Alfabeta - anno II - n. 17 - settembre 1980

metamorfosi del capitale (passaggio al capitale produttivo, dove la stessa capacità di lavoro è capitale variabile). Il capitale torna invece ad assumere la sua connotazione di oggetto materiale, anche al di là del suo decadimento come elemento unitario. In questo quadro è certamente corretto dire, con Lunghini, che il sistema economico è ridotto, nella sua rappresentazione analitica, a meccanismo invariante. naturale e permanente. Il funzionamento dell'economia è cioè assimilato a quello di una «macchina», che attende soltanto di essere conosciuta rigorosamente nei suoi «segreti». L a cosa è rilevante per più di una ragione. Oltre a confermare la riduzione della teoria economica al piano del calcolo quantitativo, essa svela anche la contiguità che esiste fra la deriva sraffiana e la «regionalizzazione» della scienza. Siccome quella data macchina è complessa, perché non scomporla nelle sue componenti, trattando i vari ingranaggi come subsistemi relativamente autonomi? Perché lasciarsi ancora abbagliare dalle tensioni metafisiche verso la totalità, dal momento che le singole parti potranno essere assemblate in un secondo momento? È cosi che il cerchio si chiude: la ricomposizione della teoria di Sraffa con spezzoni di altre elaborazioni diviene la corretta prosecuzione dello spirito di Produzione di merci: cli rapporto fra prezzi e distribuzione per una data tecnologia riguarda quello che possiamo chiamare lo 'scheletro' di un sistema economico: storicamente questo problema è stato al centro della teoria economica, e logicamente esso costituisce il 'nucleo' attorno al quale si sviluppa l'analisi di altri problemi, anche quando si elaborano teorie prive di un legame formale diretto con esso> (Roncaglia, Srafta e la teoria dei prezzi. 1975, p. 131 n. 2). Insomma: proprio perché «pura>, ossia svincolata dall'esame della complessità del sociale, la teoria di Sraffa è rotta a tutte le integrazioni ~on altre teorie economiche, che non ne alterino il rigore logico formale. Il recente intervento di Meldolesi ( «A proposito di Piero Sraffa», in il manifesto. 6 giugno 1980) non mi sembra voglia contrapporsi al tipo di lettura qui proposto. Esso tende invece a rafforzarlo, in quanto mette in luce le ragioni storiche che possono spiegare lo schema sraffiano. ma non certo la sua effettualità nell'interpretazione di un sistema economico storicamente dato. A mio avviso. è corretto sostenere che la riduzione della teoria economica a calcolo quantitativo coglie la tendenza propria a «tutta la cultura marxista a partire dal programma di Erfurt» (Meldolesi). nonostante talune rilevantissime eccezioni che oggi incominciano ad essere apprezzate (Rubin. Petry). Cosi come è corretto ricordare che l'ascesa di Stalin sanziona il realizzarsi della tendenza. nel paese a «socialismo reale», dello «sviluppo della ricchezza materiale sulla base della divisione del lavoro e dell'accumulazione accelerata» a scapito della «liberazione degli uomini». Ed è molto interessante notare che. per i suoi stessi dati biografici e per il suo sostanziale apprezzamento delle scelte sovietiche. Sraffa si pone all'incrocio fra questa tradizione teorica e le forme pratiche di realizzazione del «socialismo». Anche la riduzione sraffiana del Marx politico al saintsimonismo appare in questa prospettiva convincente. Se il concreto «dibattito sull'industrializzazione» e lo «scontro politico durante la Nep» già ·fanno emergere la crucialità delle funzioni tecniche e manageriali per il superamento della forma di proprietà e per la riproduzione dei rappo_rti capitalistici di produzione (cfr. Cacciari-Perulli, Piano economico e composizione di classe, 1975), il correlato teorico-politico di ciò non può essere Marx. ma SaintSimon che «aveva preannunciato l'avvento di una· rivoluzione politica e sociale contro le classi proprietarie guidata dai tecnici e dagli amministratori in collaborazione con i loro subordinati. gli operai, che avrebbero ottenuto una maggiore ricchezza materiale ma avrebbero dovuto ti,manere subordinati» (Meldolesi). Non credo. tuttavia. che sia lecito inferire da ciò che la «soluzione sraffiana» spiega questioni di così vasta portata. Essa si limita piuttosto ad evitare elementi di frizione fra la rappresentazione teorica dell'economia e la necessità di gestione del concreto sistema sociale. È perciò inevitabile concludere, con Lunghini. che Sraffa e lo sraffismo ci propongono una costruzione «neutrale». le cui «proposizioni potranno avere soltanto una funzione strumentale e subordinata rispetto a politiche economiche ...» e-aggiungerei io - a politiche sociali (leggi. per esempio. il saintsimoni_smo) del più vario segno. «Al rigore mortale dell'analisi corrisponderà così. tranquillamente. l'eclettismo disinvolto dei tecnici e degli specialisti» (Lunghini, cii.). I n tale quadro la replica di Vianello appare un poco disarmante. Con molta tenacia. egli ripropone infatti le stesse tappe, prese.di mira dai critici. Insistendo. bisogna dire. con molta evidenza. sulla «scolastica» sraffista. Non è mia intenzione ribadire ancora una volta perché Sraffa sia incompatibile con Marx o perché questo termine suoni un po' eccessivo se applicato al confronto fra Sraffa e i neoclassici (cfr. a puro titolo di esempio Napoleoni. Valore. pp. 169-178). Né tornare nella questione di come sia (im)possibile salvare il Marx qualitativo a scapito del Marx quantitativo. sostituito da Sraffa (cfr. Cafaro-Messori. La teoria del valore e l'altro. 1980). Mi pare che Vianello non colga la portata delle_argomentazioni di Graziani. Quest'ultimo non credo abbia in alcun modo voluto porre in discussione la «coerenza interna» di Sraffa e della sua rilettura dei classici. La questione sul tappeto è un'altra: se la critica «interna» ai neoclassici sia condizione sufficiente. oltrechè necessaria, per riavviare un programma di critica dell'economia politica. La conseguente valutazione. che viene data. sulla portata pacificatrice dello sraffismo equivale a rispondere negativamente all'interrogativo. Ne deriva che Vianello sbaglia quando cerca di ridurre il nesso fra analisi teorica e storia «esterna» a problema di «radici ideologiche». Non si tratta infatti della visione preanalitica, di cui parla Schumpeter, tanto cara ai neoweberiani menzionati da Lunghini. Si tratta invece, come ha cura di porre esplicitamente in luce lo stesso Graziani, della capacità analitica di incorporare e di spiegare la struttura e la dinamica di classe. ossia della capacità di avviare una critica (scientifica in senso sostanziale) della teoria economica. Inoltre. una simile posizione non comporta che. per essere scientifica nel senso appena detto. una teoria debba pure essere incoerente. Più semplicemente. posto che la coerenza interna non è condizione sufficiente per dar luogo ad un'adeguata interpretazione dell'economia capitalistica. può essere preferibile (anche se non soddisfacente) una teoria imprecisa ma volta allo studio dei rapporti sociali fra classi. di una teoria formalmente ineccepibile ma. sotto questo profilo, vuota. D'altra parte, il rischio di essere imprecisi è tanto più elevato quanto più si è interessati all'esame del concreto sistema sociale. Di ciò dovrebbe essere avvertito lo stesso Vianello. dal momento che anch'egli pecca di approssimazione quando, per esempio. si pone il problema di utilizzare Sraffa per l'esame del processo distributivo nella società capitalistica. Infatti. egli è costretto a trattare il salario quale variabile indipendente dimenticandosi che «appena si ammetta la possibilità di variazioni nella ripartizione del reddito nazionale. questo argomento perde gran parte della sua forza» (Sraffa. Produzione di merci. p.43) e si capovolge nella posizione contraria. propria a Sraffa. di assumere «come variabile indipendente il saggio del profitto». che. «essendo un rapporto. ha un contenuto che è indipendente dalla conosce112a dei prezzi ... » (ivi). D etto tutto questo, se ne deve forse concludere che la «trappola mortale» della coerenza logica ci lascia con una storia del pensiero economico che è una «storia di fallimenti»? Io credo di no. Ma non perché viva ancora nell'illusione di un Marx bell'è pronto per tutti gli usi. Il «ritorno di Marx» è certamente una tappa essenziale per la ripresa della critica dell'economia politica. ma deve avvenire in modo avvertito. filtrato dal recupero delle elaborazioni teoriche del '900. •Fra gli altri suoi pregi, lo scritto di Meldolesi pone in guardia dal ritenere che tale filtro possa rintracciarsi in positivo nella storia del marxismo. come certo postulano gruppi non trascurabili di «studiosi-militanti». Fortunatamente rimangono pagine significative di buona scienza borghese. che devono essere riattraversate nella loro compiutezza, senza aspirare a improprie sintesi. La teoria complessiva di Keynes e quella di Schumpter non fungono da panacea, ma sono dense.di promettenti aperture. La teoria monetaria e la categoria di disoccupazione involontaria del primo. e il processo dello sviluppo economico, innescato dall'innovazione e dal credito. del secondo costituiscono proposte analitiche «indecise» ma in grado di porre almeno in discussione la dicotomia fra aspetti quantitativi e aspetti qualitativi. fra oggettività e soggettività. Esse cioè provano a saldare. seppure con talune deficienze di non poco conto: l'indagine del capitalismo come struttura e l'indagine degli antagonismi sociali (specie all'interno della classe dei capitalisti). Penso sia questo il grande insegnamento di Marx. cancellato dal marxismo ufficiale e da quanti vedono la teoria economica come «teoria pura». Al livello astratto dei rapporti sociali di produzione (il processo di reificazione). l'analisi marxiana ci fornisce ancora l'esposizione categoriale e le conclusioni più convincenti. E recenti rielaborazioni della teoria di Marx, tra loro molto diverse quando non contrapposte (scuola di Francoforte, strutturalismo francese. marxismo italiano degli anni sessanta), ci dotano di strumenti di interpretazione non banali delle sue opere e dell'evoluzione del suo pensiero. Al livello del reificato però non possiamo prescindere dal riferimento a Keynes e Schumpeter. che. ponendo soprattutto in luce i conflitti intracapitalistici. aprono un campo di indagine determinante: la necessità di saldare entro un reticolo analitico unitario le complesse interazioni fra il rapporto contraddittorio capitale lavoro e gli antagonismi delle diverse frazioni del capitale. Il «fairore» della polemica, spero graffiante ma m·ai offensiva, mi ha spinto a tralasciare i punti di dissenso, che mi separano da Graziani e Lunghini. Per problemi di spazio mi limito all'aspetto più incidente, che credo mi separi da Lunghini. Non condivido la sua positiva valutazione della posizione di Dobb. In particolare. mi pare che la teoria del valore-lavoro non possa essere trattata quale «approssimazione alla realtà». Almeno in Marx essa si fonda sul processo di «astrazione determinata». che non rappresenta un'opzione metodologica ma risulta dall'esposizione categoriale de li Capitale e dei Grundrisse: dalla forma di merce e scambio (denaro) al capitale in generale. e da questo alla molteplicità dei capitali. Per quale ragione sostengo che questo punto non è trascurabile. anche in relazione alle cose dette sopra? Perché. come mostrano gli stessi lavori di Dobb (Un libro che farà epoca. 1961) e di Sweezy. (La teoria dello sviluppo capitalistico. 1970). considerare la teoria di Marx fondata sul metodo delle «approssimazioni successive» costituisce il primo passo per separare gli aspetti quantitativi del valore dagli aspetti qualitativi. E, una volta perpetrata tale separazione. più 'nulla osta a intendere la determinazione sraffiana dei prezzi quale soluzione adeguata del problema marxiano della trasformazione. ossia quale approssimazione successiva dei termini di scambio calcolati in ore-lavoro. Lunghini. che proprio a tale posizione si contrappone. rischia perciò di contraddirsi se non assume in una chiave molto più critica le parole di Dobb. Stratag8Qiffllm8 decreti Gianfranco La Grassa D valore come astrazione del lavoro Bari. Dedalo libri. 1980 pp. 133".lire 5000 Graziella Cafaro e Marcello Messori La teoria del valore e l'altro (con una appendice sui nuovi epistemologi) Milano. Feltrinelli. 1980 pp. 104, lire 2500 «C'era una volta la teoria economica» in Alfabeta nn. 10 e 13. febbraio e maggio 1980 M olto opportunamente, nell'appendice sui nuovi epistemologi contenuta nel n.34 degli opuscoli Feltrinelli. M. Messori ha posto in evidenza la connessione stretta che corre tra il dibattito ormai pluriennale sui fondamenti della critica deireconomia politica e quello più recente sulla «crisi della ragione». M. Messori e G. Cafaro, coautrice del volumetto, partono da una critica den'epistemologia di ispirazione anglosassone per tornare a ragionare su Marx e la teoria del valore. Il punto di attacco è ovviamente quello sulla possibilità o meno di «ricondurre ad uno o più fattori teoricamente esplicativi la complessità delle relazioni presenti in un dato sistema reale». La tesi proposta è che l'individuazione di un centro. o momento ordinatore della complessità sociale non significhi affatto - nel marxismo - riduzione. collasso. eliminazione aprioristica. bensì ipotesi esplicativa principale,chenonpretendedi per sédi esaurire l'intera articolazione del reale, ma prova invece a dedurla. La simmetria, sul piano del dogmatismo teorico,. tra sistemi centrati e sistemi acentrati. è del resto evidente. La scelta non può essere appunto condotta a priori: metodo. struttura e oggetto della teoria nascono generalmente insieme, con l'avvertenza tuttavia che la necessità di pervenire a leggi , impone di per sé una gerarchizzazione dei fatti; i processi di riconduzione o di deduzione tra gli enti che le teorie introducono appaiono quindi non tanto connessi a ingiustificate impostazioni monistiche. quanto alla necessità stessa di fornire rappresentazioni legali della realtà. Partendo da questo tipo di considerazioni. Messori ipotizza che la crisi del pensiero classico invocata da un ampio settore della nuova epistemologia italiana discenda in realtà da uno strano processo di riduzione del pensiero classico al pensiero assiomatizzato. e da una analoga riduzione della metodologia scientifica al falsificazionismo metodologico di stampo anglosassone. Si tratterebbe in sostanza di uno stratagemma retorico. che consentirebbe di costruire fittiziamente l'oggetto della critica insieme alla critica stessa. I limiti connaturati all'assiomatizzazione. e la critica interna al falsificazionismo. verrebbero quindi scambia ti tout court con il collasso del pensiero occidentale. N on è qui possibile argomentare se questa fuorviante identificazione sia avvenuta effettivamente, oppure se l'analisi critica della cosiddetta ragione classica non investa problemi più ampi. per altro probabilmente già invecchiati rispetto all'effeitivo procedere della ricerca scientifica. Qui preme soltanto sottolineare che l'effettiva crisi del tentativo di definire standards di scientificità assoluti, e le riconosciute limitazioni connesse ai sistemi assiomatizzati, sdrammatizzano in un certo senso la discussione sullo statuto scientificodel marxismoe delle teorie economiche, riproponendo invece. al centro della discussione, problemi di merito piuttosto che di metodo. A questo proposito, se nel libro _di Cafaro e Messori la ricostruzione del dibattito recente sulla teoria del valore - e segnatamente delle posizioni «di compromesso» di C. Napoleoni - è condotto in maniera accurata e puntuale. non altrettanto conv·incenti appaiono le indicazioni di soluzione proposte. Qui infatti la dicotonia filosofia-scienza che Napoleoni vede nel giovane Marx e riproduce egli stesso è fatta giustamente risalire a una visione ontologica del reale, secondo la quale nel capitalismo si attuerebbe quell'inversione di giudizio che porta ad essere il lavoro un soggetto e l'uomo un predicato. Il «fallimento» della teoria del valo- "' re-lavoro è dunque per Napoleoni -~ iscritto e cristallizzato nella struttura gi, stessa del reale, giacché «quanto si è ~ oggettivatosi è anche perdutonell'og- ~ getto, nel senso che il compimento del rovesciamento tra soggetto e predicato all'interno della tòtalità del valore e, dunque. come risultato del processo di oggettivazione, lascia soltanto l'oggetto. la cosa. Il valore cioè distrugge la valorizzazione e diviene totalità» (op. cit., p. 44). I rapporti di scambio si sganciano quindi in maniera assoluta dalla determinazione in tempo di lavoro e la politica economica dalla critica

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