Alfabeta - anno II - n. 9 - gennaio 1980

Ch. Akerman ews from home, Les rendev-vous d'Anna P. Handke Die linkshandige Frau E. Rohmer La marchesa von Q, Perceval le Galois W. Wenders Alice nelle città, La lettera scarlatta, el corso del tempo, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, Falsche Bewegung O ggi nel cinema tutto avviene dopo la fine. Dopo che si è prodotta la catastrofe, dopo che si sono frantumate le identità e i riconoscimenti possibili. L'impressione è che tutto sia già avvenuto e che le prospettive siano saturate. È una fine interna, mediologica, dettata dalla trasformazione della struttura del mercato, dall'avvento di altri media, di altri sistemi di percezione del messaggio audiovisivo; è una fine legata alla dissoluzione della forma, del movimento simbolico che il cinema, il nuovo cinema essenzialmente, aveva assunto negli Anni Sessanta. È una fine maturata dalla disgregazione storica del simbolico, dalla doppia crisi degli idoli che il 68 e il dopo 68 hanno prodotto, dal duplice accadere della catastrofe del vecchio e della catastrofe del nuovo. Ormai tutto accade dopo, quando sono caduti i modelli tradizionali e le illusioni innovative, dopo che si è spezzata la possibilità di costruire totalità organiche, e di ricomporre quadri generali di trasformazione non fondati sulla rimozione come metodo. La produzione simbolica avviene dopo la fine del simbolico trasformativo, dopo la crisi dei sistemi conoscitivi come sistemi progettuali, proiettati sulla socialità, integrati ai processi di modificazione collettiva, dopo la riduzione dell'ideologia a mero vettore di omogeneizzazione sociale e di esorcizzazione della differenza. Ormai l'ideologizzazione dell'utopia ha reso impossibile la negazione costruttiva, la crisi dei processi di trasformazione è diventata la fine dell'idea di trasformabilità, il rapporto con i pattern del discorso diffusi è diventata la riproduzione dell'identico. L'ideologia ha inglobato l'utopia e si è totalmente· schiacciata sull'esistente, integralmente identificata con l'orizzonte della socialità presente. Nessuna trasformabilità, nessuna utopia, solo ideologie omogenee, uniformi, che parlano Paolo Volponi: La ragione immobile « Lo scopo della mia ricerca sarà dunque di stabilire se la ragione positivista delle scienze naturali è ben quella che noi troviamo nello sviluppo dell'antropologia o se la conoscenza e la ·comprensione dell'uomo da parte dell'uomo implichi non solo dei metodi specifici ma una ragione nuova, cioè una relazione nuova tra il pensiero e il suo oggetto. In altre parole, si dà una ragione dialettica?». Traggo questa citazione dalla prefazione a la Critica della Ragione Dialettica - volume 1° -; pubblicata da Jean Paul Sartre nel l 960. Non debbo certo scoprire adesso io che la lunga, articolata opera che segue questo scopo, mossa da questo interrogativo, costituisce uno dei testi fondamentali sul/a ragione nei nostri tempi e davanti ai nostri problemi: gli uni e gli altri dentro l'epoca del capitalismo. Sartre distingue la ragione dialettica dal capitalismo e dalla sua storia e la organizza contro di essi tanto che la sua autonoma e limpida struttura resta come uno dei tratti più chiari del/a conoscenza di questi anni e uno dei punti sicuri della costruzione della ragione nuova. Ancora oggi la ragione, nel suo plurale e con tutti i suoi differenti metodi, deve essere esercitata proprio nel tentativodi sottrarretempie problemi al capitalismo, cioè al potere dominante. Ebbene, la ragione «dialettica» sartriana è appena accostata in questa bella raccolta di saggi intitolata Crisi della Ragione e che costituisce da qualche mese uno degli argomenti di discussione più frequentati dalla intelligenza fi· losofica e politica del nostro Paese. Questa dimenticanza, proprio perché non la si può intendere come un vero e proprio rifiuto del pensiero e del Il cine111,1.,,,di dopo con parole diverse lo stesso linguaggio. Cosl, in questo quadro, la spettralità della merce si intreccià all'omogeneizzazione delle funzioni sociali, alla soppressione del valore d'uso si mescola l'omologazione ideologica generalizzata, al tessuto sistematico della coazione a ripetere si sovrappone il meccanismo sistematicamente diffuso della riproduzione sociale dei modelli dei media, la produzione del reale (e del simbolico) come riproduzione dell'universo dei media, cioè ri-produzione, re-duplicazione della simulazione. La fine dell'utopia è l'avvento dell'estensione generalizzata del codice, la crisi della verità possibile del simbolico dentro i media è la conferma del linguaggio consolidato dei media. Se la fusione del linguaggio e del movimento reale è impossibile, resta soltanto l'orizzonte del codice e la possibilità di smontarlç>,di aprirlo, di allargarlo, di differenziarlo, senza più cercare di spazzarlo e di rovesciarlo. È la fine dell'utopia della totalizzazione organica, della sintesi del linguaggio dello spettacolo, del linguaggio dell'esistenza e del linguaggio della rivoluzione, che era stato proprio del nuovo cinema degli Anni Sessanta. È la fine dell'idea di integrazione totale delle pratiche e dei significati, che ormai attraverso l'illusione della sperimentazione e della rottura ricostruisce il valore e l'organicità, cioè il fondamento stesso dell'ideologia. E allora la ricerca cinematografica si sposta dall'orizzonte dell'utopia e della totalizzazione all'orizzonte della simulazione e della sottrazione, della marginalità e dei buchi, della decostruzione e della differenza. Per i registi che muovono in questa direzione si tratta di lavorare nei buchi dello spettacolo e di aprire piccoli spazi che nascondono voragini all'interno dei codici. L o spettacolo, infatti, è uno spazio totalizzato attraversato dal vuoto, è una forma di mediazione che ingloba tutto tranne il vuoto, tranne la fuga da tutto: è uno spazio pieno, non manipolabile perché totalmente manipolato, ma bucato, improvvisamente incrinato da crepe. È, come tutte le totalizzazioni, una falsa totalizzazione. E quello che è rimosso nella totalizza-. zione si manifesta non più come irruzione dell'altro nel medesimo, ma come fuga dal medesimo, dislocazione dell'altro altrove, buco che lavora in profondità e si allontana, fessura che si dilata.e diventa vertigine. Altre volte, invece, nello spettacolo emerge uno spazio bianco e la totalità compatta della simbolizzazione rivela un vuoto che si espande e appare come la condizione della produzione simbolica. Come lavorare nei buchi dello spettacolo, come attraversare il linguaggio scavalcando l'ideologia è allora il problema di ogni esperienza filmica nuova nel cinema di oggi. Il cinema di ricerca degli Anni Settanta (e di questa fine degli Anni Settanta, in particolare) è dunque una avventura del vuoto e della differenza, realizzata dopo la catastrofe mediologica e ideologica. L'emergenza del vuoto nella decostruzione del codice come condizione del linguaggio pieno e la dislocazione continua del soggetto nell'altrove come sfondamento insieme dell'universo dello spettacolo e di quello dell'ideologia, allora, sono le forme di attraversamento della spettacolarità che la ricerca filmica più rigorosa ha prodotto negli ultimi Anni Settanta. La fuga, il nomadismo, il passaggio nei buchi dello spettacolo, la rivelazione dei vuoti del simbolico. Rohmer, Handke, Chantal Akermann, Wenders. Il vuoto, il simbolico, l'apparenza sono i poli della riflessione filmica di Rohmer. Il progetto di scrittura di Rohmer si inserisce nella convenzione linguistica e spettacolare assunta come struttura separata attraverso cui deve passare ogni ipotesi di discorso. Rohmer produce linguaggio cinematografico mediante un lungo e riflesso itinerario nella convenzione spettacolare, grazie ad una scomposizione analitica della possibilità di produrre l'universo della finzione cinematografica. È la scoperta della separatezza del linguaggio spettacolare dal soggetto e dall'esistenza e della sua distanza dal reale. È il disvelamento del vuoto come produttore di simbolico (la casella vuota de La Marchesa von O. che produce l'azione filmica) e del simbolico - cinematografico - come vuoto di reale {l'irrealtà totale di Perceval le Galois come spettacolazione pura che espelle il mondo fenomenico). La Marchesa von O. rappresenta un'accettazione apparentemente totale del cinema classico e dei suoi codici come passaggio per la rivelazione del funzionamento del simbolico spettacolare e della sua ambiguità. Ne La Marchesa von O. la dinamica del discorso è analizzata come fondamento della diegesi, dell'azione filmica e come struttura che non tanto modifica quanto definisce i rapporti intersoggettivi. Lo sviluppo narrativo è fondato integralmente sulla dialettica sapere/non sapere e una conoscenza mancata diffusa tra i personaggi rende possibile il concatenamento dell'azione. Tutto il film è quindi articolato su uno spazio, una casella vuota, e lo spostamento della casella nel tessuto diegetico garantisce la possibilità della «storia». Non è quindi il pieno ma il vuoto che consente la narrazione, non è la presenza, ma l'oggetto assente ed i suoi spostamenti che garantiscono la possibilità del film. E il film è un processo geometrico che si realizza attorno a un vuoto, è uno slittamento continuo, ma controllato, che stringe sempre più da vicino uno spazio bianco. La Marchesa von O. ruota attorno all'oggetto nascosto, è un meccanismo reso possibile dalla dislocazione permanente del- )'oggetto dal suo esistere e dal suo trovarsi sempre altrove, è un avvicinamento continuo all'oggetto assente. Il film finisce quando l'oggetto assente, lo spazio vuoto, è raggiunto e coperto e il vuoto non può più farsi produttivo sul piano della narrazione. Ma l'oggetto assente, lo spazio vuoto, non è una realtà concreta, un personaggio, un fatto; al contrario, esso ineCrisdiellaragione? (5) lavoro di Sartre, è sintomatica di una specie di fretta, di una tendenza rapida all'aggiornamento e al confronto con l'attualità, che sono qualità di genere più letterario che scientifico-filoso fico. Altri elementi letterari del saggio sono la sua forma di antologia e il suo titolo largo e dilatato, immediatamente suggestivo. E letterario mi pare lo stesso percorso del libro; come i luoghi e le risonanze del dibattito: cioè il suo successo. Mi pare innegabile che tale successo sia dovuto più che all'intrinseco valore dei diversi saggi e alla robustezza della corda che sovrapponendosi essi compongono (per riprendere l'immagine con la quale il curatore Aldo Gargani chiude la introduzione) allaperentorietà un poco drammatica del titolo Crisi della Ragione: drammaticità che aumenta fino a perdersi in una specie di incommensurabile fatalità per la indeterminatezza prodotta dalla mancanza di un articolo, che invece avrebbe potuto ricondurre il sostantivo «crisi» dentro un certo termine temporale e scolastico, ne/l'ambito di un momento e secondo il tratto di una corrente. Questo letterario senso di perdita e di smarrimento che il titolo davvero insinua, aumenta ancora di più nella congiunzione con le numerosissime altre crisi che circolano sciolte o al guinzaglioin tutti i luoghi,abitacolie schermi del nostro Paese, e costituisce il motivo per cui un non-specialista è sollecitato a esprimere un proprio parere, anche di larga massima appunto letterario; una sorta di avvertenza sulla lettura e sul senso da darle; almeno per i non specialisti, per il vasto pubblico «letterario» e dei minori più impressionabili. Tanto più che sta calando dalla volta scura delle giornate che viviamo una larga e forte azione intimidatrice, in specie sui soggetti e le faccende dell'intelletto e del pensiero. Non è certo da oggi che il potere capitalista monopolizza la ragione espropriandone. qualsiasi altro soggetto e che con tutta una serie di razionalità minori cerca di far diventare ragione i principi e i meccanismi di questa espropriazione. Non bisogna quindi in alcun modo cedere al ricatto che tenta di far credere unica la ragione dominante, la quale oggi non è che una tetra parodia della vecchia ragione illuministica e borghese fondata su un bisogno e su un progetto di libertà. Oggi il capitalismo in crisi tende a frazionare e a rovesciare la propria crisi sopra qualsiasi altro principio, cultura, sistema ecc. ed esercitatutta una serie di finte azioni, di pseudo razionalità e progetti appunto per mascherare l'insufficienza della propria ragione e lo scontro ormai drammatico fra questa e la realtà. Quindi proprio un uso materialistico e provato della ragione dialettica, un'affermazione costante del suo vigore nuovo e attuale, è importante nel momento in cui si è costretti civilmente e quotidianamente a sperimentare come la ragione, quella distribuita, sia ridotta apura norma di sussistenza dentro la salute del capitale: a quella povera ragione cioè che non vale mai contro la forza. Ma anche questa povera ragione, proprio perché è in contatto con la realtà ed è usata riguardo a questa e a tutti i problemi del vivere come un materiale e un untensile, riesce ancora a dare sostegni, motivi e anche speranze, convinta di essere la piccola [ace/la anche se dispersa e offuscata di una ragione più grande: quella universale, scientifica, superiore ed intelligente che tiene altala vita, ancora meritevole di essere vissuta, e con la quale alla fine anche la forza, la maledetta forza che nel particolare e nel contingente riesce sempre a vincere, dovrà fare i conti. La piccola trita ragione, fuori edentro le esperienze che può fare e il sapere che può organizzare apropria difesa ed espansione, ha coscienza della contraddizione tra la forza-potere e la ragione superiore, classica, illuministica, scientifica che sia; che da qualche parte deve pur esistere,mossa anche dai sensi e dai palpiti delle proprie piccole esperienze e sapienze. In questo mi pare che Sartre nella sua opera già citata verso la fine del primo libro e più ancora nel centro del secondo dica cose molto precise e per niente superate. Non superate certo da quelle coltissime divagazioni para e post illuministe, para e post marxiste, para e post freudiane di quei suoi raffinati e recenti connazionali cui invece il nostro super saggio fa così spesso riferimento. E questo non capita a caso, non dico da parte del nostro saggio, ma proprio nella sostanza e nellaportata di quelle sofisticate, superiori ricerche sulla lingua, sul potere, sull'amore, sulla morte ecc. ecc. allafine delle quali sembra sempre che non esistano manco più e la lingua e il potere e l'amore e la morte. Non a caso, perché queste opere e tutte le loro collane di dibattiti e applicazioni, fanno parte di tutta quella serie di aperturesenzafondo, belle quinte teatrali, e di rappresentazioni e di riti con i quali il potere maschera la stretta mortale con cui ha imprigionato la ragione e i morsi con cui tenta di divorarsela per ridistribuirla poi come propria qualità: bellezza, sorriso, profumo, affabilità re/azionale, ecc. ecc. Ecco perché diventa pericoloso af fermare che c'è in giro dappertutto, sopra e sotto, «crisi della ragione». quando poi lo stesso libro che porta risce all'ordine del discorso, fa parte del simbolico, è un non sapere, un atto conoscitivo mancato. Il vuoto del simbolico regge la geometria narrativa, costruisce la possibilità del simbolico stesso. È perché c'è vuoto nel simbolico che è possibile produrre simbolico; in questo caso, quel segmento aggiuntivo di simbolico che è La Marchesa von O. Rohmer interviene quindi direttamente sulla possibilità di simbolizzazione, ne studia le condizioni di produzione, scopre sotto l'ordine del discorso la casella bianca, ci restituisce un simbolico perfettamente elaborato, estremamente raffinato, ma bucato dal vuoto interno: il vuoto è il centro, il motore del discorso, il vuoto è ineliminabile. Ma insieme in questo occultarsi e disvelarsi della verità, il film si sviluppa come realtà sospesa, dinamica dell'azione che cerca il senso, apparenza dispiegata che si sovrappone totalmente al reale e lo rende superfluo. Ed allora l'operazione de La Marchesa von O. diventa far sparire il reale, produrre la sembianza, radicarsi nella sua infinita ambiguità, senza mai scioglierla totalmente, attraversarne la scena e restarne al tempo stesso ossessionato. E questo è poi l'altro significato profondo de La Marchesa von O. e l'altro nesso organico con il film successivo di Rohmer Perceval le Galois. N el Perceval infatti il simbolico si palesa come vuoto di reale e si intreccia subito con il pieno manifestarsi della sembianza, mentre la spettacolazione come differenza dal mondo fenomenico diventa percorso dell'apparenza che si espande e si fa totalizzante. La simbolizzazione cinematografica afferma quindi la propria alterità rispetto alla naturalità, si definisce come irreahà pura, stilizzazione rigorosa, «spazio non euclideo», «ciclorama» in cui tutti «i tragitti possibili sono incurvati» - come dice Rohmer -, e il territorio dell'esistente diventa una distanza incolmabile. Perceval rappresenta l'infinita lontananza del cinema dalla vita e l'infini- • ta insensatezza di ogni progetto di linguaggio totale del cinema e della vita. Perceval è il segno permanente inequivocabile della divaricazione, della differenza, è l'accettazione della frammentazione degli universi e delle pratiche e la sua trasformazione in verità epocale. Cosi, in fondo, è ancora una volta questo titolo riesce per lunghi tratti a dire cose bellissime e sollecitanti proprio in virtù della ragione e del ragionare in modo nuovo sulla ragione. Certo che la ragione classicaè in crisi, come è in crisi quella capitalistica e del potere in genere, ma via via sono meno in crisi la ragione di Sterne quella di Diderot e ancora meno e forse per niente la ragione di Marx e la ragione di Freud, specie se criticate, continuamente usate e rinfrescate da gente come Sartre, Marcuse, e anche come alcuni degli estensori del nostro super saggio. Bisogna stare attenti al giuoco raffi· nato, nuova moda francese, della iperspecializzazione e dello svuotamento di qualsiasi oggetto per sottrazione filologica e semantica, che davvero talvolta rischia di fermarsi in volo come la freccia di Zenone e quindi di tramutarsi in ossessione. E qui conviene richiamare l'opportunità di leggere l'ultimo libro di Elvio Fachinelli La freccia ferma, (Ed. Erba voglio Milano 1979) in cui sono descritti e analizzati tre tentativi di annullare il tempo, cioè di porsi fuori della ragione, della sua pluralità e dinamica, e di sostituirla con le cerimonie e i riti de/l'immobilità. Cos'altro fa in effetti il potere, cercando di murare dentro disé la ragione, se non il tentativo di annullare il tempo, di rendere non vero e non avvenuto tuliociòchesuccedee chepuò costringerlo a riconoscere una realtà e una ragione diverse dalle sue? L'immobilità è dunque lo scopo essenziale del potere e di tutte le sue infinite mosse, rappresentazioni, razionalità, piani ecc. ecc. E non per niente infatti l'immobilità è il contrario esatto della ragione.

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