Alfabeta - anno II - n. 11 - marzo 1980

ne al bene. Nella Stein invece, quand'anche si applichi tematicamente alla passione, come in Come volevasi dimostrare - la lingua rimane vuota. Non del sentimento, né della passione, la lingua della Stein - come non percependo più distanza tra la parola e la cosa, avendo fatto della parola una cosa - non mette più in quell'intervallo la tensione nostalgica, o l'affetto, che vuole il bene del risarcimento di quella frattura. Situando la propria arte esattamente nel punto di giunzione (che è anche punto di frattura) tra parola e cosa, l'artista «classico» - e ancora Joyce in fondo, e Proust, e la Woolf - aveva innalzato il proprio canto: che era il canto di quella ferita. Non sarà cosi più con la Stein, che dirà: «Il nome non fa più problema, se non ai bambini» (Lectures in America). Se il nome non fa più problema è perché da cosa è vista nel momento che è vista»: perché «sentire una cosa nel mentre che esiste» - questo è secondo la Stein il modo del contemporaneo. Nella secchezza -à la Wittgenstein - dell'affermazione, la Stein riduce il problema della rappresentazione alla oggettività spettrale dell'enunciato. Il che vuol dire che l'uomo si situa per la Stein nello spazio alienato della propria esteriorità linguistica: non ha sottofondo, né riserve. Del resto non avendo tempo, non ha memoria: la sua mente è piatta, come l'encefalogramma di un cerebro-I~. È cinema, come dirà la Stein stessa. La sensibilità che la Stein descrive non ha più nulla a che fare con il sentimento, e con la coscienza: luoghi in cui si fissava «classicamente» la relazione del soggetto al mondo. L'uomo è per la Stein essenzialmente organismo: come il cane pavloviano, esso risponde a degli stimoli, inconsapevolmente. Non avendo più coscienza, Proseguiamo con una seconda puntata la serie d'interventi sul tema «Crisi della ragione?» riferito al libro curato da Aldo Gargani. La prima volta, nel n. 9 di gennaio 1980, abbiamo pubblicato interventi di U. Eco, F. Leonetti, P.A. Rovatti, M. Spinella, P. Volponi._ 6 Salvatore Veca: l egiochi» della ragione S i narra che Rudolf Carnap amasse dichiarare il suo debito intellet1uale nei confronti della ricerca del primo Wittgenstein. Si dice in proposito che quest'ultimo, su cui fiorisce notoriamente una straordinaria tradizione orale, usasseprecisare: «Non ho nulla in contrario a che i ragazzini rubino la marmellata. Ma, per favore, non vadano in giro a raccontareche gliel'ho detto io». Si parla (cioè: se è concesso paragonare cose piccole a cose grandi), una sensazione di questo genere mi accompagna da quando è uscito Crisi della ragione e un super dibatlito (se Volponi mi concede) sembra essere nato e cresciuto sulla raccolta di saggi curata da Aldo G. Gargani. Sembra, appunto; perché in realtà, a parte apprezzabili eccezioni locali, ilsuper dibattito globale mi pare un pasticcio quasi del tutto indipendente dal testo di cui uno assume si dovrebbe presumibilmente discutere. Si parla di tutto. O comunque, d'altro. E questo del resto non è una novità straordinaria perché risponde a una delle regole del gioco più rispettate dalla nostra comunità intelle/luale e corroborate e amplificate dalla spettacolarizzazione dei celebri media Uno espone delle argomentazioni. El' altro, invece di dire se sono vere o false, inte- ' ressanti o non interessanti, profonde o banali, in genere ti chiede o più spesso si chiede allusivamente: «perché dici questo?» (oppure: «che cosa c'è dietro?», «perché non parli di quest'altro?», «a chi vuoi veramente parlare?»). La sofferenza è notevole e può anche indurre stati confusionali come quelli documentati dalla storia notturna e aurorale dei caffè di Francesco Leonetti. E qui effettivamente ha ragione il né sentimento, ma solo organi di stimolo-risposta, è inutile offrirgli il discorso, lo spazio della parola, o il tempo della riflessione. Perché egli non riflette, re-agisce: la sua è l'attenzione distratta con cui l'uomo-massa. percosso da infiniti stimoli, si difende dal bombardamento. P aradossalmente, con un salto di tempo logico, si potrebbe dire che la Stein realizza ciò che Benjamin aveva profetizzato con il suo discorso sull'allegoria. È il rigo, mortis di una parola cadavere ciò con cui la Stein lavora. Compulsivo e alienato, l'uomo ideale della Stein è il tipo dell'allegorico, nella fisionomia che prende quan40 Aetcher combina, in una sorta di tipologia psicologico-stilistica, l'identikit dell'eroe allegorico come una «displaced person». Ovvero, lo spaesato, colui che come Enea - dice Aetcher - è alienato da11apropria patria (in Allegoria, teoria di un modo di percezione simbolico). Dell'allegoria torna nella Stein un altro tratto pertinente; questo connesso da Luklics al procedimento allegorico. Ovvero l'astrazione disantropomorfizzante: si che si potrebbe dire che per !,a Stein - come per lo scienziato - il soggetto ideale è una macchina cibernetica. Tale dovrebbe essere il lettore, per la Stein: per la quale appunto il lettore non è più in un contratto di parità con l'autore. Il lettore non può difatti chiedere nulla: né una storia, né una trama, né un inizio, né una fine. È prevista per lui la parte del sonnambulo, per riprendere una felice immagine che Finzi usava in un saggio molto bello a proposito del nostro contemporaneo («Il sonnambulismo», in Crisi del sapere e nuova razionalità - Bari, De Donato, 1978). Il presente continuo di una scrittura, la cui principale strategia è la ripetizione. induce esattamente nella condizione di torpore del sonnambulo. La ripetizione è un altro dei modi che la Stein usa per la eliminazione del tempo: del resto che tempo è quello di chi si muove dormendo? È il giorno, o la notte? È il tempo dell'azione. o il tempo del riposo? E qual è il tempo della ripetizione? Ancora una volta si torna. questa volta attraverso la ripetizione, ad operare una sostituzione dello spazio al tempo. Nella-ripetizione difatti ciò che accade è un ripresentarsi sulla superficie di ciò che in essa era già stato. La superficie si riempie con ripetizioni successive: lo spazio tutto si satura: il movimento non è progresso (allineamento temporale), ma ispessimento del processo stesso. C'erano una volta gli americani (buona la traduzione; e interessante l'introduzione di Barbara Lanati) è di quel procedimento della ripetizione, e della sostituzione dello spazio al tempo - testo esemplare. Al posto del tempo, e della storia, c'è qui l'albero genealogico, l'espansione orizzontale della generazione. '· Ciò in cui la Stein si colloca è anche in questo caso, per· dirla .con parole foucaultiane - l'analitica della finitudine. Se l'uomo è finito, tutto iiì lui si ripete. Poiché ha una fine, la sua vita ha uno sviluppo finito, al termine della quale non si può che eternamente ripetere. «Tutti dicono la stessa cosa,, dice giustamente la Stein delle due (amiglie, di cui racconta the making. Cosi il tempo si annulla: e il generale e l'individuale mescolandosi riduconq le differenze a una generalità di base. È il sempre-uguale che trionfa. La ripetizione è abitudine, assuefazione: è ilphtirmakon con cui il nevrotico-sia esso l'isterico,"sia esso l'ossessivo~ si proteggono contro la possibile irruzione del nuovo, e cioè contro l'esperienza. La ripetizione è il tutto uguale di una prosa che, procedendo per sistematica paratassi. non allude assolutamente mai a una profondità, o ad un'altezza. L'andamento orizzontale della prosa steiniana compone una superficie tutta piena: scambiandola con il reale. potremmo dire che nel reale. per la Stein. non c'è buco. Nulla manca in quello che c'è. Che è esattamente, per tornare all'inizio. quella prima impressione di cui dicevo: quell'aria indolore della sua prosa. e della sua vita, quell'aspettò compensato, da Mother Goose, che ha in tutti i ritratti, e in tutte le foto: Ebrea, esule, incerta della propria sessualità, tutto questo che avrebbe potuto uccidere chiunque, fu dalla Stein volto nel positivo della figura di «un'eccentrica». Autodidatta, geniale. pettegola, musa, genio, lesbica, un'impostore, e anche un patrono delle arti: tutto questo la Stein riuscì positivamente ad essere, avendo fatto della terra, che è rotonda, una superficie piatta. Sostituendo l'orizzontale della superficie al movimento verticale della costruzione ipotattica, la Stein elimina difatti ogni allusione ad un'altra scena, che trascenda la positività e visibilità dell'apparire. ~e, teleologicamente, ogni costruzione ipotattica individua il proprio principio compositivo nell'autorità di un non-detto, e non-visibile, che pure tutto organizza, al di là della scena; nella prosa steiniana l'eliminazione di questa dimensione, o fantasma, è rigorosissima. Per quanto riguarda l'uomo del novecento-pare dire la Stein- tutto in lui si ripete, e tutto in lui accade in superficie. Non v'è per lui nessun al di là. Se questo accade è anche perché l'uomo è tutto uguale, e «tutte le storie sono importanti»: e dunque la storia Crisdiellaragione? ( Il) buon Rovatti: il testo è un pretesto. L' acuta precisazione sembra far intravvedere una viad'uscita: benissimo, àllora discutiamo di ciò per cui il testo è un pretesto! L'ingenuità di una richiestadi questo genere è pari alla sua audacia. Troppo facile: il testo non ci dà alcun aiuto a parlare di ciò di cui è pretesto. Tanto è vero che Rovatti dichiara onestamente che da lungo tempo pone tenaci domande al testo einaudiano cui esso non è in grado di rispondere. Escluso, per il noto principio di carità, il caso in cui gli autori o il cur.atoredel testo siano particolarmente cattivi e si divertano crudelmente (tipo: Don Giovanni e Donna Elvira) con un astuto e prolungato silenzio, la situazione è di evidente complessità e probabilmente solo Achille Campanile potrebbe suggerirci come far uscire la mosca di Wittgenstein dalla bottiglia. Ammettiamo però francamente e con un po' d'ironia che l'efletto d' insieme è solo buffo. Perché in fondo è come se uno, sbagliando nel fare un numero di telefono o per caso incappando in un utente imprevisto esconosciuto, insistesse ferocemente o suasivamente con domande rivolte all'altro. Oppure: ho bisogno dell'idraulico e arriva il falegname; sottopongo il malcapitato a compiti cui è palesemente inadeguato (gli esempi possono ovviamente continuare a piacere e sui campi, «piccoli» e «grandi», più diversi). . È interessante osservare che noi non ci comportiamo quasi mai nei modi qui descritti. Tuttavia, quando prendiamo il microfono e convegniamo, scriviamo il pezzo, interveniamo, seminariamo, diamo un contributo, ecc., allora le noftre usanze assumono una tonalità, come dire, esotica Il cosiddetto«dibattito» presuppone così singolari costumi e in fondo finisce per costruire un «mondo» a sé. Se poi il «dibattito» riguarda nozioni come quella di «crisi»,per molti motivi, questo «quarto mondo» (da suggerire a sir Karl R. Popper) si affolla di stranissimi personaggi che, per esempio, aggrediti da un ascesso si guardano bene dall'andare dal dentista perché potrebbero in tal modo superare la crisi, cioè uscirne. Ma questa sembra loro una soluzione vergognosa e perversa. Mentre nel nostro mondo è la più seguita e perseguita (almeno da chi ha interessea usciredalla crisi;e questo è certamente il caso del mal di denti. Chi vuole, traduca e esemplifichi di nuovo in molti altri campi). L'esempio del mal di denti mi suggerisce qualche elementare precisazione che non è forse inutile per provare a chiarire una o due idee (ottimi chiarimenti ha già dato del resto saggiamente Umberto Eco). Il termine «crisi», com'è noto, è insieme medico e giuridico; molto tardi diventa politico o sociale o economico, ecc. Come termine medico, indica da molti secoli più o meno quella fase del decorso della malattia, oltre la quale il paziente o guarisce o crepa 'rqualcosa del genere è presente in nozioni o immagini come «soglia critica», «punto critico», ecc.). Nel Seicento inglese si comincia a parlar(! di «crisi del parlamento»: il termine medico migra nell'universo politico e popola con grande successo il Settecento. Ma il Settecento è anche, come noto, il gran secolo della critica (che viene dal campo giuridico: la lite, il confronto tra le tesi, il conflitto, il Emilio Malerba, Ritratto. 1925 giudizio, la decisione, ilprocesso, ecc.). E quindi la crisi chiede una decisione razionale che la risolva e sciolgaquanto era avvolto. È qualcosa di affine alla soluzione di un problema. Quando un problema è risolto, sappiamo anche che ne sorgono di nuovi. Non sappiamo certo quali (lapretesa è francamente eccessiva): tuttavia, sappiamo che qualcosa del genere accadrà. (Provate a sostituire «contraddizioni» a «problemi» e avrete lessici familiari). Qualcosa del genere riguarda i nostri modi della ragione. E, dicendo «ragione», intendo semplicemente una famiglia di metodi, tecniche,procedure, stili impegnata nella soluzione di contesti circoscrittidi problemi. (Non è una trovata straordinaria, me ne rendo conto. Credo però siapersuasiva e getti luce su come stanno le cose. Quanto alle origini, non c'è neppure bisogno di scomodare Wittgenstein: basterebbe rileggere o leggere,per esempio, un vecchio saggio del '52 di Abbàgnano e le osservazioni in merito di Geymonat, se non sbaglio, del '53. Quello che è straordinario è il numero di scoperte dell'acqua calda o di inventori del cavallo che, entrando a frotte come le innovazioni à la Schumpeter, determinano il ciclo del nostro dibattito corrente). Se usiamo in questo modo semplice termini come «crisi» e come «ragione», possiamo dire che la ragione è così sempre associata alla crisi. E non è casuale che uno dei comparti della ragione in cui sembra condensarsi il succo della sua immagine sia quello del complesso·di strategie e metodi che usiamo chiamare «impresa scientifica» (che è naturalmente molte cose). Piaccia o non piaccia, è all'impresa scientifica, al suo mwamento, alla sua crisi, critica, crescitache dobbiamo guardare se parliamo dei modi, degli stili dei nostri «giochi» di ragione. Anche qui: è un pò' perverso chiedere all'epistemologia quanto essa non può dare. Cominciamo intanto a discutere e, se mai, criticare quanto ci dà. È ovvio che non risponda a tutte le domande possibili. Risponde, bene o male, in modo più o meno soddisfacente, alle domande che si pone. È tu/lo qui (uno può dire legittimamente che si traila di cose del tulto triviali:questo è parlar chiaro e almeno permelte, naturalmente se argomentato, la discussione). Ora, quando parliamo di crisi della ragione, vogliamo alludere a una famiglia di casi in cui siamo variamente impegnati a risolvere problemi difficili e interessanti. Che cosa succede per lo più in questi casi? Che, in genere, dopo aver tentato di utilizzare le procedure o i «trucchi» (l'ubiquo fantasma di Feyerabend ha colpito ancora una volta) che ci sono serviti a risolvere i vecchi problemi o che ci servono «normalmente» e usualmente per risolverequelli correnti, di routine, subiamo degli scacchi. Il conto non torna. Con gli strumenti classici (quelli che ci hanno insegnato in classecome standard) non ce la facciamo. E come suggeriva il grande Spinoza, che di ragione classica se ne intendeva, non è il caso di ridere o \ degli Hersland può diventare la storia dell'America. Così. paradossalmente, al fondo di ·questa avventura nella modernità. che con la Stein si compie, si ritrova l'arkè del moderno: ovvero l'everyman medievale. Del resto «i tempi feudali sono la stessa cosa dell'oggi». aveva detto la Stein nell'Autobiografia di tu/li. che in inglese suona everybody's autobiography. E del resto. dell'America la Stein aveva anche detto: è l'arcaico moderno. Come l'everyman medievale, l'uno che è ognuno, e tutti - ovvero non l'individuo borghese «classico», ricco della propria individuale interiorità e particolare volto - l'uomo contemporaneo della Stein, è massa. Solo che a differenza dell'everyman medievale, l'everybody di cui la Stein parla non ha al di là. La sua vita interamente si consuma nel viaggio mondano: come la lingua che scrive il suo viaggio mostra nella piatta orizzontalità del suo movimento. Del perché il suo viaggio debba compiersi, al contrario del pellegrino medievale, che aveva scopo e meta, egli neppure più si domanda. e osì credo si possono capire le ultime parole che la Stein pronunciò - pare - in fronte della morte. Pare che la Stein chiedesse «qual è la risposta?». E poi - come riprendendo quella secchezza e quel rigore, che è quella certa aria di famiglia che fa pensare, leggendola, a Wittgenstein - o come avendo ricordato quelle parole di Wittgenstein che non aveva potuto leggere: «una domanda esiste solo quando esiste una risposta, e una risposta solo dove ci sia qualcosa che possa venire detto ... i problemi della v,ita rimangono tutti interi ... naturalmente non rimane nessuna domanda, e questa è in sé la risposta» - allora, riprendendosi, pare che la Stein disse: «Già, ma qual è la domanda?». di piangere, ma di comprendere. E comprendere vuol dire costruire, progeuare, tentareprocedure diverse, tracciati è percorsi «nuovi» (l'enigma della «nuova» razionalità poi è tutto qui: nuovo vuol dire che è un po' o tànto diverso rispetto al vecchio). Non è poi detto che siamo obbligati a una sorta di «spreco» o di «lusso» della ragione. Anche laragione è associataallascarsi-· tà (infondo, è la vecchiastoria, allafine delle fini sempre persuasiva, del principio del minimo sforzo). Per lo più a me sembra che facciamo del bricolage e con gli al/rezzi che sono depositati nella celebrescatola ci arrangiamo a produrre nuove combinazioni, nuovi artefatti destinati a entrare, in caso di successo, nella storia naturale della ragione. Queste osservazioni elementari intorno a alcune regole d'uso di termini come «crisi» e «ragione», vorrebbero sommessamente suggeriredei «modi di parlare» o di osservare lo stato del nostro linguaggio. Non nutro una straordinaria fiducia, dato il rumore di fondo, che abbiano qualche capacità persuasiva. Tuttavia, magis amica veritas. Voglio dire: quando discutiamo o argomentiamo intorno a costellazioni di problemi come la «crisi del marxismo», suggerisco di usare le grammatiche elementari implicite nelle osservazioni precedenti. Scopriremo allora semplicemente che, dicendo «crisi del marxismo», intendiamo descrivere una situazione di questo tipo: entro e con gli al/rezzi della «scatola Marx», non riusciamo a risolvere i problemi che ci stanno di fronte. Sono convinto che questa sia una descrizione di come ef fe1tivamente stanno le cose. Ma vorrei far notare che anche chi è di parere opposto adotta o potrebbe adouare in realtà la stessa immagine: semplicemente ritiene di poter trovare, con un po' di fantasia o di passione, nel magazzino qualche arnese trascurato e ancora, come usa dirsi, potente. In ogni caso, la discussione mi sembra vertere su questo tipo di problemi. Oppure: quando si sostiene (io sono di questo avviso) la necessitàper l'intera sinistra di prendere coerentemente atto della crisi di progeuo e di altrezzatura concettuale all'altezza degli ultimi vent'anni del ventesimo secolo, si vuol dire in prosa questo: che i vari pezzi della tradizione, i suoi differenti modelli classicisono giunti ormai allafase dei rendimenti decrescenti. Riconoscere

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