Alfabeta - anno II - n. 13 - maggio 1980

liolenzacomenorma Italo Mereu Storia dell'intolleranza in Europa - Sospettare e punire. D sospetto e l'Inquisizione romana nell'epoca di Galilei (con 18 illustrazioni fuori testo) Milano, Mondadori, 1979 pp. 535, lire 7000 Giuseppe Ugo Rescigno Corso di diritto pubblico Bologna. Zanichelli. 1979 pp. 699, lire 15.800 '( La Fmis Austriae, il crollo di quel mondo equilibrato, saldo, efficiente e tollerante. che si raccoglieva intorno alla figura statale dell'impero asburgico, ha avuto una lunga alta decadenza, dentro la quale c'è stata produzione di cultura per il secolo avvenire. La crisi invece di questo sistema della civiltà occidentale, di questo universo 'dialettico'. inquieto, dispersivo, repressivo, che si è espresso e mascherato nella forma garantista dello Stato liberaldemocratico, questa crisi è oggi convulsa e rapida, di basso livello, vuota di qualità, produce solo, a tutti i livelli, violenza, nella società, in politica, sul lavoro, nel privato, in un unico. diffuso tragico gioco di morte>. Cito Mario Tronti, dall'ultimo musiliano paragrafo del suo più recente saggio (Il tempo della politica, Editori Riuniti. Roma, 1980). La violenza come «campo> della coazione e del giuridico. Un suggerimento per prendere a parlare di diritto, per vie tali che si prestino ad essere percorse dalla cultura delle umane esperienze. È la cultura che si è diffusa, prodotta dal femminismo (tanto lontana dal 'virile' sapere giuridico quanto fertile) che ci consegna l'evidenza della repressione fondante la normalità, e, coerentemente, delle istituzioni, luoghi normalizzanti, come vettori di violenza. Banale, ma solo per quanti alla riflessione che gli anni Settanta ci consegnano si sono alimentati. La riflessione sulla violenza - che non sia volgare propaganda di politici - può venire a buon titolo teorico (proprio per la sofferenza che il pensiero umano reca seco) dalla parte sofferente e non certo dai suoi beneficiari predestinati, sia pure «teorici>. Ingenuo dunque attendersi una esplorazione critica della violenza da parte del «sapere giurico> che teologicamente si soddisfa a transustanziarla in forza. Gli assi cartesiani del giure - ordinamento (norma) e autorità (organizzaP roprio un anno fa ero costretto a lasciare l'Italia, e, fra l'altro, una attività redazionale diretta per queste giornale. Nel corso di I 2 mesi mai nessuna, non dico prova, ma neppure indizio o accenno di indizio è stato formulalo o fatto trapelare intorno alle mie responsabilità per una serie di fatti ben precisi (non idee mi si contestano), come una ventina di omicidi (fra cui Moro), ferimenti, attentati vari. Lo stesso calderone di accuse immotivate ha privalo della libertà personale la maggior parte di quanti, come me, avevano aderito a Potere Operaio, divenendo perciò, I O anni dopo, automaticameme responsabili di tulio il terrorismo italiano. Ma oggi la montatura sta crollando, se pure dopo un anno alroce, se pure non a causa di una coraggiosa mobilitazione di forze politiche e culturali. Oggi i giudici sono obbligati dagli eventi a dichiarare l'inconsistenza del cardine de~'accusa, la tesi della genealogia del terrorismo, della sua articolazione in diverse sfaccettature, tutte riconducibili ad un unico compio/lo con al centro i cervelli di P.O. Oggi i giudici sono costretti a riconoscere che gli incriminati del 7 aprile e del 21 dicembre sono «stellarmente» altra cosa dalle Br e dal terrorismo. Oggi, anche il Corriere della Sera (che zione) - la definiscono cosi. Eppure, premuti e fatti desti dal quotidiano, è sempre più difficile sfuggire a questq luogo d'incontro di legalità e illegalità, negargli collocazione teorica. cioè riflessione e non apologia. Vediamo ora come si legano a questo tema i lavori indicati all'inizio. Ma, un momento: una riflessione preliminare. Una delle magie del discorso giuridico è questa, l'escludere (o meglio - è prestidigitazione - far scomparire) dal suo universo le figure di violenza proprio mentre le fa sue attraverso un passaggio di valorizzazione, e le fa sue imponendo loro il nome di «forza». La forza del diritto. Forza «battesimale,. è all'origine quçlla che al di(itto borghese deriva -come a tutti i monopoli - dall'essere monopolista statale della violenza armata (è uno dei temi di Rescigno). Dare i nomi è potere prossimo al sacro; «battesimo> è prima violenza. É dopo di ciò (ma non è un «dopo» logico). dopo tale iniziale magia - che non viene più esplorata - che ci si può diffondere a parlare del rapporto tra diritto e «forza» invece che del nesso trasformativo del diritto e dei termini violenza e forza tra i quali si tende il diritto. Cosl allora la violenza legale appare «naturale> (e «inevitabile», quasi come il lavoro), ogni altra «contro natura», barbara; meglio, la sola che meriti il residuale nome di «violenza>. Fuori campo del diritto borghese è violenza, quando vi entra è forza. Come forza lavoro e lavoro nella dinamica del capitale. L a necessità per il diritto borghese di os~urare la violenza è stata analizzata nei suoi più minuti passaggi dalla ricerca foucaultiana, necessità che connota il diritto della nostra era e che ci autorizza a qualificarlo «borghese> non per ridondanza o per vezzo. E infatti il teorico massimo di questo diritto storico. Kelsen, poteva scrivere che diritto «è un certo ordinamento (ò una certa organizzazione) della forza>. Ancora una volta la «forza» del diritto appare altro rispetto alla violenza proprio in quanto razionalizzazione di quest'ultima. volta a un suo più sottile e raffinato uso; è dunque l'elemento ordinativo e organizzativo, come fattore unitario, a nobilitare un sistema, a trasformare - se così si può dire - violenza in forza. Che poi tale razionalità sia tutta torpida di sonno Cesare Donati dogmatico e implichi il progetto illuministico della produzione e dello sfruttamento è - ci sembra - sin troppo evidente. È la storia della trasformazione e della razionalizzazione che ci interessa. che è irrinunciabile per lo studio - cioè per la comprensione-del diritto e del suo autentico sapere. Eccoci allora ricondotti alle vicende della violenza, al suo «campo», ai lavori di Mereu e di Rescigno. E proprio perché in questi lavori si parla - anziché velarlo e reci- - tarlo, cioè tacerlo - di diritto che l'inquietante quesito sulla violenza non può essere evaso, le figure che la consacrano - quella sociale, il sospetto e quella statale, il monopolio delle armi - si manifestano nel punto alto delle riflessioni condotte. Mereu. storico del diritto. analizza la politica cattolica di repressione del dissenso nel periodo che va dalla nascita dell'Inquisizione alla morte di Galileo. e all'interno della sua ricerca pone uno studio più ristretto al .processo contro Galileo per trarre dai documenti processuali la prova che la tortura non fu- come si crede - risparmiata al vecchio scienziato. Il filone è la politica penalistica e i suoi istituti, ancor oggi ben conservati, ove si mostra l'intreccio della cultura costantiniana. ove i principi processuali del diritto romano- difesi dall'intolleranza della «fides» oltre Manica e nei sistemi anglosassoni derivati - vengono compromessi sino all'oggi. Lo sviluppo del processo inquisitorio a danno di quello accusatorio confluisce, come modello «cattolico», negli stessi ordinamenti istituzionali «liberali» che ne recepiscono la sequenza galileiana ammonizione-processodomicilio coallo per mandare al confino i nuovi eretici, quelli del dissenso politico. Tema vivo proprio oggi quando la tendenza allo stato autoritario proclama la tutela del dissenso (in casa altrui) e insieme fa uso (in casa propria) delle eredità inquisitoriali, prima fra tutte la macerazione della vittima - si pensi al diritto penale vigente che promette carcerazioni preventive di oltre dieci anni. L'istituto giuridico centrale al processo inquisitorio resta il sospetto, con le sue movenze di maturazione per reiterazione di accuse vaghe e di rafforzamento per diffusione del timore. Istituto giuridico cui poca attenzione - e il silenzio dottrinario è segnale non muto: è consiglio senza parole all'accantonamento e alla discrezione- prestano i teorici imbarazzati e un po' complici. Il suo valorizzarsi indica - potrebbe essere una prima elementare riflessione «giuridica» - la riduzione della sfera della norma giuridica a pro di una normatività sociale non sciolta da apparati, appunto, sospettanti. Il sospetto ha da essere sospetto da parte di autorità, autorità sospettante. Chi può permettersi di diffondere il proprio sospetto si è costituito come autorità, come «fama" che può diffamare; storicamente l'autorità ecclesiastica con la sua rete di controllo, polizia delle anime. Ma oggi assunta da «soggetti» definiti «sociali» che prendono corpo come burocrazie alternative e irresponsabili. Si pensi ai partiti, nuove «auctoritates» che nulla garantiscono alle libertà individuali e tutto alla propria. in primis immunità dalle leggi dello stato. E infatti collegato questo aspetto al mutare di significato di «legge», come la cultura borghese l'aveva intesa, alla «socializzazione» della norma che, attraverso i «media», si fa stigmatizzazione informale-e quindi violenza diffusa e neppure più «forza» come il diritto la intende. L'ambiguità che l'aggettivazione gesuitica induce ( «presunta brigatista» ad esempio, in luogo di «brigatista». È una ragazza bella che abbiamo visto piangere in TV) soffoca la diffamazione ma la dilata e l'impasta con il reale. «Presunta», ma presunta da chi? Tutto questo induce a riflettere sul diritto - e sul suo mito e sulla distorta valenza che il diritto assume nella società «del villaggio» e sulle torsioni che il «concetto» di diritto ha subito nei grandi momenti di mutamento dei mezzi di comunicazione: il secolo studiato da Mereu è esemplare, l'oggi è affar nostro. L a validità del sospetto è fondata dal mezzo con cui lo si comunica, così come la sua effettività risiede nell'autorità che lo produce. Il sospetto è normativo, fondato per il solo suo essere stato diffuso da «voces», per il solo suo essere sospettato, pensato, sognato come fantasma di «normalità» - proiezione di ciò che i sospettanti. per loro catene e miserie, non sono capaci di essere - che fonda presunzione di colpevolezza di quanti sembrano, agli occhi dei sospettanti, più liberi e vivi. Ogni diverso «può» - e perciò è presunto - essere colpevole, dunque: «sospettare e punire», nessun Intellettuasleinza dopo mesi e mesi di cubitali titoli accusatori in prima pagina, riduce la notizia della loro infondatezza in se/lima) scrive: «Non era stato scri110nella requisitoria sulla strage di via Fani che non c'erano dubbi sulle responsabilità di Negri? E come èpossibile, a distanza di qualche mese, cancellare con un colpo di spugna quelle che ieri erano considerate certezze assolute? È davvero così ampio il margine entro il quale può spaziare il libero convincimento di un giudice?>. Certo, non ha limiti l'ampiezza di tali margini quando sono de/lati da volontà politiche. Al Corriere della Sera avevo dichiarato, in un'intervista di un anno fa, che l'inchiesta era una montatura politica. Con maggiori elementi e convinzione oggi lo ripeto: «è il tentativo di esorciz• zare un intero movimenco di classe carallerizzato dall'aver saputo cogliere quelle che erano le esigenze emergenti dei nuovi soggetti antagonisti: studenti, proletari, disoccupati. E questo a qualunque costo, cioè senza prove, fidando essenzialmenle su/l'appoggio che il sistema dei partiti poteva assicurare alla magistratura a11raversola mobilitazione massiccia di tutti i mass-media» (Comitato 7 ap{ile). Tempo verràper una accurata analisi e discorso sulla stampa de~annata. E per un giudizio su una categoria. SaNanni Balestrini ranno sufficienti a limitare la sua condanna I' onesrà intelle11uale il coraggio morale di una Rossanda e di un Bocca, di fronte all'impegno ardente con cui, quasi agara, i giornalisti d' /rafiasi sono batluti per rendere acce/labili e convincenti le veline del potere, in una campagna senza precedenti per i mass-media? (Subendo ora la sorte tipica dei mercenari, quando le prestazioni non sono più necessarie: vedi il segretario della Dc Piccoli intervistato su Repubblica il 25 aprile: «Dinanzi a ogni arresto bisogna aspe11arela conclusione dell'inchiesta ed attendere il giudizio conclusivo del processo penale, prima di considerare colpevole ogni qualsiasi persona. Questo valeper voi, vale molto - se me lo consente - per la stampa, che è spesso portata ad estremizzare subito il proprio giudizio di colpevolezza o innocenza». Dove non è presa in grande considerazione la funzione di informazione della stampa). Ma questo non è che la cronaca di questi giorni, e non avrebbe forse un senso ripeterlasulle pagine di un mensile di cultura. Mi sembra invece preziosa per trarne alcune riflessioni d'ordine specificamente culturale. Partiti, magistrarura, srampa. E quale l'atteggiamento; il ruolo degli intellet· tua/i italiani nei confronti di un' inchiesta che vedeva non solo incriminati degli intelleuuali, ma sopra/lui/o la possibilità di esercitare un'auivirà di pensiero non conforme al potere vigente? Un cauto e minimale appello garantista, mesi fa, non è stato usato con la minima efficacia, anzi quasi disde110successivamente. Per contro, da molte parti abbiamo visto un impegno preciso a volere ritagliare su tuuo il movimento nato e cresciuto dal 68 la responsabilità del terrorismo. • Per quesri intellettuali l'occasione del 7 aprile era troppo buona: affossare una volta per tulle quel 68 che li aveva privati dell'«aura» (consenso, legilli• mozione, ossequio) imprirriendogli un marchio infame e sanguinoso. Non molti hanno resistito all'inebriante tentazione della vende/la di casta, a/l'ambizione di riaffermare i propri privilegi, alla speranza di recuperare lo spazio dei giovani. Sia schierandosi con schiamazzo e protervia, sia dando man forte con nebbia e silenzi (secondo il personale temperamento, perché il risultato non mutava) dalla parte dello status quo, contro il movimento della trasformazione (e cioè della nuova intelligenza e della nuova cultura) ... Oggi, non l'intelligenza dominante, ma la realtàdei falli ha dimostrato che il terrorismo non nasce nel movimento del 68, ma ha le sue radici proprio nella vecchia e ciecapolitica (e cultura) dello abuso logico, ma anzi, corollari rigorosi quali, immediatamente, la doverosità («morale») di delazione «civica». Tutto tiene, possibilità vale realtà. Sospetto è modalità ammalata di dubbio: «s11spicionon est cognitio certa sed dubitatio incerta». J giuristi secenteschi erano i grandi autori di p$icologia metafisica e normativa, e qui è di nevrosi ossessiva che si tratta - nevrosi d'autorità che Buiiuel ha gettato sullo schermo. Viene da ricordare El, il film ove la follia omicida e mistica del marito-dominus si radica nel sogno della fedeltà, nell'infantile rifiuto del perdere e del perdersi. La fides, la fedeltà-fede legittima l'intolleranza, attiva il sospetto. Siamo al diritto romano-cristiano: famiglia o proprietà, ortodossia o democrazia si fanno assoluti. Sono momenti in cui le burocrazie si dilatano e rafforzano e - non a caso - codificano, tracciano confini, rinchiudono. Certo scompongono e ricompongono. Con fantasie rituali e persecutorie scompongono umane vite e con i loro brandelli ricompongono aree di unità negative. Se l'unità d'Italia - è una riflessione di Mereu - nasce come unità poliziesca, «spazio giudiziario italiano», area di competenza inquisitoriale, perché stupirsi che per le stesse vie passi l'unità europea? Nuova area ove il dissenso non potrà non essere letto - à la Parsons - come devianza. Ma se questo funzionalismo è coerente, è anche allora legittimazione del trascorrere dell'emarginazione, tempo passivo, in momento attivo che sbocca nella pratica delle armi. La cultura del silenzio si propone à son tour come ambito del sospetto e il sociale è zittito dal momento in cui vi penetra la violenza legale e illegale. La storia delle categorie del procesSil penale-- ,a lat;tanza .trasformata in prova, per esempio-getta luce su questo quadro di peste sociale e sul diritto che vi si produce e consuma. Porta all'analisi del fenomeno giuridico e della sua logica, quella dei nessi imputativi come inarrestabile ricerca di tracce, dall'odore sulfureo del Barocco sino alle concordanze linguistiche più o meoo computerizzabili. Ci si avvia così a riflessioni sugli apparati propri dello stato moderno. La gerarchia delle sovranità ricercava il Signore del male, oggi l'ordine degli uffici e delle carriere burocratiche riverbera sull'antagonismo una presunta «direzione generale» - di stile ministatus quo. Un fossato si è scavato, forse irrimediabile, tra un ceto i'ntelle11ua/e che si è negato come tale, eciò che vive e produce pensiero e idee. I pochi.che non hanno abdicato si trovano di fronte a un compito enorme, che rimane però come sempre il compito fondamentale de/l'inte/le11uale:comprendere ciò che avviene e contribuire alla sua trasformazione. Enorme perché il tessuto, i rapporti della cultura, sembrano oggi irrimediabilmente guastati. È necessario tuttavia non cedere alla rinuncia, iniziare un'azione paziente e profonda, ad ampio respiro. Ma, soprattullo, oggi, dare un segno immediato e visibile di presenza in un nodo ·culturale che non può più essere eluso con rinvii ad un garantismo senza riscontri e senza speranze, quando la prassi giuridica è l'autodafé, la deten- ;:ionepreventivan, el/'attesamoralistica che si manifesti la prova della colpa originaria. Oggi, a un anni, di distanza, la liberazione immediata degli incriminati del 7 aprile deve essere richiesta e imposta da ogni intelle11ualeitaliano che non abbia ancora rinunciato a una indipendenza critica e morale nel ruolo che gli è proprio.

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