Alfabeta - anno II - n. 15/16 - lug.-ago. 1980

Parzialitàdellescelte U na delle cause - forse la più importante- per spiegare la parzialità dei giudizi. la partigianità delle scelte. in molte manifestazioni artistiche dei nostri giorni- (e questo 9ale a maggior ragione per questa Biennale)-è la paura dell'obiettività. il terrore di molti critici. storici dell'arte. mercanti. di dover rinunciare a preferenze. a convinzioni. radicate e <sofferte>; (o. per contro. interessate). Che intendo dire con questa affermazione? Che molti di quelli cui viene affidato il compito di organizzare queste grandi rassegne non sanno o non vogliono sganciarsi dai luoghi comuni a cui sono rimasti aggrappati e difficilmente accettano di rinunciare a deterrninati indirizzi. giusti ancora ieri; non più giusti oggi o domani. Quanti. ad esempio. quando attorno al '65 scoppiò la pop art la accettarono di buon grado? Ma. appena entrata nell'ordine d'idee della maggioranza. quanti seppero accorgersi in tempo che ormai questa corrente era esausta. era avvizzita? e abbiamo un esempio sintomatico anche a Venezia. Osserviamo il precoce decadimento di quell'idolo (in parte autentico in parte fasullo) che fu Warhol: personaggio mitico degli anni sessanta-settanta. più per i suoi film e per il suo <Stile». che per le sue decisamente grossolane serigrafie. Oggi. come tanti play-boy della haute-couture. appare tristemente invecchiato e può servire tutt'al più quale eroe da prendere a prestito in qualche ctreatro d'appartamento» come quello degli Squats, dove di recente apparve rifatto da un altro attore come un'antica - moderna maschera della commedia dell'arte. Un caso analogo. ma di segno contrario. è quello di Beuys. Quanti critici insistono nel sottolinearne la presenza come quella d'uno <sciamano». deridendo i suoi sudici cappellacci di feltro (posti a riparo della calotta cranica di metallo). le sue csales» salopette. le sue prediche profetiche. decidendo che. per questi soli fatti. si tratta d'un impostore. Mentre non s'accorgono che dietro lo straordinario equilibrio di molte sue composizoni (ricordo sue vecchie opere plastiche al museo di Colonia; ma penso anche all'odierna sala della Biennale folta di segni. di scritte. tra il pianoforte a coda e le lavagne sospese). c'è anche qualcosa d'altro: c'è un credo estetico- politico - geistlich, che non è certo basato sul nulla (come quelli d'un Venet. d'un Buren). ma su convinzioni abbastanza profonde e meditate. W arhol e Beuys - che aprono il percorso centrale di questa mostra - non sono che due casi limite. Ma ce ne sono molti- in questa Biennale troppo frettolosamente criticata e tuttavia abbastanza istruttiva che potrebbero riconfermare il mio primo appunto: è bensl vero che l'ultimo decennio ci ha inondato d'opere concettuali o di strutture primarie. ci ha allontanato dalla cbuona pittura astratta>. e che quindi il panorama offerto dalla sezione centrale: <L'arte negli anni settanta> (ordinata da Bonito Oliva. Michael Compton. Martin Kunz e Harald Szeemann) risulta un po' smorta e monocorde. Ma è anche vero che queste sono state le personalità emergenti di cui non possiamo non tener conto. Sicché: non terremo conto di molti· mediocri riempitivi (dovuti soprattutto alle scelte svizzero-tedesche come ad es. Immendorf. Jenney. Li:iperz. Polke. Penck. Raetz. Thek). ma non alzeremo neppure lamentele se qui mancheranno alcuni importanti artisti come Rauschenberg o Dorazio. Kosuth o Oppenheim. Dibbet o Luthi. Newman o Rothko. che. certo. operarono in quegli stessi anni. ma non costituirono la <novità specifica» del decennio in questione. Mentre. invece. un Serra. un Morris. un Judd; e anche un Merz. un Paolini. un Kounellis. un Calzolari. una Darboven. un Long. una Agnes Martin. ecc. furono davvero i protagonisti d'un periodo molto difficile. molto ingrato. un periodo disancorato tanto dalla pittura che dalla scultura (nel senso tradizionale di questi termini). un periodo politicamente confuso. che nell'arte minimal e in certa carte povera• (soprattutto di stampo italiano) si rispecchiava. e che. come tale. meritava di essere riproposto attraverso i suoi maggiori esponenti. L'atmosfera post-sessantottesca. dunque. mi sembra in definitiva. raggiunta (anche se esistono notevoli lacune e alcune incongrue presenze. come. ad esempio. la tardiva apparizione del buon vecchio Kenneth Martin. o quella della simpatica ma un po' frivola Anette Messager); come è raggiunta. del resto. anche nella sezione italiana (ordinata da Vittorio Fagone ). Anche qui. potremmo obiettare: perché Olivieri. Verna. Battaglia. dignitosissimi pittori. ma non Pistoletto. Spagnulo, Gastini? Ma, bando alle recriminazioni. Credo che bastino artisti come Vaccari e Patellla. come Merz e Carpi. Griffa e Dadamaino a dirci come in questi ultimi anni l'Italia abbia saputo dare una lezione (più che prenderla dagli altri) di concettualismo e di impegno critico per merito di molti suoi protagonisti. Basterebbe l'invenzione plastico-concettuale di un Agnetti. la incredibile accumulazione dei datti della vita> di Dadamaino da sole a elevare la nostra sezione molto al di sopra della media europea. E. a questo proposito. un appunto di carattere generale. s'impone: perchédopo l'espressionismo astratto dell'action painting. dopo le minimalizzazioni povere. abbiamo assistito negli anni settanta a un prorompere di sperimentazioni cosi lontane dai consueti orizzonti pittorici e plastici? La ragione mi sembra evidente: c'è stato - nelle arti figurative. come nell'architettura e nel teatro - una massiccia invasione di ambizioni teorizzatrici e speculative: sfociate spesso nello sfoggio di complesse poetiche ad opera degli stessi artisti. Anche molti body-artisti (di cui chissà perché la Biennale si è quasi scordata. e che. pure. costituirono uno dei piatti forti del passato decennio) molto spesso si compiacquero di discettare prolissamente attorno alle loro performances. come fecero ad. es. Acconci. Gina Pane. Carpi. o la Scuola Viennese. li fatto che. in questa sede - dopo tante spesso sottili argomentazioni - un artista dell'originalità di Acconci si sia ridotto a inventare un giochetto politico-dinamico da baraccone di fiera (un'altalena che trasforma. a chi la usi. la bandiera statunitense in una sorta di gabbia con l'emblema sovietico) è rattristante. Si vede che per molti di questi artisti. <guariti• dal concettualismo. si sta aprendo un periodo alquanto desolato. Ma il concettualismo. come il bodismo (se vogliamo adottare questo neologismo a indicare l'uso del proprio corpo a fini estetici) è agonizzante. Lo prova. nel padiglione austriaco. Valie Export. che non impressiona più nessuno con le sue esibizioni leggermente masochistiche. Far sanguinare le proprie falangi con la manicure. non è sufficiente a commuoverci: Gina Pane e Marina Abramovit facevano di meglio e di maggiormente «sofferto». Come non ci impressionano più le messe in scena macabro-cruente dell'israeliano Moshe Gerchuni. M a invece ci deve impressionare la grande sala di Magdalena Abakanovicz. che. nel padiglione polacco. ha costruito forse l'operazione più intensa di questa biennale. Conoscevo già certe colossali costruzioni a base di funi. viste in Polonia anni addietro. prima che il poverismo dilagasse. e strutturate con tutGilio Dorjles l'altra forza e vitalità delle operazioni povere dell'occidente. Che Abakanovicz sia molto vicina a Kantor (o anche di più a Szajan) non c'è dubbio. Se. infatti. Kantor - abile pittore. intriso ancora di ricordi surrealisticoespressionistici - si è servito della pittura soprattutto come propedeutica alle sue straordinarie realizzazioni scenico-teatrali. Magdalena ha saputo fare con le sue «Alterazioni» un'opera altrettanto teatrale: lo scenario ideale per quei personaggi visti di schiena - larve umane non dome; potenti. inAdriano Spatolq carnazioni. nella loro veste di sacco. d'una dignità dell'individuo che qui viene forse simbolicamente riaffermata. Come possiamo. allora, dopo l'autenticità del messaggio polacco. considerare autentico quello tedesco? (Del francese il pudore ci esime dal parlare; salvo a chiederci per quale mai ragione la scelta di questa nazione sia caduta su artisti così poco rappresentativi). Quando un artista. giovane e già molto noto come Anselm Kiefer si presenta con le sue quattro «stazioni», che non saprei come definire se non neo-alchemiche: Verbrennen Verholzén Versenken Versanden (combustione. lignificazione. affondamento. insabbiamento: ma la traduzione non rende l'efficacia macabra dell'originale tedesco) dobbiamo proprio credere a tale recupero mistico-nibelungico da parte della «Mine» (del centro) della vecchia Europa? Non è un pericolo che la Germania sia ancora - o di nuovo - oscillante tra il misticismo probabilmente mal inteso d'una Geisteswissenschaft alla Beuys (la rivista antroposofica Die Drei rifiuta gli adattamenti che l'artista compie della lezione steineriana) e quello., ancora più pernicioso. d'un tardo profetismo nietzschiano-wagneriano? Non mi è possibile - né penso sia utile - soffermarsi sui diversi padiglioni nazionali. che offrono ben poche novità degne d'interesse: non certo la risaputa artigianilità dei giapponesi o la giocosa vena dei brasiliani, né la fumosa astrazione degli scandinavi, o la. un po' truculenta. figuratività degli spagnoli. Vorrei. invece. soffermarmi su quella sezione che va sotto l'incauta etichetta di «Aperto 80»: ossia aperto a quanto sta per sbocciare o è già sbocciato e pronto a fiorire nel prossimo decennio. I boccioli. ahimé. non sono molto incoraggianti; anche se corrispondono abbastanza esattamente alla generale fioritura del periodo che stiamo attraversando. Anche a questo proposito ripeterò la mia osservazione iniziale: molti hanno gridato allo scandalo perché non trovavano qui i loro artisti preferiti - concettuali o oggettuali o minimali -o. addirittura. (da parte di chi è ancor sempre speranzoso d'un recupero neorealista) gli emuli della natura, gli imitatori e rappresentatori del Vero e del Bello. Non è certo questo il guaio dell'odierna scelta (ad opera di Bonito Oliva e di Szeemann): gli artisti (più o meno giovani: alcuni come Artschwager hanno quasi sessanta anni) sono davvero rappresentativi del panorama attuale; ho potuto constatarlo in molte altre occasioni e il fatto che molti di loro prescindano da schemi e moduli appartenuti agli anni passati è semmai un fatto positivo. li male è un altro: ed è che quasi nessuno ci si presenti come davvero «nuovo-nuovo» o «transavanguardista» (per usare l'ultima terminologia impiegata nei loro riguardi dalla critica più «avanzata»). Non è un caso, del resto, se ognuno di questi schieramenti artistici è stato parallelo ad altri schieramenti filosofico-letterari; anche se raramente con la consapevolezza di tale parallelismo da una parte e dall'altra. Guardiamo. per esempio, alla moda fenomenologica degli anni cinquantasessanta o a quella semiologica çlegli anni settanta. Vedremo che alla prima corrisponde. grosso modo, un discorso «ironico» essenzialmente oggettuale (gli «aistheta» husserliani!), come alla seconda corrisponde un discorso tipicamente· concettuale: le Tre seggiole di Kossuth, oppure le sfibranti elucubrazioni di Art Language, le filastrocche visivo-yoyciane di Patella, i paradossi semiotico-iconici di lsgrò (un altro artista che non avrebbe dovuto mancare nella rassegna degli anni settanta); come nel padiglione portoghese, le poesie-visive e concrete di E. de Melo e Castro. di ~na Hatherly. di Antonio Sena. di Ernesto de Sousa; tra i quali poteva essere inclusa la poesia visiva di Salette Tavares. D unque: tout se tien: i reciproci influenzamenti interdisciplinari non mancano. Come dovremo allora prevedere l'attuale (e prossima) fase. sgombrato il terreno (e le tele), tanto dalle oggettualità fenomenologiche e minimaliste che dalle prolissità linguistiche e semiotiche della poesia visiva e dell'arte concettuale? Sarebbe logico attendersi un'invasione - e un invasamento - delle arti visive da parte di tendenze alla Bataille-Derrida. alla Lacan-Pleynet. Ossia l'influenzamento di molti artisti da parte di quel filone, più che filosofico psicanalitico-antropologico, che da qualche anno furoreggia con alterni resultati letterari e, sino ad ora, scarsi resultati pittorici. Ebbene, se diamo un'occhiata, per quanto affrettata, allo schieramento presente nei Magazzini del Sale, lasciando da parte alcuni buoni artisti. già noti e non tanto giovani (come Artschwager (del '23) e Moskowitz (del '35) cosa troviamo di veramente caratteristico? l) Un recupero (volontario) del Kitsch (come nel caso di Smyth, Kuschner, Ripps, Zakanitich, ecc.). 2) Un recupero (un po' meno volontario) del Naff (come in Clemente, Klinkan, Jenney, ecc.). 3) Un volontario (ma fino a che punto non dovuto ad autentica incompetenza?) impiego di «cattiva pittura» e pessimo disegno neoespressionista (Luciano Castelli, Disler, Peter Meli). Ma troviamo anche - ed è forse l'aspetto che più ci interessa - un tentativo di persiflage, di ironia («una vena ironica, il senso del gioco» come afferma Bonito Oliva): è il caso di Paladino, uno dei migliori tra i presenti; e in parte di Chia, di Cucchi (e- seppur qui non esposto - di Maraniello). Dunque: una volontà di abbandonare i canali, ormai divenuti troppo visitati, del bell'oggetto, della buona pittura, ma anche del materiale povero, dell'iperconcettuale. Forse un consapevole rifiuto del troppo impegnato, politicosociologicamente impegnato («una mostra libera da ideologie», afferma Szeemann, «in compenso si sono accresciuti gli apporti della fantasia e le libertà sensuali»). Dunque la volontà o la pretesa di restituire all'arte figurativa certe prerogative che non sono necessariamente «auratiche» (ossia l'unicità, l'artigianalità), ma che forse lo possono diventare. Certo: si tratta di speranze più che di realtà in atto. È abbastanza probabile che - presi nella morsa mercantile: anzi, critico-mercantile - questi poveri (per ora: domani probabilmente non più) giovani, finiscano per diventare le prede del gioco al massacro capitalistico-consumistico. Ma chissà che una benefica crisi energetica o qualche crollo valutario nell'area americano-tedesca, non possa offrirgli quell'afflato poetico (e poietico) che oggi quasi sempre gli fa a,1cora difetto.

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