1. Radici storiche e contraddizioni recenti della crisi italiana M i sono chiesto con insistenza fino a che punto e in quale misura l'analisi dello storico possa inserin;i in un dibattito dominato dall'apporto di vari scienziati sociali (economisti, sociologi, giuristi, antropologi) come è quello che si svolge da qualche tempo a questa parte sulla crisi italiana. Sembra mancare, dal nostro punto di vista, uno dei requisiti essenziali per far storia: che è quello di trovarsi ad esaminare processi che in qualche modo abbiano avuto una conclusione, mentre, se c'è un punto su cui tesi assai diverse tra loro convergono, è proprio il carattere di processo ancora aperto ad esiti differenti che caratterizza la crisi attuale. E a questo ostacolo altri se ne potrebbero aggiungere sul piano delle fonti (basta pensare all'importanza dei documenti militari, giudiziari e di polizia per vicende come quelle che partono dalla strage di Piazza Fontana) o anche del coinvolgimento personale (chi può dire oggi di essere passato nella compiuta indifferenza ed estraneità di fronte a dodici anni di intenso dibattito politico e culturale come quello che va dall'esplosione del '68 agli anni ottanta?). Malgrado questi problemi, che restano in piedi e che non tento neppure di esorcizzare, credo che il punto di vista dello storico possa essere non del tutto inutile in questa occasione soprattutto per due ragioni che attengono entrambe alla storia del nostro paese. Che lo si voglia o no, che lo si ammetta o polemicamente si accantoni il problema, è indubbio il fatto che viviamo in un paese in cui il peso della storia - se per esso si intende conoscenza e riflessione sul passato come agente attivo nella coscienza contemporanea - è ancora assai forte. Uno storico francese del Medioevo, Jacques Le Goff, ha di recente analizzato questo aspetto del nostro patrimonio culturale giungendo a una conclusione che mi sembra di poter sottoscrivere: «Mi pare- ha scritto Le Goff - che l'eccezionale gravità del peso della storia nella coscienza collettiva italiana derivi dall'esplosiva combinazione di tre elementi: la coscienza di essere un popolo vecchissimo, il sentimento di una decadenza fra la gloria delle origini e lo stato attuale, l'inquietudine di esistere veramente solo da poco tempo. Il fascismo, distillando i suoi veleni in questo composto instabile. ha provocato una crisi nevrotica che rende più faticoso questo peculiare fardello,.. Di qui, a mio avviso, una prima connessione importante tra la crisi attuale e le sue radici storiche di lungo periodo. La seconda riguarda quel tema della conJinuità nella storia postunitaria dell'Italia che ha suscitato negli anni scorsi polemiche aspre e violente, è stato spesso frainteso o enfatizzato al punto tale da fame un criterio generale d'interpretazione a tutti gli usi ma che. nella sua formulazione iniziale abbastanza limitata (giacché si riferiva prima di tutto alle istituzioni dello stato liberale, fascista e postfascita e non pretendeva di escludere. anche all'interno della storia istituzionale. momenti di rottura e di mutamento d'un certo rilievo) fornisce - io credo - alcuni criteri di orientamento necessari per cogliere processi ed episodi che appaiono altrimenti inspiegabili e fortemente contraddittori con il quadro generale a cui debbono riferirsi. Se è vero senza alcun dubbio che il secondo dopoguerra. soprattutto a partire dalla fine degli anni Cinquanta. presenta caratteri nuovi e originali. sia a livello di sviluppo economico-sociale che culturale. occorre pur tener presente che i fattori condizionanti in modo negativo l'esperienza di centro sinistra che si apre in quegli anni sono in buona parte fattori strutturali. che potremmo definire di lungo periodo. 2. L'esperienza di centro sinistra on a caso ho fatto l'esempio degli esordi del centro-sinistra. Sono persuaso infatti che il periodo che siamo chiamati ad analizzare ai fini della crisi attuale ha inizio proprio con la rottura dell'equilibrio centrista. a lungo mantenuto dalla Democrazia Cristiana sotto la guida di De Gasperi. e il fallimento dell'avventura di Tambroni che tentò nell'estate 1960 di bloccare l'allargamento della coalizione di governo al partito socialista. «Il tentativo di Tambroni - ha osservato Giampiero Carocci nella sua Storia d' Ia/ia dall'unità ad oggi - non teneva nel dovuto conto né la grande forza politica del Lacrisitaliana movimento operaio né la matrice antifascista della repubblica. Tambroni fu rovesciato e gli successe il centro-sinistra. in un modo che ricordava. per taluni aspetti non secondari. gli avvenimenti del 1900-1901. Come nel 1901 il gabinetto Zanardelli-Giolitti era nato in seguito allo sciopero generale di Genova. cosi il centro sinistra nacque in seguito alle manifestazioni anche violente del popolo genovese contro il Msi. autorizzato proditoriamente da Tambroni a tenere il suo congresso nella città ligure, medaglia d'oro della Resistenza. E. come nel 1901. le manifestazioni popolari furono decisive perché si incontrarono con una tendenza nel parlamento favorevole ad aprire un nuovo corso politico orientato a sinistra». Il confronto istituito da Carocci tra il superamento della crisi di fine secolo e l'insediamento del centro-sinistra è doppiamente significativo giacché da una parte sottolinea un problema che è costante e non ancora risolto nella storia d'Italia al punto che si ripropone di fronte ad ogni svolta politica. vale a dire il problema dell'allargamento della partecipazione delle classi sociali (e in particolare del proletariato) alla gestione della cosa pubblica; dall'altra. segnala il ruolo decisivo che pressioni extraparlamentari e-si potrebbe dire - al di fuori della legalità hanno avuto in due momenti decisivi per vincere la resistenza di una parte notevole della classe dirigente di fronte all'una e all'altra svolta. A questi due aspetti. non di ripetitività ma di continuità. messi in luce da Carocci se ne può aggiungere un altro che riguarda la natura dell'azione politica del centrosinistra nei confronti del paese e di riforme a lungo promesse e sempre disattese. Ed è il punto centrale da mettere in luce ai fini della crisi attuale giacchè è difficilenegare che l'ingresso dei socialisti nei governi di centrosinistra. in una fase economica di alta congiuntura internazionale e interna. all'interno di un quadro di rapporti internazionali caratterizzato dalla sospensione della guerra fredda e dall'affacciarsi della distensione. pareva potesse preludere a un esperimento di riforme tale da rompere appunto certe «continuità> della vicenda postunitaria e porre le basi per lo sconvolgimento degli assetti di potere esistenti. a cominciare dal predominio incontrastato della Democrazia Cristiana nel sistema politicico italiano. Nulla di tutto questo - ormai possiamo dirlo con sufficiente certezza - è accaduto negli anni che vanno dal primo centro-sinistra all'esplosione del 1968. in quel periodo che vide quasi sempre l'on. Moro. uno degli uomini politici più notevoli del partito cattolico. alla guida della coalizione di governo. Fatto è che la politica di Moroutilizziamo ancora un giudizio sintetico ma assai efficace di Carocci - fu «intesa a ricuperare per la prima volta nel partito cattolico a livello di governo i motivi di fondo del giolittismo. ad associare cioè. una politica di moderate e graduali riforme a un disegno strategico conservatore. basato sulla divisione del movimento operaio e sull'integrazione nel sistema di una sua parte; e. nella misura (nella larga misura) in cui questa associazione di riformismo e di parziale integrazione della classe operaia non riesce per difetto del primo termine fu intesa a puntare sul termine fondamentale. il secondo. con lo strumento del sottogoverno» . Reintroducendo. insomma. una pratica trasformistica basata però più sui partiti che sulle clientele dei notabili e quindi più solida. meglio innervata con il tessuto politico di una società ormai colonizzata proprio dai partiti. Moro. Giolitti: come vedete. il confronto prosegue. il rapporto tra radici antiche e contraddizioni recenti della crisi trova riferimenti puntuali nel giudizio storico. Certo è che le differenze profonde tra l'una e l'altra situazione sul piano economico come quello culturale. sociale e politico sono tali da non consentire di approfondire il confronto oltre un certo limite. Ma comune alla strategia del giolittismo e a Nicola Tranfaglia quella democristiana nella fase del centro-sinistra è il tentativo di integrazione di strati sociali e masse più vaste nella gestione del paese e il ripiegamento precoce su una pratica che. in mancanza di riforme incisive e qualificanti. punta sull'assistenza. sul clientelismo. sul sottogoverno salvo ad usare una mano assai ferma. non priva di abusi. di fronte a manifestazioni violente di malcontento e disagio sociale. Comune ai due momenti. pur cosl lontani e per tanti aspetti diversi. è stato l'atteggiamento della sinistra all'opposizione: che non fu né capace di avanzare una proposta alternativa globale di programma né di collaborare criticamente con stimoli costanti all'attuazione dei provvedimenti più qualificanti preannunciati. Si può cogliere con chiarezza e in tutta la sua gravità il fallimento riformatore del centro-sinistra. già delineatosi in modo inequivocabile nel biennio 1963-1964. se si riflette al mutamento economico sociale che è stato alla base di quell'esperimento. «Lo sviluppo accelerato tra il 1951 e il 1962 (6 per cento di crescita media del reddito nazionale) - ha osservato di recente Giorgio Ruffolo che dell'esperimento di centro-sinistra fu uno dei più decisi fautori - ha consentito una trasformazione e modernizzazione della struttura economica italiana di dimensioni assolutamente senza precedenti. Ha anche provocato la più grande rivoluzione sociale italiana degli ultimi secoli: il crollo del blocco agrario. la dissoluzione del mondo e della civiltà contadina. la migrazione di massa di milioni di contadini del Sud verso l'estero e verso le grandi città italiane. del Centro-Nord ma anche del Sud; l'emergere di una nuova formazione sociale di ceti medi urbani». A una simile rivoluzione economica e sociale non ha corrisposto - non dico - una rivoluzione politica ma neppure una risposta della classe dirigente tale da attenuare il divario crescente tra società politica e società civile. Particolarmente necessaria e urgente si rivelava in quegli anni una risposta politica fatta di alcune incisive riforme di struttura in una situazione caratterizzata si -come afferma Ruffolo - da un balzo in avanti a livello economico-sociale ma anche di più da debolezze e squilibri di fondo del sistema economico e da fenomeni sociali come l'urbanizzazione e la progrediente secolarizzazione destinati a innestare una grave crisi di valori e di modelli nel tessuto di tutta la società nazionale. 3. Odualismo di fondo La debolezza e vulnerabilità del sistema economico italiano. prima e dopo il cosiddetto «miracolo economico»,sonotropponotea tutti quelli che seguono con attenzione il dibattito sulla storia d'Italia perché sia il caso qui di insistervi. Basti ricordare con l'americano Tarrow (che ha raccolto indicazioni contenute soprattutto negli scritti di Graziani. Salvati ed altri) che «la prosperità italiana degli anni del miracolo economico si fondava su una crescita trainata dalle esportazioni. sullo sfruttamento di riserve di lavoro a basso costo e su una combinazione di liberalismo economico in teoria e di investimenti patrocinati dallo Stato nella pratica». L'altra faccia della medaglia era costituita dalla presenza di un vasto settore arretrato. dall'arretratezza del settore della produzione e trasformazione dei generi alimentari. dall'esaurimento oramai imminente di riserve di forza lavoro a basso costo. dalla ristrettezza della domanda interna. È agevole rendersi conto come su questi squilibri pesasse in maniera decisiva la questione meridionale. il dualismo di fondo che da oltre un secolo ha caratterizzato la storia italiana senza che nel secondo dopoguerra la classe dirigente cogliesse fino in fondo le implicazioni derivanti dal riconoscimento del problema del Mezzogiorno come di un problema nazionale, e non settoriale. Una parte rilevante degli squilibri e delle debolezze dell'economia ma anche della società civile nazionale derivava. e deriva. dalla sopravvivenza di quel problema ma né le forze di governo raccolte intorno al partito cattolico né quelle di opposizione egemonizzate dal partito comunista hanno tratto nel trentennio successivo alla Liberazione tutte le conseguenze politiche che sarebbero derivate da una simile. centrale affermazione. La risposta politica data negli anni sessanta a questi problemi è stata così debole e carente. C'è stato un inizio di attività riformatrice su punti specifici che ha dato vita con la riforma della scuola media unica del 1962 alla scolarizzazione di massa (senza adeguate misure per trasferire questa novità a livello di scuola media superiore e di Università e per fornire le strutture necessarie a un compito cosi impegnativo) e con la nazionalizzazione dell'energia elettrica a un tentativo. in buona parte fallito, di diminuire il potere di alcuni tra i grandi monopoli privati. Ma a queste prime sortite non è seguito né un organico processo di ristrutturazione dell'apparato produttivo (indispensabile per affrontare negli anni successivi la concorrenza internazionale ma anche la crescita dei costi e i problemi della forza lavoro sul mercato interno) né una modernizzazione di tutto l'assetto sociale richiesta appunto dai processi di emigrazione, urbanizzazione. scolarizzazione di massa provocati dalla crescita economica e dalle prime riforme. C'è da chiedersi perché la coalizione imperniata fondamentalmente sul partito cattolico e sui socialisti che ha retto l'Italia dall'inizio alla fine degli anni sessanta abbia dato una risposta ancora una volta cosi inadeguata alle esigenze della società civile e tale dunque da generare una crisi assai più grave e duratura di quella che si è verificata in altri paesi capitalistici, a cominciare dalla vicina Francia gollista che aveva visto gli sconvolgimenti del maggio o degli Stati Uniti. tormentati dalla guerra vietnamita e dai problemi razziali. Per rispondere a un interrogativo come questo. è necessario soffermarsi sulla composizione di quello che definiamo per brevità il «blocco dominante» costituitosi in Italia intorno al partito di maggioranza relativo e alle maggiori forze economiche del Nord. Gli studiosi (dagli storici ai sociologi agli economisti che si sono occupati di questo problema concordano almeno su un punto: sulle capacità cioè della Democrazia Cristiana di aggregare intorno a sé ceti medi, burocrazia pubblica e privata, borghesia capitalistica grande e piccola e di riuscire anche ad esser presente. sia pure in misura minore. tra i contadini, gli operai. i commercianti d'ogni livello. E sulla sua funz:ionessenzialdei mediazionepolitica tra sviluppo e sottosviluppo. strati sociali legati alla modernizzazione e strati ancora radicati nella società più arcaica e contadina grazie anche al cemento costituito dall'«ideologia cattolica radicata nella cultura e nella struttura privatistico-familistica italiana». Ma questo può render conto della difficoltà democristiana di operare nella direzione che si è prima indicata durante il centro-sinistra. Non spiega di per sé né l'accettazione subalterna da parte dei socialisti di una simile politica trasformistica e conservatrice prima e dopo il cosiddetto «miracolo economico» né l'incapacità da parte dell'opposizione comunista di proporre un'alternativa credibile sul piano delle riforme alla coalizione di governo e di incalzarla in modo stringente in quegli anni che furono comunque di crescita economica e di tendenza complessiva alla modernizzazione sociale. Per rispondere a questa ulteriore domanda, occorre ricordare la complessità della «questione comunista»: la lunga subalternità dei socialisti alla leadership del Pci sostituita negli anni sessanta dalla subalternità socialista nei confronti della Dc ma soprattutto la contraddizione non risolta nel gruppo dirigente comunista (ma anche a livello di quadri e di base) tra l'ideologia ufficiale del partito che si richiamava al modello sovietico, al leninismo e in ogni modo alla rivoluzione socialista pur con tutti gli adattamenti imposti dalla situazione del dopoguerra e la prassi politica che, se si esclude il perdurante centralismo democratico o burocratico che dir si voglia, tendeva a fame un partito socialdemocratico con una vocazione essenzialmente riformatrice, privo tuttavia della cultura politico-economica adeguata a quella scelta. Una così grave contraddizione produsse l'effetto di impedire ai comunisti un'opposizione efficace e costruttiva al centro-sinistra e nello stesso tempo di favorire il partito conservatore al governo nell'uso della pregiudiziale anticomunista come cemento politico ed elettorale anche di fronte a strati sociali altrimenti poco inclini a continuare a sostenere una coalizione di governo tendenzialmente immobilista. Le oscillazioni del contesto internazionale, pur sempre caratterizzate dall'equilibrio bipolare di Yalta e dall'espansionismo sovietico nell'Europa orientale (è dell'agosto '68 la nuova applicazione della dottrina della «sovranità limitata» delle democrazie popolari alla Cecoslovacchia) non potevano che consolidare l'assurdo equilibrio interno che poneva la Democrazia Cristiana come partito cardine e insostituibile nella gestione del governo e il partito comunista come forza tollerata e accettata anche a livello di periferia ma non in grado. in nessun caso. di subentrare alla guida del paese in un corretto gioco di alternanza politico-parlamentare. E questo nonostante che le indagini sociologiche più recenti mostrassero l'affinità. pur con alcune rilevanti differenze, della base elettorale dei due maggiori partiti e gli obiettivi di nuovo riformismo che animavano ormai, ·alla fine degli anni sessanta. le forze istituzionali della sinistra. 4. Ascesa e declino del '68 Quell'esperienza poteva dirsi chiusa infatti (almeno come tentativo organico d'una strategia di riforme che investisse la società italiana) nella primavera del 1968 avendo conseguito sul piano economico-sociale deludenti risultati giacchè (l'hanno osservato. tra gli altri, Ruffolo e Salvati) lasciò sostanzialmente intatta la rendita delle aree urbane e potenziò la spesa pubblica a scopi clientelari, puntando ancora una volta sulla utilizzazione di manodopera a basso costo per far fronte ad esigenze cui si sarebbe dovuto rispondere essenzialmente con la riorganizzazione industriale e la ristrutturazione tecnologica dell'apparato produttivo. Sul piano più propriamente sociale, le iniziative di riforme avanzate dalla coalizione di centro-sinistra vennero respinte (è il caso della legislazione urbanistica) o varate e applicate dalla compiacente burocrazia legata alla Dc in modo tale da togliere ad esse qualunque efficacia innovatrice. Ma, nonostante tutto questo. «i risultati importanti che essa ottenne- il giudizio è di Giorgio Ruffolo e mi trova d'accordo - nel campo previdenziale, sanitario, scolastico. in quello della legislazione del lavoro, nello stesso assetto costituzionaledelloStato,nonessendo collegati entro un disegno strategico che ne assicurasse la coerenza. finirono per aprire sì alla società civile nuovi spazi di crescita e di partecipazione; ma anche per esercitare effetti destabilizzanti sugli equilibri esistenti, senza predisporre equilibri nuov; e 'più avanzati'». L'ondata di contestazione del movimento giovanile che parte nei primi anni '60 dai campus americani investiti anche dal dramma indocinese ma che
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==