asfittica di contrapposizioni bloccate: c'è qui un di più di duttilità. di furore iconico e compostezza verbale, che rende possibili la cronaca/denuncia delle «drammatiche» testimonianze (la tortura, il manicomio di Aversa ...) e l'abbandono vigile. la limpidezza visionaria del sogno (la lirica su Venezia, bellissima, con quel ritmo liquido, altalenante tra esterno e interno, come un fluire ancestrale, una pulsione erotica: «...ma è la sua luce interna e esterna a sorreggerla/insieme alle acque che la cinturano e la penetrano/mai utero fu così intestinale e intestino ...»). Se permane la contraddittorietà irrisolta dello scrivere come salvezza o come castrazione, se lire del magazzino non ha ancora ricomposto i suoi traumi («datemi subito da scrivere. è una lettera breve»-«finalmente e per sempre mi venga impedito di scrivere» - «ho bisogno di aprire la bocca per dire» - «Ma devo/dare segnali acuti che sono ancora qui e vivo»). il verso «grugnito» e «guaito» impone tuttavia con forza la propria fisicità alla pagina. e la parola stessa si cancella, assorbita nel corpo: «la contraddizione resiste, è il segnale. la scrittura/scrivendosi vuole cancellarsi, la parola/vuole negarsi dicendo» - «il corpo lo dimostra. la nostra storia scritta nel corpo». Il processo non è indolore. né semplice: il bisogno di proiettarsi verso l'esterno. di conoscere e conoscersi. implica innanzitutto una verifica dello strumento da usare. Non più la parola. statica. logora. ma la voce: una scrittura-oralità. un testo come leuura, esecuzione («seguendola carta con l'indice. seguendo/la penna che scrive per dire quello che non ho/capito ...»). ove l'afasia è recisione violenta («il taglio della lingua» - tutte le dita recise cadute ... - «mi devi togliere la parola» - «e il passaggio è segnato dalle mani tagliate .../le raccolgo e le offro a me stesso/baciandomi la punta delle dita in silenzio»). l'improbabile metafora è erezione mancata («hai paura del linguaggio in tumescenza ...» - «...che lo scrivente stia in calzamaglia a controllare/un'erezione che non c'è che non ci sarà»). mentre il silenzio consegue al divorare («la notte mastica le parole pronunciate ...») e lo scrivere è penetrazione («la lingua e la gola entro/con tutto il corpo senza alzarmi dalla sedia ... » - «sono soltanto lingua ...»), dilatazione labiale («quando apro la bocca sento già le erezioni ... » - «la bocca mi si apre la lingua ora si muove...»). proiezione corporea («col dito una linea di scrittura si traccia/sulla ruvida carta»). Poesia come atto d'amore. se è vero che l'amore mangia (così Gramigna nel Corriere della sera, 11 luglio): ma dall'amore anche si nasce. o si rinasce. Il tema del rapporto è da sempre al centro dell'esperienza poetica e umana di Porta. ma qui appare liberato. sciolto da costrizione. disposto a donarsi e a perdersi. TIlettore, destinatario del messaggio, deve incaricarsi di tenere aperto il confronto, non soffocare la «voce» («ma questo solo conta che io ti parli/che io stia respirando/insieme a voi tutti che non vedo/che ho chiamato, un giorno, carissimi ...»), semmai fagocitarla. in un processo non di riscrittura ma di assorbimento rivitalizzante («tu/mi hai mangiato per farmi vivere»). Il cannibalismo della lettura completa allora il senso di questa poetica corporea. sino alla lievitazione della fisicità, in un'atmosfera di stupori rarefatti, di rivelazioni immobili: «La creatura vede l'aperto/un tenero bambino libero dalla morte/gli amanti stanno vicini e stupiscono:/oltre l'altro non si può andare, eppure/qui tutto è distanza, di là/è respiro, dunque bisogna andarci/il corpo non fa barriera: si apre». D izione ferma e purissima. come quella di Magrelli: ma diversi appaiono, nel poeta esordiente, lo spazio e l'ambito della parola, che si delinea lentamente sulla pagina bianca, affioramento prezioso e delicato del pensiero («Preferisco venire dal silenzio/per parlare. Preparare la parola/concura.La scrittura è unamorte serena»). Determinante. in questo universo di presenze sottratte all'esistere, di parole notturne che sfioriscono alla luce, la funzione dello sguardo: è un lambire visivo talora indistinto, come da palpebra socchiusa (Rima palpebralis si definisce la prima sezione della raccolta. ad indicare la fessura della palpebra), talora nitido e sicuro, esteso circolarmente (aequator lentis) sino a percorrere un orizzonte dilatato, che metafisiche presenze rendono emblematico («Quando l'aria era freddai immense regnavano statue/so~pese sulla terra. e vagavano/come divinità mute/e partorivano l'ombra» - «Ogni panno è un sudario/ in questa ora/meridiana e verticale»). E sguardo è anche la parola, enigmatica mediazione tra mente e corpo, a volte costretta nei limiti spessi del proprio tracciato («i:: un muro che scende dall'alto /il lento trascorrere del segno./Non c'è finestra o spiraglio/ma preziosa e gremita/cura del fitto unire»). a volte spalancata a baratro verso insorgenze embrionali («Foglio bianco/come la cornea d'un occhio.Ho m'appresto a ricamarvi/un'iride e nell'iride incidere/il profondo gorgo della retina./Lo sguardo allora germinerà dalla pagina/e s'aprirà una vertigine/in questo quadernetto giallo»). Scrittura. dunque. come carcere (le «sbarre dell'inchiostro> - «Io resto prigioniero»), o come rivelazione di identità. Ma qui non ha luogo un oscillare incerto tra «dentro» e «fuori>, poiché il «fuori» è sempre interiorizzato. proiezione del pensiero («Ma nella testa s'apre/l'alba del mondo»), mentre il tempo. necessaria verifica dell'esperienza. è dimensione totalizzante. immota, scandita. come nei quadri dei «metafisici». dall'identità di gesti in uno spazio deserto (il corpo «conserva la sua forma devota/che non muta e attraversa/identica a se stessa/tutte le proprie età» - «Questa piazza è un orologio vasto ...»). Il fascino di questa scrittura dell'assenza si regge in bilico tra i rischi del compiacimento autistico («Ma voglio un giorno distendermi sulla pagina e dormire/e diventare la mia stessa reliquia»-« Dietro di me ci sono io, bifronte/curvo sullo specchio del pensiero»- «Senza accorgermene ho compiuto/il giro di me stesso») e della sublimazione mistica («c'è un momento in cui il corpo si raccoglie nel respiro»): tentazioni non lievi per un poeta teso ad una dimensione argomentativa ed epifanica del conoscere. Ma il «dubbio del solipsismo», proiettandosi nella concretezza del segno grafico. ne rispetta l'autonoma matericità («La scrittura/non è specchio, piuttosto/il vetro zigrinato delle docceJdove il corpo si sgretolale solo la sua ombra traspare/incerta ma reale»): ed è in fondo la scrittura a imporre al pensiero di farsi corpo, appendice del foglio e della penna («sto facendo la punta al pensiero» - «Gli occhi si consumano come matite/e la sera disegnano sul cervello/figureappena sgrossate e confuse> - «La penna non dovrebbe mai lasciarena mano di chi scrive./Ormai ne è un osso, un dito>), per una incarnazione vibrante e assorta, che sopporta senza scomporsi le vertigini di un'ironia cosmologica. • alla parola «privata> di Magrelli a quella «collettiva» di Balestrini: Blackout ripropone, dopo le ricerche di scrittura, il momento della oralità, della voce «come strumento pulsionale dietro il/quale esiste un intero universo di desideri>. Demetrio Stratos, la gola trasformata in vocalismo intenso, per un comunicare al di là del linguaggio. e i 60.000 convenuti all'Arena per ricordarlo, divengono, in versi tesi e commossi, espressione di una medesima esigenza di contatto diretto. immediato. con la propria fisicità. la propria dimensione corporea. Un corpo-parola per potere tacere, rinunciare alle parole-parlate, sostituendovi gli sguardi, i suoni, i gesti, oppure il niente. il silenzio di sè («c'è chi si limita ad esserci» - «tutti ti guardano tutti guardano tutti>- «passando tra i corpi inquieti percorrendo quasi/di corsa tutto Io spazio tornando indietro>). Anche il ricorso costante alla ripetizione. espediente tecnico consueto in Balestrini. acquista una motivazione precisa: i versi ripetuti, oltre ad assolvere una funzione ritmica, come base sonora su cui si inseriscono i versi mobili. traducono la parola in fatto e immagine verbale, la bloccano in segmento visivo, la isolano senza sottrarla al contesto, tessuto collagistico sorvegliatissimo. conferendole una risonanza epica («da giorni sui muri di Milano splendeva un manifesto> - «una fetta di Milano si è fermata> - «una millle centomila voci per comunicare> - «nella città disgregata dall'immigrazione resa inumana dai quartieri ghetto dove la qualità della vita è drammatica»). La stessa ripetizione è quindi corporeità. come pure, a livello strutturaleideativo. è corporeità il rapporto di alternanza e successione contigua dei nuclei di ispirazione (l'illustrazione turistica del Monte Bianco, il concerto all'Arena del 14 giugno, la Fiat, Torino e la condizione operaia, l'inchiesta del 7 aprile dello Skylab. il blakout di Newyork): la parola si accosta per analogia («colori nitidissimi sagome sfrangiate di nuvoloni/carichi di pioggia sprazzi d'azzurro/un azzurro fiume di jeans») o per impercettibili spostamenti di significato e di referente (la fusione. fortemente suggestiva, tra Dentro la balena di Kart Heinz Roth e composizioni degli Area nella sezione Inibizione), rivelandosi, nella mobilità e disponibilità agli accostamenti, strumento antiautoritario e imprevedible. Certo. in Blackout c'è anche altro: una insistenza «vampiresca>, per parafrasare Giuliani (la Repubblica, 9 agosto) sul mito del '68, e un dogmatismo protratto talora sino alla ridonanza o insufficientemente alleggerito dall'autoironia (come nell'accostamento Ortis-Balestrini. accomunati dall'esilio): la dizione si fa monotamente propagandistica (le prolungate citazioni di Toni Negri). accampandosi sulla pagina non come sollecitazione progettuale. ma come riflessione pleonastica. Il rischio letale, per un'operazione provocatoria se e in quanto sorretta da una struttura che provochi, se e in quanto affidata ai corti circuiti di una «normalità> in sussulto, è a questo punto la caduta non già nell'utopia, ma nell'ovvietà. cioè nella noia. Perché l'utopia, il suo essere etimologicamente altrove, luogo di prefigurazioni, paesaggio mentale della non consistenza e del rinvio, è strettamente connaturata alla poesia, a questo desiderio della parola che è insieme parola del desiderio. II «gutturale grido collettivo> che si libera, in Blackout, allo spegnersi delle luci è quindi anch'esso da accostarsi alla speranza, radicale, di riappropriazione a partire dall'ottica della realizzazione segnica, ove non hanno luogo «distinguo> tardozdanovisti tra utopie «buone> o «cattive>, «legali» o perseguibili. Per il resto, che ogni poeta coltivi le sue utopie: chi. come Sanguineti. vi ha rinunciato senza pena. saturo di «un troppo pieno di realtà>, impegnato semmai a progettare un duro sopravvivere, soffre tuttavia (anch'egli curiosamente sulle tracce di un Foscolo-Ortis travestito da Werther lukacsiano) di periodiche «contorte costipazioni emotive e immaginative> soffocate da eccessi di Tavor, e vive sotto falso corpo ,per potersivivereancora>. La favolosa «Isola della Tartaruga> che popola il luminoso e suggestivo orizzonte di Conte è già questo faticoso presente che in Porta esorcizza i «sogni della fine», questo fare che appaga perché si sa che «tutto deve rinascere>: è l'incarnazione desublimata della parola, entità senza luogo, corporeità riflessa, ove l'identico si fa altro, e l'abitudine del quotidiano diviene avventurosa vicenda di rigenerazione.
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