Alfabeta - anno II - n. 11 - marzo 1980

Gertrud Stein C'erano·una volta gli americani Torino. Einaudi, 1979 pp. 338. lire 8.000 Autobiografia di Alice B. Toklas Torino. Einaudi, 1972 pp. 257, lire 3.500 Autobiografia di tutti Milano, La Tartaruga, 1976 pp.942, lire 5.800 Come volevasi dimostrare Torino, Einaudi, 1975 pp. 146, lire 1.600 James R. Mellow Cerchio Magico Milano, Garzanti, 1978 pp. 572, lire 10.000 A ccade spesso- mi accade spessodi identificare uno scrittore con l'impressione che ne ebbi la prima volta. Anche dopo anni, e altre letture, quella impressione può tornare a guidare l'ascolto: e perfino mostrarsi giusta, e vera. li che vuol dire che quell'impressione ha «lavorato», inavvertitamente, fino a condensare quella prima immagine leggera nella consistenza di una figura. Ora, la Stein è legata per me all'impressione che ne ebbi quando lessi la prima volta l'Autobiografia di Alice B. Toklas. Mi colpì quel racconto perché era il racconto di una vita indolore: quella vita, in discordanza con altre vite di artisti dell'epoca, si delineò ai miei occhi come una vita in cui c'era tutto quello che si voleva. Una vita che non conosceva mancanza, vuoto, oscurità, attesa, né disperazione. Erao così appariva - una vita indolore. C'era una rendita, e molta arroganza americana. Prendete proprio l'inizio. Quando giunse a Parigi nel 1903 e si stabilì al 27 di rue de Fleurus, Gertrude Stein non era proprio nessuno: e soprattutto non faceva niente. Aveva però del denaro americano: portava con sé la rendita, che non a .caso la previdente Woolf- per altro di molte cose prodiga, compresa la propria vita- considerava, dopo tutte le chiacchiere «ideali», fondamentale per l'emancipazione della donna. In tal senso la Stein era emancipata: ovvero americana. In Europa, in quegli anni, il denaro era americano; essendo l'emancipazione sostanzialmente un fatto di denaro, l'emancipazione era americana. La rendita fu, in effetti, all'origine della fama della Stein: con quel denaro la Stein, e il fratello Leo, presero a comprarsi la pittura moderna: Picasso, Matisse, Cezanne, Braque... Dopo, con quei quadri, si comprarono il romanzo, e la poesia moderna: Anderson, Hemingway, Fitzgerald, Pound, Eliot, Joyce ... Arredato di quei quadri, e di quegli ospiti. il salotto di rue de Fleurus ospitò la scena del novecento: a rue de Fleurus si assistette così a una trasformazione culturale, che riguardava in primo luogo la natura di quella forma di vita. t;;~- apere, che il salotto fu agli inizi del.;S.,olo. A rue de urus più che per parlare la gente veniva per osservare nei quadri appesi alle pareti la fine di un modo di composizione per forme ordinate e riconoscibili. Venivano soprattutto scrittori a guardare: fu un'epoca quella ~ ~7tf :S\i!:1/~~~~f bft :i.ò·a~~n ;:~;;~:~ -~ della condizione essenziale dell'uomo e,_ del novecento. Ciò che Bloch finemente interpreta dicendo: «Agli uomini manca qualcosa. la cosa principale, il volto e il mondo che lo contiene». Nella pittura prima che nelle altre arti ebbe inizioquella distruzione delle ::: forme visibili, che condusse l'avans:: guardia a incrinare profondamente il S! concetto stesso di rappresentazione. ~ Se ad un tratto divenne impossibile <l:!, disegnare un volto fu per via del fatto si che il mondo non offriva più alcun L'AmeriSctaein aspetto rappresentabile: e l'artista d'altra parte non si trovava più a suo agio nella materia, e voleva spezzarla. Per prendere - o. cinematograficamente. per riprendere il reale. e in esso l'uomo - l'artista dovette impegnarsi in operazioni di complicata ortopedia. Pezzo a pezzo. l'uomo lo si smontò, e lo si ri-montò: effetto di chirurgia fu il suo volto. qua odo si riuscì a raffigurarlo. L' «oggettività concreta» cara a Lukacs, viene con l'avanguardia definitivamente a tramontare. È piuttosto un'altra l'oggettività che si insedia trionfante nella terra desolata del novecento: quella allegorica dell'oggetto alienato. O)!l!etto è a questo punto Achille Funi, La sorella, /92/ l'uomo stesso: non più creatura colta nel suo vivere e nel suo fare, nel suo sentimento, e nella sua espressione, ma appunto oggetto preso nel suo essere prodotto, nella esteriorità pura del suo apparire. Invece che centro motore di tutto, individuo identificato alla propria azione e individualizzato dalla propria coscienza, l'uomo è colto al centro di una grande congiura, che lo allontana da se stesso, e lo vede sopraffatto da un linguaggio che lo annienta. La congiura è in questo: che del propno essere, e del proprio linguaggio. egli è espropriato ·da parte di un piano discorsivo che macchina reale al di là di lui. Non più dunque accolto nel linguaggio come proprio figlio, ma continuamente espulso, e continuamente in cerca di una riunificazione: così si sente l'uomo, e l'artista del novecento, e fu a Parigi, prima che altroce. a sentirsi così. P erché Parigi fu agli inizi del secolo il luogo di una grande avventura: l'avventura fu il sistematico spaesamento .a cui «le migliori menti» di quella generazione si sottoposero. Internazionale. cosmopolita, era al positivo il tono di quella esperienza che incontrò nei salotti e nei caffè lo spazio temporaneo di raccolta per una esperienza della disaffiliazione. A distanza di anni transitarono in quei salotti e in quei caffè la Stein. Nadia Fusini Fitzgerald. Hemingway. Anderson. Pound. Joyce. T.S. Eliot. Delaunay. Gris. Demuth. Picasso. la Barnes, e molti altri. Stranieri tutti. gli espatriati consumarono a Parigi la loro esatta percezione di una mutazione epocale. Ciò che loro si fecero accadere come per vocazione soggettiva accadeva oggettivamente (e inconsapevolmente per molti) al loro secolo. Senza patria per averla abbandonata; senza origine per averla tradita; senza tradizione, e senza storia per averle rinnegate-essi si vollero orfani. come per assecondare, anticipandone la radicalità, un sommovimento storico che di lì a poco si espresse pienamente nella catastrofe della guerra: che rese tuui orfani. Volendo scrivere l'Autobiografia di tutti la Stein più e più volte incontrerà il problema del padre: anche se «lei ha la tendenza a credere che tutti sono figli unici perché lei lo era ... » (come dice di Alice). li padre, dirà la Stein, è come tutte le cose: «Padri vengono su e padri vanno giù. È abbastanza naturale quando nessuno ha avuto padre si incomincia a desiderarlo e poi quando tutti hanno avuto padri cominciano a desiderare di farne a meno». Padre è naturalmente qui una funzione, un nome: «A volte baroni e duchi sono padri e poi diventano padri i re e diventano padri gli ecclesiastici e poi viene un periodo come il diciottesimo secolo un bel periodo nel quale tutti ne hanno abbastanza di aver avuto qualcuno per padre ... forse il ventunesimo secolo sarà una bella epoca nella quale tutti dimenticheranno di essere padre o di averne ... ». Della «patrificazione», gli artisti espatriati aggredirono soprattutto le strutture che si erano depositate nella lingua; le leggi che del passato, dell'autorità. della tradizione, si erano insidiosamente installate nel cuore stesso della rappresentazione: piegando l'oc-· chio e la mente a una «certa» visione, a un «certo» pensiero, e dunque a un «certo» linguaggio. Ex-patriare fu il gesto che rappresentò clamorosamente il sentimento, rigorosamente assunto dalla coscienza degli artisti contemporanei. dì una esistenza «abbandonata dagli Dei». e dai padri: in ciò rovesciando la loro posizione, da vittime dell'abbandono se ne fecero autori. Andarono altrove: vissero senza. Generazione perduta prima ancora di quella hippie. essi furono «spaced out» non per effetto di droga, ma per un volontario esilio. che li portò a viaggiare in una geografia del «fuori». e del «senza>. A lost generation. dirà la Stein: distaccatisi dal centro di una appartenenza. avendola perduta. essi - come per autoinflitta punizione - vissero vite, e scrissero opere eccentriche. Eccentrica la Stein lo fu, per unanime consenso. Eccentrico anche il soggetto delle sue opere, e il tipo di esperienza che la Stein descrive sotto il nome di «americano». L'americano di cui la Stein si domanda the making - cioè come si fa, da dove viene, dove va, e chi è questo barbaro; l'americano è per la Stein lukaccianamente il tipo del moderno. Ciò che lo caratterizza è l'esperienza dell'esilio: di chi, espulso dal centro (l'Europa), e dal tempo di quel centro (la Storia), si trova lontano dalla propria origine, in uno spazio vuoto che è tutto quello che ha. In questo spazio vuoto vi è disteso, in piatta orizzontalità, il presente: sl che quando la Stein intenderà scrivere dell'America e della sua storia non potrà che scrivere a geographical history of America. Perché l'America è per la Stein soprattutto questo: spazio. Non so se la Stein conosceva quel mito di rigenerazione che fu la teoria della Frontiera di Turner: in virtù della quale il comportamento, e dunque i valori americani, erano in funzione della quantità di terra libera a dispOsizione. Sì che il west era poi simbolicamente il teatro di una continua rinascita della civiltà: là dove si ri-rappresentava ogni volta l'avventura della civiltà. Ovvero ilmovimento di chi abbandona la casa del tempo, e s'avvia nella esteriorità pura dello spazio; e accettando pericoli e paure ogni volta affronta la possibilità di perdersi, e di perdere. Ma certo anche la Stein vede nello • spazio un elemento fondamentale per l'esperienza americana. Parafrasando la Stein di Lecrures in America. di Geography and Plays, e di A geographical History of America. «in America c'è più spazio dove non c'è nessuno che dove c'è qualcuno. Del resto. se uno ha spazio è poco probabile che si appoggi al passato. alla tradizione: è invece più probabile che si avventuri nella nuova esperienza che lo aspetta». La Stein è convinta che il ventesimo secolo sia americano: perché I'America vive per prima l'esperienza della separazione; quando, o meglio. dove, le persone e le cose essendo separate le une dalle altre, sono frammenti. L'esperienza dello spazio. e della solitudine in esso- perché qui spazio significa isolamento, frammentazione: paratassi; laddove il tempo è connessione, organizzazione: ipotassi-consentì agli americani di vedere «cubista» in modo naturale. Gli americani videro ca! modo dei cubisti», in virtù della loro esperienza dello spazio, e del movimento in esso. In virtù anche del loro essere una democrazia: e la democrazia deve avere spazio, perché direbbe - o implicitamente dice - la Stein, la democrazia è orizzontale, ugualitaria, paratattica. n tempo è piuttosto, e James lo dimostra, la dimensione che pertiene l'Europa, con i suoi castelli, le sue memorie, le sue tradizioni: il suo carattere aristocratico. N el moderno, dunque, secondo la Stein, l'esperienza dello spazio sostituisce in tutto quella temporale: esattamente come in un quadro. La pittura anche per questo interessa tanto la Stein: perché la pitturamosua ciò che la Stein profondamente crede. Che del moderno, categoria formativa essenziale, è lo spazio. Separato dalla memoria e dal passato, il linguaggio stesso prende una natura spaziale. Così per la Stein i rapporti tra le parole sono anch'essi geometrici. La Stein tratta le parole come fossero cose: le sposta, le mette, le toglie, in completa indifferenza alla loro ambientazione semantica «naturale». Nel paesaggio che in tal modo viene ad esistere, le parole sono straniere: anch'esse orfane, vivono la stessa esperienza di spaesamento dei loro autori. Spaesamento che significò per Joyce l'essere straniero, lui irlandese, rispetto alla lingua che usava: quella patria linguistica che pochi come lui seppero amare e violentare nello stesso tempo. Fu per Eliot inquinare l'inglese con suoni di altre lingue. Fu per Pound tentare l'impossibile trascrizione dell'ideogramma. Fu per la Stein l'esattezza chirurgica con cui taglia i nessi temporali e semantici che appaesano la parola nel discorso, lasciando sedimentare in essa la memoria e la ricchezza di tanti echi. La «passione pura per la precisione», che la Stein si riconosce nell'Autobiografia di Alice B. Toklas la porta ad operare, dopo successivi gradi di essenzializzazione, sulla frase. Perché «una frase non è emotiva, un paragrafo sl» (How 10 write ). Se il paragrafo è emozione, ciò accade per la Stein perché esso si sviluppa: è cioè tempo, fa storia, distribuisce gerarchie sintattiche di senso. Mentre la Stein - non va dimenticato che la Stein fu allieva di William James, e in quanto sua allieva si considerò ca scientist of the mind» - lavora al disinquinamento dell'affetto dalla parola. La Stein vuole cioè la pura funzionalità oggettiva del meccanismo: non la parola cumana». In Proust, e ancora in Joyce, e nella Woolf, parlare è analogo a desiderare. È perché è attraversato dal desiderio, per affetto, che l'uomo parla. La scrittura è lì movimento del desiderio: . traccia sulla pagina i segni di una mancanza, a partire dalla quale si apre una parola che ha una strana affinità con il dolore, e anche una profonda vocazio-

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