non le parvenze. E il rapporto linguaggio-oggetto allora viene a emergere. I nfatti altra spia di un terreno comune (e arretrato) ai protagonisti del dibattito sul garantismo è il problema del rapporto che il linguaggio istituisce con il suo oggetto, proprio in quanto problema da essi evaso. Nel caso il linguaggio è sempre rappresentativo di normatività e svela l'omogeneità di una forma di pensiero metafisico che «descrive» i confini delle garanzie in termini concettuali come un sistema di elementi-dati, esterni. Non si riflette sul carattere interpretativo/ imperativo del parlarne, sulla fine incombente nella nostra cultura - e sui suoi riflessi nel giuridico - della metafisica contemplazione autoritaria di obiettività e certezza. Il discorso normativo può essere radicale solo in quanto pratichi la sua fondamentalità, sia istigazione nel fatto dell'uso stesso della parola. E nell'ortodossia della tradizione giuridica l'istigazione all'ossequio e alla conservazione per astrazione del reale è occultata dietro il parlare di normè (e ben si comprende l'essenzialità epistemologica della dicotomia esseredovere a fondazione della teoria giuridica, e la sua ineliminabile dipendenza dall'universo di pensiero borghese, e la necessità - se rottura si vuole - di passaresuterreniqualiquellosuggerito da Eco), e ciò per - e da ciò la - «scientificità», prescritta e prescrittiva, teoria come contemplazione di essenze normative. Così parlare di norme (e le garanzie sono tali) è dicere jus, prescrivere, e gerarchizzare, ove gerarchia è tracciata dai fatti. La lezione negriana de li dominio e il sabotaggio. ricerca di un diverso modo del discorso sulle norme, sembra progetto troppo avanzato. Cesare Donati E qui invece, nel dibattito sul garantismo, si resta arroccati alla contrapposizione di Stato e diritto, più indie- ·tro dello stesso Kelsen, e si continua a sentire una nota stonata, che viene dallo strumento, il tradizionale «sapere giuridico», barriera alla riflessione sulle coordinate di campo, possibilità e scelta, categorie di nuova ragione sociale. Si riflette il dualismo borghese, e allora o lo Stato si fa etico e pedagogico - e il partito sua anima perversa - o il diritto si ricollega alla morale - e sono varianti neokantiane e giusnaturalistiche. La contrapposizione Stato-diritto è già di per sé, in quanto contrapposizione, atto di dominio, che se non cale per gli autoritaristi, fautori di dominio politico «autonomo». (rectius, portatori d'interessi di burocrazie partitiche sindacali - parallele a quelle statuali e manageriali) ha invece peso per il pensiero garantista. Non solo, anche sulla struttura interna di dominio che il garantismo comporta occorrerebbe riflettere, sulla logica di gradi, di subordinazioni, di limitazioni ove norme garanti presiedono a norme garantite. Riflettere sulla dimensione di «restaurazione» che è perno dei temi garantistici, e sulla nozione di «decadenza», suo logico sottinteso: la condizione non decaduta, nel caso, s'identifica con il liberalismo borghese. E tutto questo riconduce al tema della perfezione anteriore e originaria, quella del libero mercato come fondamento. Sembra divagazione questa introduzione, ma è resa necessaria dal peso dato nel dibattito alla contrapposizione: più diritto e meno Stato (i garantisti), più Stato e meno diritto (gli autoritaristi). E il rigido contrapporsi aveva già fatto dubitare che il tema garantistico valesse solo come epifenomeno e che era invece nell'uso del diritto fatto nelle dinamiche sociali che si collocava il problema (cfr. Romano Canosa, «Sistema giuridico tra garantismo e istituzionalismo», in Quaderni piacentini, 67-68, I 978, pp. 11-32). Cosl proponeva di spostare la discussione su altro piano. E merito di Canosa è anche questo suo essersi esposto a parlare di giusnaturalismo («Il garantismo oggi», in Quaderni piacentini, 72-73, 1979, pp. 35-5 I) e di avere espresso una «necessità di una sorta di nuovo giusnaturalismo attraverso cui passino le esigenze e i bisogni insoddisfatti delle masse», proponendo il «problema della costruzione permanente di una nuovanormatività». E mentre il garantismo maschera elementi di giusnaturalismo avviene che Canosa individui lo sbocco del processo di riflusso della dottrina giuridica dello Stato (tempo alto della civiltà borghese) nel giusnaturalismo, sintomo di gracilità borghese, fase di «ritorno». Egli si libera della zavorra dei diritti pubblici soggettivi e risale dalle acque fonde della teoria giuridica alla superficie della ragione dove flottano i diritti dell'uomo. Ma il quesito si ripropone: quale uomo? E l'illuministica ragione non riconduce alla pania di una nuova «natura» modellante, la società intesa come principio di ordine? Certo il tema qui proposto, quello della «costruzione permanente di una nuova normatività» lascia spiragli aperti su destrutturazione e flussi e si promette al problema della crisi della ragione giuridica. M a non è più nel mito dell'ordine - natura e/o ragione - che si • può trovare significato e progetto. Infatti la continuità si rivela pericolosa: «Il garantismo muta di segno: da sistema di garanzie delle libertà individuali e del dissenso diventa sistema di garanzie di sicurezza, a tutela non più dei cittadini ... ma dello Stato e delle sue 'democratiche' istituzioni contro il dissenso e l'opposizione dei cittadini.» Così Ferrajoli («Esiste una democrazia rappresentativa?» in L. Ferrajoli e D. Zolo, Democrazia autoritaria e capitalismo maturo, Feltrinelli, Milano, l 978, p. 56) che è oggi il più elaborato teorico del garantismo e che dopo il «7 aprile» ha ribadito le sue posizioni («L'infausto abbecedario della scolastica terzinternazionalista», in il Manifesto, 24 luglio 1979) in risposta a Rossana Rossanda («Perché non sono più 'garantista'», ivi, 17 luglio 1979) la quale, dopo avere riaffermato il suo garantismo meramente processuale ne aveva negato però l'uso politico, c'è da credere nella cautela di evitare di trovarsi- con tale uso politico - gomito a gomito con i teorici della «legalità democratica». Pochi giorni dopo il giornale ospita ll!III 1Wi/J un articolo che ricostruisce il quadro individuando uno dei possibili aspetti del problema centrale, scritto da un magistrato, Giancarlo Pellegrino («Il garantismo non è né una prassi proces, suale né una teoria istituzionale. Ma un modo (tradizionale) di intendere il rapporto tra diritto e politica», ivi, 5 agosto 1979) che espone la tesi enunciata nel titolo e precisa che il garantismo «ha un senso se s'ipotizza un'oggettività .del quadro normativo» ma che «proprio questa oggettività non esiste» cosicché la rottura dello schema di separazione tra politico e giuridico che il modello borghese esige e che le pratiche cosiddette alternative del diritto (i pretori d'assalto!) avevano incrinato viene ad essere recuperato nella non separazione tra diritto e partito,inbellaconvivenzacon il capitale. Questo rilievo non è trascurabile, e di ciò a tra poco sub «legalità». Torniamo all'«opuscolo» feltrinelliano di Ferrajoli e Zolo per ricordare che quest'ultimo, nel saggio «Democrazia corporativa, produzione del consenso, socialismo» (pp. 67-101) dà per «prioritario il recupero rivoluzionario della tradizione garantistica ... la fondazione di un garantismo tardocapitalistico» come risposta al nuovo sisterna di potere. La proposta ci sembra poco pertinente, non foss'altro che per il suo essere tutta sovrastrutturistica, foriera di rischi di ricaduta in giusnaturalismo occulto e legalità politica. Ma il garantismo oggi sembra altro, appello alla tutela delle minoranze, seppure poco proponibile in tempi di deperimento della dottrina politica dell'opposizione, o, ancor più riduttivamente, del principio d'eguaglianza. Forse occorrerebbe riesplorare la base materiale per orientarsi meglio, e ricorrere ad analisi storiche per vedere nel garantismo il momento conclusivo - e di compromesso - di una lotta di classe che aveva proclamato vittorie e sconfitte ed esigeva una sintesi (in patto - costituzionale - sancita, appunto) che facesse riprendere il cammino con reciproche garanzie. Ciò servirebbe a far chiarezza; e in tale direzione si muove Antonio Negri quando, dal carcere, nell'estate 1979, scrive: «li garantismo è la stessa cosa del costituzionalismo, considerato prevalentemente dal punto di vista delle procedure» («Per un garantismo operaio», in Critica del diritto, 15, p. 18) e chi conosce il pensiero negriano in merito al costituzionalismo, del quale in garantismo è definito come sottoinsieme, ormai paravento di subordinazione al governo di legislativo e giudiziario, non può avere molti dubbi; ma, semmai, una certezza, che la critica di Negri allo «stato dei partiti» è stata profetica. Di questo diremo fra poco, ora ancora uno sguardo alla letteratura garantista, per ricordare che esiste anche una letteratura sulla letteratura, le recensioni dell'«opuscolo» Ferrajoli-Zolo. Eleonora Fiorani Leonetti «apre» al vero problema («Nuova sinistra e classici», in Alfabeta, 3/4, luglio/agos.to I 979) tentando il terreno con riserve sullo «azzeramento di fondo della politica proletaria» che i garantisti operano e arrivando infine alla critica che colpisce il -loro impianto teorico con questo esergo: «Secondo Illuminati gli autori procedono ... a una nuova fondazione antropologica del marxismo in cui sostituiscono ai rapporti di produzione 'la costituzione trascendentale dei soggetti'; con ciò la loro posizione presenta accanto al merito di una polemica rivelatrice, un carattere contraddittorio». Il riferimento è alla precedente recensione di Augusto llluminati («Democrazia autoritaria e neogarantismo», in Monthly Review, febbraiomarzo 1979, pp. 42-45) con la quale il discorso sale insù, prende una folata di vento e si colloca in alto. Eccone il cuore: «Il neogarantismo italiano per un verso accentua alcuni caratteri giusnaturalistici (Stame), l'assoluta autonomia del soggetto presociale e supersociale rispetto alla società politica, per altro (Zolo) radica questo orientamento in una nuova 'naturalità' che è quella dei bisogni frustrati dall'emancipazione borghese ... (la sua) fondazione antropologica (gli) dà un contenuto preciso ... la tutela degli spazi di autonomia dei nuovi soggetti sociali e dei nuovi bisogni che si risolve (Donolo) in democratizzazione dei processi decisionali e deistituzionalizzazione di ambiti di vita». Quello che è messo in evidenza è la ..., contraddizione interna che il garanti- "' smo oggi reca seco, una certa sua de- .s crepitezza, la rivendicazione dell'indi- ~ viduo astratto. «L'individuo prodotto ~ con lo Stato si salva in esso (e cade con ~ esso)» e se a tale nesso di soggettività si aggiunge che «la legge aderisce a 1( ogni forma di statualità borghese, il .; suoprimato è identitàcon loStato»,si -~ vede quanto vi sia d'illusione edipica ~ nell'appello del fanciullo cittadino alla 1( materna legge contro il severo Stato: .; la loro connivenza-convivenza è indis- _ ~ solubile. Perciò «la rivendicazione li- g bertaria del neogarantismo è, in tali ::; termini, contraddittoria». .; E chi vuole approfondire l'analisi ha l: oggi a disposizione, per un più ampio 1; quadro, l'ultimo libro dello stesso au- <l:!, . tore (Augusto Illuminati, Gli inganni <i

...., di Sarastro, Einaudi, Torino, 1980. Cfr. anche Costanzo Preve, «Dopo l'operaismo», in Alfabeta, 15/16, luglio/agosto 1980), ove vengono sviluppate in più punti le analisi (in particolare cap. VI) dei limiti dei «doni» politici dall'alto e del modello politico borghese e delle sue riapparizioni camuffate, con le sue ingannevoli «garanzie», appunto, con le sue vie e varianti kantiane ed hegeliane, con i suoi sbocchi normativisti e decisionisti. La critica politica più radicale qui condotta al garantismo sta nell'individuarlo come sistema teorico a «carattere difensivo, inadeguato a fondare una strategia di cambiamento sociale» (p. 148), e nello stesso tempo vale richiamo all'esigenza che i grandi temi della filosofia politica siano esploratie la loro storia - e con essi la compatibilità di garantismo e deperimento della proprietà privata dei mezzi di produzione, sua base materiale. Q uali sono infatti le torsioni che le categorie del diritto pubblico cui la borghesia diede assetto costituzionale hanno subìto con il passaggio allo «stato dei partiti»? Una breve parentesi. L'impianto teorico dello stato borghese - vale ricordarlo - esige separatezza di società e stato, sistematizzata dai giuristi come teoria di stato-società/stato-governo (e nei manuali di diritt9 pubblico continua a boccheggiare la derivata distinzione scolastica forme di stato/forme di governo!) dalla quale discende la definizione di legge come espressione della società (e non del potere). Qui trionfa la cultura illuministica con il mito del Legislatore come fonte della legalità garantita allo stato-governo dal controllo esercitato per via di as- • semblee dallo stato-società. Certo è proprio uno schema. Ma lo schema subito salta quando la crisi del mercato denuncia conflitti d'interesse non più componibili privatamente, e lo Stato interviene nel sociale, e, di converso, competenze pubbliche passano alla sfera privata. Associazioni private, i partiti, si fanno istituzioni dello Stato, con funzione di produzione di consenso e legittimazione. In ragione di ciò i partiti perdono segno di classe e si investono- ognuno - di un presunto interesse generale (maschera di interessi_ dominanti) basilare per poter teorizzare una feticcia rappresentanza - ormai rinunciata - «nazionale» ieri, «democratica» oggi, ambedue varianti ideologiche della gestione del potere statale. È così che il sistema «democratico» dei partiti si fa centrale per la comprensione del processo di svuotamento di legalità e garanzie, e infatti le garanzie praticabili sono sempre più quelle politiche e, insieme, sempre meno quelle giuridiche. «E in questa particolarità si dimostra sempre più il ruolo oligarchico dei partiti politici italiani e sempre più si confermano le caratteristiche di regime ... l'ingresso dello stato nelle condizioni della propria illegalità». Così Paolo Pullega nella sua armoniosa analisi ( «Tackels: colpire duro», in li cerchio di gesso, sesto/settimo, novembre 1979, pp. 18-21). Legalità aveva infatti senso, nel modello liberal-borghese, come principio di sottomissione di amministrazione (non ultima quella di polizia) e giudici al «popolo sovrano» attraverso il processo di formalizzazione. È chiaro allora che legalità non sopporta aggettivi, se non, per ridondanza, «giuridica». Ma allora non è segnale da poco il fatto che i teorici autoritaristi introducano nel loro discorso, e ne facciano un punto di leva, un postulato, spesso nascosto, la nozione di «legalità democratica». È così, a parer loro, che «il tema delle garanzie ... riacquista la sua compiuta dimensione di salvaguardia della legalità democratica tutt'intera» (d. pul.= Domenico Pulitanò, «Giustizia penale, garanzie, lotta al terrorismo, in Democrazia e diritto, 3, 1979, p. 488). Suona bene «legalità democratica» ma è solo artificio che permette di dare parvenza logica al rovesciamento del principio garantistico. L'assenza di cultura storica è complice, e lo nota Pio Marconi (AA.VV., «Garantismo: la prova del fuoco» - Tavola rotonda (parti essenziali) del 14 novembre 1979, in Mondo operaio, 12 dicembre 1979, pp. 59-71) quando precisa che estendere oltre l'habeas corpus la no- ::: , zione qui discussa «ci porta indietro ~ nel tempo ad una concezione primitiva • ~ di garantismo, a quel garantismo di s; Bacone e di Hobbes ancora intriso di statalismo ... al principio secondo cui il giudice è tenuto ad agire in consonanza con l'interesse politico». La teoria della divisione dei poteri - notoriamente posteriore ai due classici ricordati da Marconi- immagina però la figura «Stato di diritto» come modello ove il garantito (ex definitione, come in ogni rapporto di garanzia, il più debole della triade, altrimenti non avrebbe alcun bisogno di essere garantito) è il «cittadino», il garante la «legge» (come legislativo) e i poteri da (contro) i quali si è garantiti esecutivo/ giudiziario. Il modello si fa grottesco all'ipotesi che i giudici vadano a farsi garantire (alias, guidare, manipolare, asservire) dall'esecutivo - o per esso dai partiti- contro il terribile e diabolico individuo. E passaggi argomentativi in tal senso sono sviluppati da Pietro Barcellona («Costituzione, partiti e democrazia», in Democrazia e diritto, I, 1978, pp. 21-31) ove viene riconosciuta la dissoluzione della fondante antitesi società-Stato, ma-sfuggendo la figura di «capitale» - si sviluppa l'ipotesi del diritto che rafforza lo Stato (modello speculare al garantista). Scomparsa la dicotomia società-Stato, e, necessariamente, accettata l'idea di riversare il sociale nel diritto (e conservata la dicotomia Stato-diritto) non v'è da stupirsi che il modello si rovesci. Ma occorre ben dire che analogo rovesciamento passa anche tra i garantisti quando, per sfuggire alle critiche che denunciano la preminenza del soggetto borghese si fa perno sul sociale asserendo che« ... non è il soggetto individuale che si pone il problema delle garanzie ma si tratta sempre del rapporto tra esplosione dei conflitti sociale e loro mediazione istituzionale» (Federico Stame, «Conflitti sociali, individuo e Stato», in Rinascita, 10, 10 marzo 1978, p. 24). Eppure, proprio contro forme di politicizzazione del giuridico, lo stesso autore aveva espresso il corretto rilievo che da due secoli «non vi è moderno teorico antidemocratico che non basi la propria elaborazione sul principio tiella situazione eccezionale» (Federico Stame, «Legalità e regole del gioco», in Quaderni piacentini, 74, 1980, p. 19). E ciò a rafforzare la risposta netta già data da Marco d'Eramo ( Garantismo: la prova del fuoco ecc., AA.VV., cit., p. 63) a quanti gridano «siamo in guerra!» D'Eramo precisa che si tratta di vero «abuso logico» quello di introdurre nozioni di «guerra» nello Stato di diritto; allora bisogna avere la chiarezza di negare il modello liberale. Il filo che va da «inique sanzioni» - retorica dell'assedio - a «emergenza»- retorica del disordine - non è spezzato. L egalità ·è categoria della cultura giuridica borghese e aggettivarla come «socialista» o come «democratica» è soffocarla nel politico. Così «legalità socialista» o «legalità democratica» sono incluse nella più vasta «legalità politica», forma abbreviata per «legalità al di fuori dalle leggi» e perciò - e logica del paradosso - «suprema». E legalità politica altro non è che la ben nota Ragion di Stato. Grazie all'ennesimo rovesciamento legalità sta per legalismo e postula principio di soggezione, la critica stessa all'Ordine - «socialista» o «democratico»-diviene quindi illegale, mentre si fa le 6 ale (legale per mero significato di uso delle leggi, forma giudiziale) colpire il dissenso. Ecco allora la nozione di «legalità democratica» che vale come principio di rapporto immediato tra esecutivo e giudiziario (e donseguentemente di esclusione del parlamento, ridotto a camera di registrazione di patti segnati in camarille e mafie) ove il collante è il sistema dei partiti elevato a tutore della categoria politica che lo sorregge e a inquisitore di democraticità. Il garantismo allora (e questo «garantismo allargato» (sic) lo si trova puntualmente elaborato dagli autoritaristi più adusi a forme culte) diviene garanzia de/l'interferenza di «soggetti sociali» (alias sindacati e partiti) nella giustizia e non più garanzia da/l'interferenza. Lo Stato «di democrazia» risulta così fondato sul non dissenso ove il démos è ristretto nel banale e nell'insignificante e dove il confine «democratico» ridefinisce la coppia legalità-illegalità con il suo carattere vuoto e arbitrario, proprio all'interno dell'universo giuridico dove infiltra vieppiù le «passioni» che la «ragione» sarebbe presunta controllare. Si produce così la giudizialità del sospetto come risonanza della crisi del potere ove si radica la teoria della doppia legalità. E oggi la doppia legalità penale fa parte del sistema vigente, i giornali ne parlano (Guido Neppi Modona, «Un diritto penale per i terroristi», in la Repubblica, 18-19 maggio 1980), come di «una sorta di diritto penale speciale con norme la cui applicazione è circoscritta a una determinata categoria di imputati: i presunti terroristi e i loro fiancheggiatori». Un diritto di pace e uno di guerra si embricano con fondazione comune nel «presumere». È chiaro che la norma (speciale) si applica spesso a imputati che sono tali solo per il fatto di essere «sospetti», e allora sarebbe più corretto dire che si tratta di norma (speciale) che si applica a chiunque (sia sospetto al potere) e perciò lo trasforma in imputato (speciale). Dice il proverbio: «Chi è in difetto è in sospetto», allora si potrebbe ben parlare del Potere Difettoso. Invece seguiamo Neppi Modona che riconosce l'esistenza di due sistemi paralleli, quello speciale contro il terrorismo e quello ordinario («Leggi speciali e nuovo Codice», ivi, 29-30 giugno 1980), come se il fatto che siano due, cioè separati, li fornisse ambedue di equidegna benché- e perché- distinta legalità! E poi ancora la stessa piroetta logica, si dà per scontato che norme di guerra colpiranno «i terroristi» come se fossero individuabili oggettivamente ex ante, Jl)entre sarà il sospetto (neppure si deve parlare di «presunzione» che diritto ha significati precisi) a far di tali norme il catalizzatore produttivo di «terroristi». Eppure è lo stesso autore che scrive nel frattempo un articolo («Lasciate in libertà gli avvocati difensori», ivi, 25 maggio 1980), ove si esprime l'esigenza che il principio - liberal-borghese - di parità tra accusa e difesa sia salvato; e ciò quando vengono ammanettati gli avvocati Spazzali e Fuga ed Edoardo Arnaldi, stoicamente (commoventi analogie si sentiranno risuonare se si legge Tacito, Annali, 61-64), si nega al potere con il suicidio. Certo, a volte i sentimenti la vincono, e questo è bello; ma se vogliamo essere logici perché non ammettere che, dati due sistemi penali, vi sia anche difesa «ordinaria» e difesa «speciale», e che gli avvocati dei «terroristi» debbano essere chierichetti, che parlino a capo chino, che invochino, al più, clemenza? È segno della confusione dei tempi. Neppi Modona, dopo il «7 aprile» chiese, sulla stampa del Pci, «rispetto del principio costituzionale di non colpevolezza degli imputati» («La verità e il processo», in Rinascita, 34, 7 settembre 1979) e ciò gli valse una arrogante tirata d'orecchie di un sapiente partitico che di lì a poco sentenziò cosa vi fosse di «giusto» (cito) e di «sbagliato» (cito) nell'articolo del giurista. È l'articolo di Ugo Spagnoli («La discussione sul processo del 7 aprile e la lotta al terrorismo», in Rinascita 36, 21 settembre 1979), che arreca disagio con il suo tono di doverosità e prescrittività pedagogiche, esemplare per lo stile ecumenico dell'argomentare: «La nostra ottica supera i limiti delle garanzie processuali ... investe tutti i diritti del cittadino ... si estende alla collettività ... ». Per dilatazione (il «garantismo allargato») il problema è svuotato, il significato di «garantismo> sovvertito. I processi di Mosca, Budapest, Praga sono sullo sfondo e giocano in prospettiva con la storia dell'intolleranza, con i fumi inquisitoriali. La coppia amico-nemico, la doppia legalità si rivelano capaci di portare a conclusioni che lasciano attoniti. Si veda Marco Ramat («Il grande processo politico indiziario- Venti schede per un garantismo effettivo», in Democrazia e diritto, 6, 1979, pp. 791-808) ove si legge: «Per il garantismo e per il funzionamento delle istituzioni è necessario avere dei servizi segreti funzionanti e buoni, solo così il gigantesco processo politico indiziario, con tutti i suoi guai, non ci sarà più». Processo indiziario dunque (senza prove) e politico (senza garanzie), doppiamente negativo dunque («con tutti i suoi guai»). Nostalgia del buon tempo antico quando la «mano invisibile» faceva della giustizia affare interno della classe dominante. Ecco, allora occorre una nuova «mano invisibile», meno smittiana, più cattolica. «La democrazia, i suoi diritti, i suoi protagonisti, tutto insomma ciò che ci fa considerare liberi, ha estremo bisogno di una protezione segreta, proceduralmente scorretta, al limite illegale». Braccio secolare? Certo «doppia legalità> estrema. Il diritto si fa garante della società come metodo (è allora l'epistemologia del sociale che occorre sia garantita) e diffonde giudiziarietà ovunque, non una società poliziesca solamente, ma un tribunale diffuso, il suo rito le figure della delazione. La violenza degli apparati produce norme comunicate informalmente, l'esibirsi stesso del poliziotto come simbolo di violenza irresistibile si fa normativo. Così l'abusivo, l'arbitrario, l'oppressivo delle organizzazioni di potere si offre come tema privilegiato agli strumenti della ragione, all'analisi razionale dell'irrazionale. Un ultimo spostamento di piani viene al nostro tema da un giurista più di altri sensibile al sociale che rinvia al «controllo di un'opinione pubblica 'libera' ...ultimo baluardo ... di quel che rimane del garantismo nello Stato di ordine pubblico» (Ernesto Bettinelli, «L'affare Negri nello Stato di ordine pubblico», in Argomenti radicali, 12-13, 1979, p. 66). Ma è questo ideale che induce a riflettere sulle giovanili indagini habermasiane (e loro sviluppi), sulla morte di canali di comunicazione sottratti alla manipolazione. Il baluardo, nel caso, s'è rivelato ben debole. E Rossana Rossanda può scrivere: «Che si sia sopportato il 7 aprile e il 21 dicembre senza un sussulto, è cosa da cui si misura la temperatura non dei 'garantisti' ma di una nazione> («A un anno dal 7 aprile», in li Manifesto, 8 aprile 1980). e ome concludere? A parte una più generale riflessione sulla venuta del tempo dei «sentieri senza fine> e dell'inconcludenza, si può tentare di limitarsi a una riflessione iniziale di sapore empirico: perché l'uso di «garantismo», neologismo polisemantico, è divampato? Forse per la possibilità offerta di riannodare fili politici (se non persino partitici) e di tentare sintesi («un nuovo tipo di garantismo il cui aspetto individuale è coniugato con azione collettiva», Stefano Rodotà, «Garanzie democratiche e lotta al terrorismo> - Tavola rotonda, in Rinascita, 37, settembre I 979). Non si parla di diritti individuali (sedicenti «inviolabili»), con i quali i garantisti potrebbero farsi carico del loro rispettabile bagaglio liberal-borghese, né di diritti sociali che con i loro significati popolarsocialisti meglio si adatterebbero agli autoritaristi. Ma allora sorgerebbero i veri problemi. Come si potrebbe parlare di diritti sociali senza entrare nel problema del decisionismo statalistico, della trasformazione, sotto il manto di «legalità politica» della «legalità democratica» in «legalità socialista»? Quale posizione potrebbero prendere i giuristi che la scherniscono quando parlano di diritto sovietico (e polacco)? Nessuno potrebbe comunque nascondersi dietro il «garantismo come teoria positiva», strumento usato per tale «trasformazione». E come parlare di diritti della «persona» - della maschera - se il soggetto è divenuto punto fluttuante di un sistema di tensioni esitate da strutture inconscie e sovra personali («impersonali» come sub e super personali) alle quali dare forse solo qualche appiglio in riferimento alla devalorizzazione? Allora bisognerebbe prendere atto anche della verità che il carcere rinserra dal 7 aprile non «soggetti> di decisioni personali (con tanto di coscienza e volontà) ma simboli di rivolta. Non è ciò che hanno fatto che li condanna ma ciò che rappresentano. È oggi in questo «rappresentare> che si fonda la «responsabilità>. Responsabilità comunque rispetto al respiro lungo della storia e non all'ansimare del diritto borghese. Quali garanzie per l'individuo se la sola scelta che oggi ognuno vuole garantita è quella di individuare negli altri alleati e nemici? Tale garanzia non viene dalle leggi ma dallo slancio e dall'apertura al rischio, alla divergenza, all'infrazione. La polemica sul garantismo ha rivelato - se occorreva - l'inadeguatezza della struttura concettuale del diritto che ha operato come mera cassa di risonanza del passato, ed ha proposto il compito di oltrepassare i divieti di tutta una struttura logica rarefatta. Rinuncia dunque all'uomo cartesiano, abbandono dell'illusione giuridica, elaborazione di una teoria del distacco.

Comando Supremo dell'Esercito Italiano. Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il servizio fo. tografico e cinematografico Roma, 1917 cLa guerra rappresentata,., in Rivista di storia e critica della fotografia, I, l, 1980 11 punto di partenza, ma anche la causa occasionale, di queste brevi riflessioni è costituito da due oggetti molto parziali: un insieme di fotografie censurate durante la Grande Guerra e il fascicolo Norme per i corrispondenti di Guerra. Prescrizioni per il servizio fotografico e cinematografico, stampato nel 1917 dal Comando Supremo dell'Esercito Italiano. Entrambi questi oggetti sono stati proposti nella mostra La guerra rappresentata, tenutasi recentemente ad Asti, e nell'omonimo fascicolo della Rivista di storia e critica della fotografia che lo accompagnava, diretta da Angelo Schwan. Una immediata osservazione. Nel caso che ho preso in esame, la censura si svolge secondo modalità rigidamente regolate, e suddivise in due movimenti. Primo movimento: 11n sistema di norme che prescrive quantità e qualità delle fotografie consentite, prevedendo i modi di produzione ammessi e quelli vietati, i messaggi ammessi e quelli vietati, il materiale pro-filmico (cioè gli oggetti reali) ammesso e vietato. Secondo movimento: le fotografie, una volta prodotte, vengono proibite o accettate apponendo nel primo caso un tratto di penna o una motivazione scritta su di esse, e nel secondo caso un timbro di permesso sul retro. Fra le norme più curiose, potremmo citare quella che prescrive di girare ogni mille metri di pellicola almeno duecento metri con soggetti forniti dal Comando (e cioè ogni tipo di alti ufficiali); oppure quella che non si limita a descrivere oggetti proibiti (armi strategiche, postazioni difensive), ma anche sentimenti proibiti (immagini che possono abbassare il morale dei soldati e della popolazione). Riassumendo: la censura esercitata da un'istituzione (in questo caso l'esercito in nome dello Stato) si svolge secondo una legge esplicita e secondo una pratica esplicita, che alla prima rinvia. ln altre parole, si svolge secondo un sistema che ha tutte le caratteristiche di un sistema semiotico: un tipo prefissato, e delle occorrenze individuali; una grammatica e delle frasi grammaticali. In entrambi i casi, l'istituzione si firrna,e dice cio,.. E la censura avviene materialmente secondo la modalità che etimologicamente è espressa dalla parola la cui radice è la stessa di «censimento,., misurazione, e non «censura,. = taglio come nell'uso corrente, e dunque attraverso una «censura,., una classificazione, un principio dichiarato e attivo, non implicito e passivo. In sostanza, la censura è un'azione, non la negazione di un'azione. Non è un «non far sapere,., ma un cfar sapere,. diverso dal «far sapere,. comune, nonché una produzione di sapere. La questione è meno banale di quel che sembra, e vediamo perché. Noi sappiamo che esistono numerosi modi della censura, di cui il vero e proprio taglio, che conosciamo oggi, cioè un'operazione attiva e impersonata da qualcuno (il carceriere che cancella frasi delle lettere dei detenuti, il pretore che taglia scene di un film, il prelato del Sant'Uffizio che mette all'indice le pagine di un libro) è soltanto quella più evidente, quella che agisce direttamente sul corpo sociale o su un suo rappresentante. Ma altre forme di censura possono essere perfino più forti. Non è questa la sede per esaminarle; basterà qui solo accennare per esempio alla censura collettiva, frutto della pressione sociale, che funziona - per cosi dire - per «astensione,., cioè attraverso la consegna implicita del silenzio; o alla cosiddetta «censura del mercato,., che funziona per mancanza di alimentazione economica di un prodotto culturale; o alle varie censure LaGrandeCensura operate dai mezzi di informazione, che funzionano attraverso strategie sintattiche (giustapposizione, confronto, inversione d'ordine delle notizie) o addirittura per «addizione», cioè aggiungendo qualcosa in più a una notizia, col risultato di produrre non già una somma A + B, ma un diverso oggetto AB. Q uel che voglio proporre in questa sede è che la censura, nel suo senso etimologico di «censimento,., sia la forma propria deUa censura istituzionale, e che nel suo assetto di sistema sia produttrice di senso. Di più: che sia addirittura l'unica forma di censura attuabile e conveniente per l'istituzione. La ragione risiede nel fatto che la censura, lungi dall'essere una pura sottrazione o detrazione di un oggetto o di un evento dalla sua circolazione pubblica, è anche un atto linguistico, una costruzione di discorso. Come ho già detto, essa comporta infatti non solo un'azione, ma anche una enunciazione con una firma, e il cui soggetto è sempre un «io». In termini di teoria dell'enunciazione, questa è appunto la caratteristica del discorso, contrapposto alla «storia», il cui soggetto viene sempre nascosto, (de)negato per mezzo di terza persona, tempo al passato, eliminazione del equi e ora». Se questo è vero, l'atto del censurare consta allora di due diversi momenti funzionali: uno diretto negativamente contro l'oggetto della censura, ed uno diretto ad affermare l'identità del censurante. E poiché il fatto che qualcuno censuri qualcun altro è la manifestazione di un potere, questa affermazione di identità diventa l'affermazione dell'identità del potere. Anzi: la sua riconferma e la sua legittimazione mediante un atto linguistico. Il potere costruisce un diritto di prendere la parola, cioè rende concreta la propria sovranità, e poi prende la parola secondo diritto, cioè attua una disciplina. Portando il discorso alle estreme conseguenze, potremmo forse spingerci ancora più in là, e sostenere addirittura che è proprio questa seconda funzione a divenire assolutamente predominante. In certi casi, insomma, è più importante censurare per autolegittimarsi che non censurare per reprimere e prevenire. Questa priorità - la storia ci dimostra - diventa imprescindibile laddove una crisi istituzionale sia forte, o laddove una situazione di emergenza renda necessaria una coesione del potere. Lo stato di guerra, ad esempio, è per definizione il momento della massima emergenza, e conseguentemente della massima censura. Il paradosso di tutto ciò è che al limite si può dare una fortissima censura senza che vi sia nulla da censurare. Un esempio di quanto sto affermando è offerto per l'appunto dalle foto censurate dal Comando Supremo dell'Esercito Italiano, e dalle regole prescritte dal libretto citato in apertura. Come nota Ando Gilardi ne cl tabù Omar Calabrese impossibili della censura fotografica militare», appartenente al suddetto fascicolo della Rivista di storia e critica della fotografia, in realtà queste famose Norme non sono poi nulla di speciale. Quasi dispiace, anzi, che esse non siano rigide. È un furto al nostro sempre disponibile senso dell'indignazione. Non sono, ad esempio, più rigide delle regole che presiedono all'opera della censura cinematografica odierna negli Stati Uniti. E si risolvono in elenchi di immagini da non riprendersi perché oggetto di spionaggio, o di rappresentazioni proibite per non danneggiare il morale dell'Italia combattente. Le fotografie, poi, sono spessissimo oggetti anonimi, e la loro censura ci risulta incomprensibile, se non motivata appunto dalla fondamentale ragione che l'atto del censurare sia necessario assai più che non la scomparsa del censurato. Perché mai, ad esempio, cassare l'immagine di una chiesetta bombardata dagli austriaci, quando questa anzi potrebbe provocare un aumento dell'indignazione popolare? O perché eliminare l'immagine della distruzione di un negozio di pollivendolo? li Forse per via della possibile metafora «ci uccidono come polli»? O, al limite, quale stranezza e perversione risiede mai nella foto di un cannone scoppiato, un piccolissimo cannone che è perdita altamente prevedibile per un esercito in guerra, e che potrebbe essere confrontato con cannoni nemici parimenti scoppiati ma molto più grossi? A mio parere non è utile cercare ragioni puntuali e specifiche di ogni singolo atto censorio, chiedersi perché quella immagine individuale sia stata censurata. In molte occasioni, probabilmente, si tratta solo di varianti la cui esatta decifrazione è meno pertinente che non l'analisi del dato comune, dell'invariante dell'atto censorio, che è il modello di cui esse sono occorrenze concrete. In molti, troppi, casi infatti l'unica spiegazione di buon senso sarebbe che il censore era completamente stupido. A nche la questione della stupidità, come diceva Musi!, non è però priva di rilievo. Domanda: il censore stupido è utile o disutile all'istituzione che lo impiega? La logica che regge questo intervento risponderebbe: indifferente. La stupidità del singolo censore è in effetti ampiamente prevista dall'istituzione. Ho già detto che a mio parere il fondamento della censura istituzionale è l'atto censorio autolegittimante, non l'oggetto da censurare. E che pertanto la censura deve essere firmata, prodotta da qualcuno che dice «io». Ma dice «io» a chi? Ecco il nuovo problema.· L'atto censorio, per essere veramente efficace, deve non cancellare l'oggetto censurato, ma quasi-censurarlo. Se l'atto censorio non diventa palese, se resta segreto, il suo valore di autolegittimazione cala sensibilmente. In questo senso, dunque, l'istituzione vuole, anzi deve far sapere il proprio operato. Molte sono le forme in cui ciò può accadere. L'editto, per esempio: si annuncia con clamore che c'è la censura, si fa divenire il sistema delle regole di cui abbiamo parlato esso stesso un atto linguistico. O l'indiscrezione: si fa sapere che c'è un segreto pt:r far sapere che c'è la segretezza. E cosi via, in una casistica minuziosa, che può comprendere la stessa stupidità: lo stupido è ridicolo e clamoroso; ma il ridicolo, proprio perché è ridicolo, si diffonde rapidamente; e non solo in quanto ridicolo; esso porta infatti con sé anche una traccia, un indizio del superiore e serissimo ordine o sistema di cui esso è soltanto un incidente. In tal senso, la censura stupida diventa subito anch'essa una qua~i censura, o una rappresentazione della censura. Come le sbarre nere sui capezzoli delle attrici nude nei manifesti dei film cochons. Nuova domanda. Se è vero, però, che ogni repressione ed ogni autolegittimazione producono, anzi quasi gemmano, la rivolta, qual è l'utilità vera della censura per l'istituzione? Abbiamo visto che l'oggetto censurato ha una importanza relativa. Se adesso cominciamo a limitare quella dell'autolegittimazione, dove sta più il fine? Innanzitutto, diciamo che nel caso della censura siamo di fronte ad una forma particolare di autolegittimazione. È l'autolegittimazione in virtù di una morale, di un principio di ordine «superiore». Il bene comune. Il benessere dei cittadini. La difesa della patria. L'integrità dei giovani. La salvezza dei costumi. Attraverso la censura, dunque, si ristabilisce o si riconferma il principio di uno Stato Etico, non già di quello del contrasto sociale. Perfino negli Stati moderni - democratico-liberali - avviene una eticizzazione: la censura assume la forma di un debito da pagare in cambio della difesa del contratto sociale, divenuto esso stesso da convenzionale a etico. Proprio attraverso l'analisi della censura, anzi osservando la censura operata sulle immagini nella storia, vien fatto di notare che il principio dello Stato Etico (o meglio dell'eticità dello Stato così come la stiamo qui sommariamente definendo) non è solo un frutto del pensiero giuridico-filosofico-politico. Non esiste, insomma, solo in Platone o, modernamente, in Fichte. Esiste, invece, per l'appunto nella pratica quotidiana dell'esercizio del potere istituzionale. Durante la controriforma, ad esempio, lo stato pontificio riusci ad emanare una serie di regole censorie di impressionante attualità nel campo dell'immagine visiva. Nel I 582 un cardinale, peraltro neppure molto colto, né precedentemente dedito ad opere di storia e filosofia, il cardinal Paleotti, vescovo di Bologna, ebbe a scrivere un trattatello, rimasto incompiuto, Sulle immagini sacre e profane, dove si dava un canone minuzioso di come i pittori dovessero comporre i loro soggetti artistici, pena l'esclusione dalla «storia» (vale a dire dal mercato della committenza religiosa) in nome dell'eticità del committente istituzionale, e dell'eticità dell'arte stessa che veniva, con un atto politico di grande rilevanza per la storia futura, legata strettamente all'istituzione. C'è un secondo ovvio principio di utilità, comunque, nell'introdurre questa forma di autolegittimazione che è la censura istituzionale. Esso consiste nella trasformazione dell'autolegittimazione anche io una forma di controllo sociale. L'autolegittimazione censoria infatti, ricorrendo allo stato di necessità, introduce - implicitamente - l'asserzione che tale stato di necessità sia contro qualcuno. Si evoca, insomma, sempre il fantasma di un nemico, e con ciò si introduce ilmodello della società all'interno di un modelli di guerra. Detto altrimenti: la censura istituzionale presuppone un modello statuale bellico, sia nei casi di guerra effettiva, sia nei casi di guerra potenziale. Con le conseguenze sul piano della successiva legittimazione di un ordine poliziesco che tutti conosciamo. Ma il prodotto di questa concezione bellica e non pacifica dello Stato (peraltro va notato che non conosco stati senza polizia, e forse non ne possono esistere) non è soltanto una promozione del controllo diretto sul corpo sociale. Per il solo fatto di «sapere» che c'è censura, si produce infatti anche l'autocensura, che è la forma più perfezionata del controllo sociale, perché assolutamente non costosa e addirittura sfruttabile sul piano propagandistico con la assimilazione al cosiddetto «consenso». Il ciclo si chiude. Un «non far sapere», la censura, è in realtà un «far sapere» particolare, diverso dal «far sapere» comune, ma produce, in ultima istanza, un «non far sapere individuale», cioè una frantumazione del corpo sociale e una sua ricomposizione - la sola possibile, anche se falsa o per lo meno non vera - sotto il segno del consenso all'ordine vigente. Certo, si potr.à subito dire che la censura produce non solo consenso implicito, ma anche dissenso esplicito. Il meccanismo, tuttavia, non cambia di molto: il dissenso tende a strutturarsi specularmente nei confronti dell'ordine vigente, a «censurarlo» a sua volta. In qualunque ottica la si voglia esaminare, dunque, la censura si materializza non tanto come una forma di «eliminazione» dell'avversario sotto veste comunicativa, quanto piuttosto come produzione di un sapere classificato, e come riproduzione in tutti i suoi elementi del modello del conflitto, nel quale però l'antagonista è sempre già prefigurato nel suo ruolo di perdente. La censura, in altre parole, è una rappresentazione fedele del conflitto sociale, ma proiettata in un esito ideale: l'atto del censurare risulta cosi solamente un passaggio, fra i due termini conflittuali, del tutto necessario logicamente.

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