Alfabeta - anno I - n. 8- dicembre 1979

Delmetodoperfarmale lepagin1Co,~ulturali N ella primavera del 1937 così Robert Musi! iniziava una famosa conferenza, tenuta a Vienna su invito della Federazione Austriaca del Lavoro ed edita da noi (in Carte segrete, n. 4 del 1967, indi a volumetto nel 1979 presso la Shakespeare a. Company) col titolo Discorso sulla stupidità: «Signori e signore, chi al giorno d'oggi abbia l'audacia di parlare della stupidità corre gravi rischi: la si può interpretare infatti come arroganza, o addirittura come tentativo di disturbare lo sviluppo della nostra epoca». Questo perché, secondo_Musi!, la stupidità rassomiglia molto !Il cosiddetto progresso, e poiché non vi è chi non sia costretto ad ammettere che il mondo di progressi continua a vederne, la cosa può dare da pensare. Per esempio, quando mai i giornali quotidiani e i periodici hanno posseduto tecniche di stampa perfezionate come le odierne? E, in effetti, quando mai sono stati, salvo rare eccezioni, scadenti come adesso e per l'appunto attraversati dalla sottile onnipresenza di qualcosa che non ha assolutamente a che fare con il significato vero di ciò di cui si parla? Certo non pare esista un diretto rapporto di causa ed effetto fra le rotative tecnicamente perfezionate e il gran calo di livello dei messaggi, ma vi è lo stesso obliquo, anguillare e nefasto rapporto che quotidianamente riscontriamo fra il potere economico e la cultura. Cosi può accadere che le pagine culturali abbiano l'aria di essere genericamente vacue, mentre chi vi scrive di per sé non lo sarebbe. Conviene allora accostarsi all'oggetto per vedere un poco che cattivo uso ne viene fatto e con quali strumenti; il discorso può essere proficuo, soprattutto se verrà continuato nei prossimi numeri di Alfabeta; mentre infatti molto è stato scritto e anche bene sulla lingua dei giornali da parte di ottimi storici della lingua, non pare che altrettanto sia stato fatto sulla specifica teoria e metodo per fare male i giornali. Né è facile stabilire se i nessi che cogliamo fra i cattivi usi di una pagina e quelli di un'altra sono veramente dovuti a un'unità di intenti e scaltrezze sottesi, a un modello pseudoculturale egemone, o se, come è anche probabile, all'uguaglianza di esiti non corrisponde un'uguale operazione sòtterranea o sovrastante; al limite in qualche caso può anche esservi sotto una disarmante sprovvedutezza o il fastidio verso l'intelligenza; si sa che l'intelligenza fa andare facilmente in bestia quelli che non l'hanno. Infine le carenze conscie o inconscie della stampa, l'ingenuità e la malafede, il dilettantismo e tutto il resto che ci fa pensare «qui qualcosa non va», sono intessuti e collegati con altro che negativo non è, che è onesto tentativo di espressione e di denuncia da parte di oneste menti, sicché non è possibile emettere giudizi totalizzanti, come non è possibile emetterli sull'università, sulla ricerca scientifica, sull'editoria, insomma su tutte le aree culturali del paese, questo strano paese che è diventato l'Italia. Si possono invece isolare alcune direzioni e alcuni processi molto pericolosi, e denunciarli. Proviamoci un po'. U n primo rilievo che faremmo è di tipo strutturale e non riguarda quindi solo le pagine letterarie e genericamente culturali. Nella prospettiva dei quotidiani e dei settimanali, cioè da qoello che Uspenskij chiamerebbe «il punto di vista della pagina giornalistica»,il mondo si configura come una serie di primi piani: la persona o l'evento più importante sono sempre quelli che si vedono in primo piano nel momento in cui il giornale è stampato, mentre non lo saranno più probabilmente il giorno dopo quando il giornale trova qualcosa d'altro da mettere in primo piano. In altre parole, non è che si parli sempre delle cose più importanti, è che le cose di cui si parla diventano sempre le più importanti; un rovesciamento di ruoli che giova moltissimo all'informazione guidata, pilotata cioè dal potere economico o politico. Vediamo i riflessi di questo fenomeno nelle pagine letterarie o, comunque, dedicate alla vita dei libri, e non immediatamente a quella degli uomini. Qui il punto di vista del primo piano si rivela alquanto più incongruo e porta ad almeno due tipi di conseguenze deleterie. Lnprimo luogo il bisogno di impegnare un'attenzione viva ma momentanea del lettore porta a confondere la notizia con l'informazione, a trasferire cioè nell'ambito della realtà culturale il criterio pertinente alle pagine della cronaca: essere i primi a dare ogni volta una notizia nuova. Orbene, in un'era di vivi ima, a volte mostruosa attività comunicativa come la nostra, bisogna ricordarsi che creare equivalenza fra due cose fra cui c'è solo somiglianza (notizia e informazione) può generare pericolose confusioni e vuoti culturali. Essere i primi a dare il nome di uno che ha sparato, è giustamente un'aspirazione della cronaca di un giornale; ma se esce un libro, conta molto più parlarne acutamente che parlarne per primi. Veniamo a qualche esempio pm concreto: in Italia accade che, fra gli innumerevoli congressi delle innumerevoli discipline esistenti, ve ne siano alcuni di alto livello e tali da fare avanzare il sapere, metti in ambito filosofico, letterario, medico, semiotico ecc. Che cosa interessa in genere ai giornali e settimanali? Essere i primi ad annunciare il futuro o incipiente congresso; quali ne siano poi gli esiti, quali i gio che sembra portarli allo stesso livello, privo cioè di quei segnali, di quegli elementi distintivi del discorso che servano al pubblico non specializzato però probo, che vorrebbe apprendere dall'informazione giornalistica quali sono in definitiva i libri dell'annata che contano e quindi da acquistare, magari attraverso qualche laborioso risparmio, dati i prezzi a cui i libri sono saliti. Ciò che ostacola l'operazione necessaria, e anche equa dal punto di vista sociale, del distinguo è il fatto che, per vari motivi dell'ordine pratico, le pagine culturali parlano più agevolmente e con più frequenza dei libri effimeri ma rumorosi (di invenzione o di saggistica), che non dei duraturi ma non circondati da rumore. Qualcuno di questi motivi? Intanto i libri di consumo (per farne un bel mazzetto variopinto vedi le tabelle di graduatoria dei più venduti offerte dai vari giornali) si leggono e recensiscono più in fretta degli altri perché sono per il recensore meno impegnativi; in più la recensione procura degli attestati di buona condotta a giornale e recensore da varie parti, giurie dei premi letterari, case editrici dove imperversa il dio Fatturato che non dà tregua e pace ai poveri dipendenti dellUfficio Stampa incollati al telefono, in vista del traguardo delle centomila copie. Non va poi sottovalutato il fatto che l'autore di un tale genere di libri, dal punto di vista della presenza in un primo piano del giornale, funziona benissimo; e come no? Perché il giornale dovrebbe perdere tali occasioni? Se ne deduce allora, amara riflessione, che nel meccanismo di una civilSte,·e l'11x101e1 Lis11Ne/s011,Bolog1111,Gulleri11d'Arte Moc/er,111g, i11g110I <J7<J contributi più nuovi, cioè il discorso serio e informativo a cose fatte, questo no!J li riguarda perché non fa notizia. A questo punto è lecito postillare che l'informazione culturale incomincia a significare il suo opposto. Coi libri può capitare qualcosa che è addirittura bizzarro: per esempio, uno conosce delle brave persone che scrivono su un settimanale, le incontra per strada e consiglia loro di dare un'occhiata a un libro che gli pare assai notevole. Si sente chiedere a bruciapelo: «Quando uscirà?»; risponde: «È uscito da un mesetto». Controrisposta: «Oh no, noi non parliamo dei libri già usciti». Manca lo spazio per una descrizione particolareggiata di varie e colorite, quasi suggestive forme di malessere dell'informazione. E passiamo all'altro tipo di conseguenze derivanti da quello che abbiamo chiamato il punto di vista del primo piano applicato in ambito di pagine letterarie. Ilgiornale abitua per sua natura a considerare le cose su tempi brevi, brevissimi e, di conseguenza, a trattare come se fossero prodotti affini dal punto di vista dell'informazione i testi di consumo, e sono molti, la cui futura scomparsa è fuori discussione anche nella mente del recensore intelligente, e i testi che non si consumano, cui peniene una mis\lra temporale molto diversa. Quello che è improprio non è che si parli degli uni e degli altri, il che è anzi compito di una pagina letteraria, ma che spesso se ne parli con un linguagtà consumistica è l'oggetto di consumo a dettare legge al suo recensore. In altre parole, l'autore del libro da centomila copie, le pagine letterarie se le prende in affitto vita natural durante. A d evitare il conseguente avvento di un comune crepuscolo si vorrebbero avanzare alcuni desiderata: in questo momento difficile per il paese, in cui tutto sembra fuori di posto, dovremmo, in quanto intellettuali, sforzarci di cominciare a mettere al loro posto i libri liberandoci, quel tanto che è possibile, dalla sintomatologia del consumismo, dando cioè un carattere di compito sociale al nostro lavoro. In Italia, ad esempio, vi sono ottime editrici, che da molti anni fanno sul serio cultura scientifica e artistica, i cui testi sono regolarmente ignorati dalla stampa, perché intorno ad essi non vi è fracasso pubblicitario, non ci sono telefoni che squillano da mattina a sera: metti la Ricciardi o Antenore o le edizioni della Crusca (chi, per esempio, ha parlato di quel delizioso libro che è Lacomposiziondeelmondo diRistoro d'Arezzo, il primo testo di divulgazione scientifica scritto in volgare, e non in latino, nel secolo XIII, significativo archetipo della nostra letteratura scientifica, uscitonelle edizioni appunto della Crusca? E chi mai parlerà di quell'altro testo della Crusca, da poco uscito, il volgarizzamento genovese così suggestivo e a tratti indicibilmente spassoso dei Dialoghi di san Gregorio?) La questione naturalmente è ben più complicata; spesso il potenziale recensore dei libri culturalmente importanti, siano creativi o di saggistica, letterari, filosoficio scientifici, viene a incontrare presso alcune redazioni (non tutte, grazie a Dio) supplementari difficoltà in quanto gli è proposta o imposta un'idea di pubblico che nulla ha a vedere, au fond, col pubblico reale. Esiste infatti una curiosa propensione, presso vari organi di stampa, ad attribuire agli abitanti della penisola italiana, quando si presentano come massa di lettori, «pubblico» del giornale, caratteristiche antitetiche a quelle che si è soliti attribuire al lettore singolo: il pubblico, per definizione interna a certi giornali, ha il meraviglioso attributo di non disporre dei mezzi per pensare; e perciò di trovare interessanti solo quelle cose che mai interesserebbero un lettore singolo intelligente. La funzione di questa «idea del pubblico» è di fare da catalizzatrice nei riguardi di un certo tipo di prodotti e di discorsi che si muovono soltanto alla periferia dei fatti culturali, alludendovi magari qualche volta ma, per carità, con molta discrezione. Come dire che si crea, in termini di logica modale, un «mondo possibile» di lettori un po' fatui, un po' svagati, comunque passivi sempre; esi fadi tutto per sovrapporre l'immagine di questo mondo possibile a quello dei lettori reali. Fino a qual punto può essere spinta la logica, se va in mano al potere, economico o politico che sia, o tutti e due insieme! Su questa strada ovvero con questo salutare modo di pensare si può giungere ad un ambìto sbocco finale: il giornale popolare; e coerentemente al processo descritto si arriva a una n<YZiondei giornale popolare per fare il quale sembra che la partecipazione del cervello abbia a rimanere una cosa pur sempre piuttosto vaga. Il giornale popolare si fa con il sussidio dell'occhio, dell'orecchio, della cinepresa, ma con la testa andiamoci piano. È quindi veramente il momento storico dell'Occhio, a proposito del quale rinvio a un pertinente intervento su Paese Sera del 20 ottobre scorso di Gianfranco Corsini dal titolo Il pop casereccio dell'«Occhio». lvi Corsini, posti a confronto i giornali popolari inglesi Daily Mirror e Sun, ma soprattutto il Mirror a cui l'Occhio si è ispirato, con quest'ultimo, mette a fuoco da un lato la scarsezza di notizie del giornale italiano rispetto al modeUo inglese, dall'altro il fatto che l'Occhio invece di rimandare a libri, siano pure popolari, rimanda al video; cioè a differenza della stampa popolare inglese non riporta i lettori allo «scritto> o a un visivo nuovo, ma si allontana da tutto ciò a favore, guarda caso, della TV. Il problema della diffusionedella cultura fra le masse è in Italia ben lontano dalla soluzione; gli intellettuali dovrebbero preoccuparsene; esistono per questo. E sempre più si allontana la soluzione, coi giornali popolari che ci capitano. Altra difficoltà in cui si imbatte il recensore, oltre a quella dell'idea di pubblico impostagli, è la pochezza dello spazio, che lo obbliga sempre a una prestazione ridotta: sulle pagine letterarie la media di spazio concessa è fra una cartella e mezzo e due; non di più, perchè ciò sottrarrebbe spazio alla gran foto di un bel corpo femminile o al ritratto in genere meno bello di un ministro indaffarato a salvare in extremis qualcosa, immagini varie ma deputate tutte a dare a quel tal pubblico sopra descritto una sensazione fisica di sicurezza, come il ritratto del generale dell'arma dietro la scrivania di un maresciallo in caserma. Tale scarsezzadi spazio per trattare di quella abbondante cosa che è un libro non può non procurare al recensore l'impressione penosa che gli si porti via un po' della sua identità; il che avviene in effetti. Certo qualche eccezione c'è e fa sempre piacere; al limite ci sono anche due o tre intellettuali di grande rinomanza a cui, magari per pigrizia redazionale, viene conferita addirittura una funzione di prezzemolo nella cucina giornalistica italiana: accade cosl che alla stessa persona si chieda oggi un parere sul terzo mondo, domani sul sesso o sul linguaggio dei poeti, sui precari, su un festival del cinema, sulla fame nel mondo o sul futuro della letteratura e via di seguito. Mirabili rari esemplari in cui si riunifica il tutto solitamente disperso nei meandri del vivere e del pensare. Vi è poi lo scabroso terreno delle scelte linguistiche e stilistiche, dove in genere l'autore dell'articolo è responsabile in proprio, soprattutto responsabile della sua eventuale oscurità. Essere chiari nella scrittura dovrebbe costituire per chi scrive sui giornali prima di tutto un dovere pubblico, oltre che di genere letterario; e qui sta il vero senso della divulgazione, dire cose difficili in modo facile e mai cedere alla tentazione del viceversa. Anche noi di Alfabeto su questo abbiamo da riflettere. Vi è inoltre un pericolo più sottile e ben stigmatizzato da Nigel Dennis allorché scrive (in Cane d'identità, ed. Einaudi, p. 132): «L'uomo qualunque che ha letto i giornali e ascoltato gli uomini politici si abitua ad esprimersi in termini privi di significato». Questa mancanza di significato può voler dire tante cose: che sotto gli enunciati c'è davvero il vuoto (cosa che capita) oppure che uno si dà da fare con un formulario stereotipato che non fa nessuna presa sul reale, ma purtroppo a lungo andare è assorbito dai lettori; oppure che la realtà incomincia a svanire nella mente dell'articolista ed allora egli ricorre a simboli, a temicismi e a complicate formule per riafferrarla; in questo caso l'oscurità investe prima la sua visione della cosa o del problema che il suo linguaggio. L'esperienza mostra che spesso l'oscurità è inversamente proporzionale all'età di chi scrive. Qualunque sia, insomma, nei casi specifici la diagnosi, il danneggiato dal male dell'oscurità non è il malato, bensl il pubblico dei lettori. Per questo solo il male è abbastanza grave. R icapitolando, si sono indicati alcuni degli aspetti negativi della stampa come servizio sociale, nel complesso noti, sicché non si può attribuire a quanto abbiamo detto tanta importanza da ricavarne una morale della favola; pur tuttavia, se gli intellettuali non vogliono darsi al giardinaggio e finire coltivando rose, devono ricordarsi che fanno parte della languente realtà descritta e soprattutto possono essere lentamente ridotti al silenzio con un'arma invisibile, segreta: rendereungiornale cosi piano che un intellettuale non ce la faccia più a collaborarvi, non trovi quel minimo di dialogo, di confarsi l'uno all'altro che ci deve essere fra un giornale e i suoi collaboratori. Quanto si è qui descritto potrebbe espandersi dal singolo foglio quotidiano a disegno universale; ma per questa volta fermiamoci davanti alle edicole.

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