Alfabeta - anno I - n. 8- dicembre 1979

Convegno internazionale Il linguaggio del Gioco Montecatini Terme, 25-27 ottobre 1979 U n Convegno organizzato dal Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica di Urbino e dal Toronto Semiotic Circle, con la collaborazione dell'Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno di Montecatini Terme. Presenti semiologi, antropologi, qualche sociologo, studioso di folklore, storico o storico della letteratura. Assenti, come spesso ai convegni di semiotica -e non è chiaro perché -linguisti e filosofi del linguaggio. Fra il pubblico, molti giornalisti (il tema è d'attualità), studiosi e simpatizzanti delle varie discipline rappresentate, studenti ed insegnanti medi. Tanto materiale interessantepresentato, forse poco tempo per riflettervi e quindi poca elaborazione teorica -dalle analisi sul circo di Paul Bouissac ai giochi nel «cunto de li cunti» trattatida Michele Rak, da/l'analisi di musiche popolari sarde di Diego Carpite/la al curioso gioco di società proposto da Françoise Flahault, dalla complessa e ragionata rassegna di giochi di linguaggio offerta da Giampaolo Dossena alle analisi dello sport di Kovecses e di Bettanini, alla discussione dei giochi di carte di Alessandro Finzi, alle crittografie di Patrizia Violi, e via dicendo. Contributi più generali, intesi con il valore di prese di posizione teoriche, quelli di Vittorio Lanternari («Dal trickster al terrorismo nucleare: dal gioco-creazione-del mondo al giocodistruzione-del mondo»), di Jean Baudrillard (sintomaticamente intitolato « La passion de la règle»), de/l'etnologo Robert Jaulin («Le jeu de vivre»), di Paolo Fabbri (che aveva preannunciato un'analisi dei giochi strategici o war games e, sullo sfondo, dellaguerra, ma ha tentato piuttosto, pur partendo da questi temi, una più vasta sintesi del- /' argomento del convegno). li Gioco, situazione fatta (se si gioca bene) per stareaproprio agio (èforse la matrice del divertimento nel caso che il gioco, poi, sia di quelli ·«divertenti»). Ma al Convegno sul Gioco -pur esemplare tipico di un certo gioco di società per intellettuali-c'era del disagio. Gioco, parola dalle innumerevoli somiglianze_difamiglia, campo privilegiato dell'ipersemplificazione filosofica (ora anche semiotica), graziosamente disponibile nel suo fascino alla moda a suscitare tanta bella confusione mentale. Eravamo le classichemosche dentro alla bottiglia. Questo disagio è da analizzare. Chiedendosi, per esempio, di che passioni -o di che simulacri - fosse intrecciata la bottiglia-trappola. E in che modi diversi stessero giocando in ciascuno di noi gli ambigui rapporti che tuttora continuiamo ad intrattenerecon simulacri più o meno antichi e rispettabili: Politica, Morale, Natura e Cultura, Libertà, Amore e Morte. Senza contare ovviamente la Moda. Principale flagello il moralismo, in diverse e pervasive forme. No, mi rifiuto di classificaremoralismo la domanda «che giochi dovremmo giocare?»; essa è legittima (anche se il metodo per rispondervi, almeno in questo convegno, non è stato delineato), come è rispettabile l'esigenza di distinguere giochi di buon gusto, intelligenti, da giochi di cattivogusto, che non vallapena di giocare, che al limite non sono giochi. Ma a queste domande è troppo facile dare risposte moralistiche. Soprattutto se c'è ancora chi crede in una distinzione di principio tra Gioco e Cose Serie. Per cui la cultura, in «valori», per quanto possano esser miticamente raf figurati come nati dal Gioco (come nella diffusa figura mitologica del trikster, di cui ha parlato Lanternari), sono il GiocaraeMontecatini Serio e devono esserepreservati da contatti con ogni Gioco dissacrante o potenzialmente distruttore. li fatto è che Gioco è diventato, e ormai da tempo, una categoria interpretativa dell'esperienza sociale: dunque Seria?o no? È come andar a cercare il Sacro in regime di secolarizzazione: non lo si trova perché è diventato Profano o perché il Profano stesso ha cessato d'esservi contrapposto? Ma non è che chi ha assunto il Gioco come categoriainterpretativa,e superato l'antitesi Serio/non Serio, sia o;mai immune dal moralismo. Anche dei deus ex machinapiacevolmente salvifici sarebbe.bene diffidare; soprattutto se promettono facili esorcismi da paure inquietanti, profonde. li corpo, per esempio, questa madre/materia che inghiotta nel suo abisso sedicente «naturale» (ma è, al solito, fantasma nostro) ogni emergenza luminosa, «artificiale», culturale. Che morte e amore, socialità, guerra, persino fede siano Gioco - può essere intelligente proposta d'analisi, uso suggestivo della categoria di Gioco come strumento d'interpretazione dell'esperienza - può però essereanche esorcismo, e con ciò moralismo, con le note conseguenze di subdolo, selettivo paraocchi teorico, e di pratica giustificazione dello status quo. Scenario a queste ambiguità, la considerazione del rapporto gioco-culturasocietà. Il gioco «buono» o «cattivo» come piccola parte del sociale. Oppure il gioco come principale realizzazione del sociale. E in questo caso due alternative: il gioco modo di pensarsi della Marina Sbisà di essere sensato, sottomettendolo alla categoria di Senso. Nel terzo si pone il Gioco come non-sensato e liberatorio dal Senso e dalla Legge (compresa la schizofrenica legge della Libertà). Ma, altra contrapposizione possibile, nel primo caso si impone il Senso al Gioco dal/'esterno, negli aitri lo si considera di per sé o fonte di senso o della dissoluzione del senso, comunque in funzione positiva e, insomma, con una chiara nostalgia del rituale anche se diversamente motivata. Parecchiodipende da cosa si intende per Senso. Ed è abbastanza chiaro quel che intende Baudrillard: senso come «informazione», ordine produt1ivo di rilevanze comunicabili, sottomissione alla Legge e costituzione del soggetto per tramite di questa sottomissione (la sua polemica contro il Senso va quindi, in fondo, di pari passo con lapolemica semiotico-linguistica contro questo senso di Senso - il contrapporre la comunicazione come interazione alla comunicazione come trasmissione di informazioni, per esempio, o ilporre in risaltogli aspetti re/azionali del discorso contro quelli logici e psicologici). Meno chiaro è quel che intendono gli altri;e tuttavia esistono sensi non-tecnici di «Senso» in cui, chiaramente, un rituale è sensato, anzi, forse l'unica cosa sensata al mondo proprio perché costituisce un bel modo di vivere una determinata esperienza (che altrimenti sarebbe sciatta, insoddisfacente,forseal/a meglio - inquietante), perché anima e nobilita l'evento ad azione, il vissuto a dialogo, l'incrocio ad incontro. e regola, questo rimane poco chiaro. In base alla loro forma, o tipo di validità, quindi al modo di funzionamento (e allora la distinzione è funzionale)? o in base ad una distinzione in qualche modo ontologica, ed allora che parte vi ha la sostanza? Ulteriore complicazione: la Legge è essenzialmente esplicita, la regola può in certi casi essere esplicitata, ma ciò non sembra esserle connaturato. Anzi, si può dubitare che l'esplicitarala non equivalga, a volte, a costituirla in Legge. C'è differenza e quale tra gioco istituzionale, con un nome definito e regole stabilite esplicitamente, e gioco non istituzionale, in cui la regola resta implicita nei comportamenti e nella reciproca comprensione dei partecipanti, e per lo stesso effetto dellemosse compiutesipuò scivolareda un gioco ali'altro? O viceversa: le regole del linguaggio «conosciute» dal parlante nativo ed esplicitatedalla grammatica generativa funzionano come regole o come leggi? Inoltre, che relazione c'è tra le regole costitutive che definiscono il gioco e le regole «per vincere», le strategie? Queste non sono più Gioco - o sono giochi d'altro ordine, sepossiamo considerare giochi tutte quelle interazioni che, appunto, giocano su relazioni di obbligazione tra i partecipanti? Che rapporto c'è tra Gioco e le finalità in cui può essere incluso, da cui può essere attraversato? Diremo forse, nella speranza di sfuggire a questo carosellodi interrogativi, che l'aspetto caratterizzante della Maniac Production, «Tragico intervallo n° 2», Bologna, Galleria d'Arte Moderna, giugno /978 comunità, strumento d'organizzazione del mondo, di civilizzazione (con una· valutazione negativa della situazione attuale dove il gioco si va reificando in giocattolo come una situazione di nonciviltà, pensiamo a Jaulin). Ovvero il gioco come, non articolazione, ma disarticolazione del sociale, come struttura di senso, di Legge, di «potere» e costitutivo di rapporti diversi - non «nuovi», forse, perché sempre esistiti, ma che l'oggi permette di valorizzare altrimenti, in funzione nuovamente polemica (pensiamo a Baudri/lard). Nei primi due casi si chiede al gioco Inoltre. In una prospettiva in cui il gioco è, direttamente, costitutivo della comunità (Jaulin), non sembra esserci spazio per un discernimento tra diversi tipi di regolamentazione: o c'è «civiltà» (checché questa sia) o «barbarie». Baudrillard contrappone, invece, regola e Legge. Da un lato diritti e doveri, rapporti contra/tua/i tra soggetti, senso, giustificazione, universalità, sanzioni per la trasgressione;dall'altro la regola, duale, arbitraria, locale -terreno di sfida, fonte d'obbligazioni reciproche e reversibili. Ma co'!'e distinguere in pratica legge regola è il suo non costituirsi in oggettività, né in credenza; il suo essere, e restare, arbitraria (come ha detto Baudri/lard, come Fabbri ha souolineato). Ciò che conta nella dualità del gioco è condividere un terreno di mosse che hanno a turno l'uno o l'altro per destinatario, e di reciproche interpretazioni/ risposte (non importa se l'altro sia umano o sia, poniamo, il Caso come nell'azzardo). La forma della regola è quelladellasfida, della reversibilitàdella sfida, in un incontro che non è contra/lo, ma patto. Il contenuto della regola non conta, qualunque può andar bene. Ciò in lineadi principio. Ma arbitrarietà significa anche indifferenza? Qui arriviamo, forse, alla parte più grossa, più passionale, del disagio che abbiamo provato. Si è parlato, ad esempio, di mone. (Si sarebbe potuto, anche, di nascita o d'amore). Nella discussione si è esclamato: orribile morire senza regola. Perché, con la regola...? E, quale morire? E, soprattutto: quale regola Pur di giocare con la nostra morte, accetteremmo qualunque regola?e chiunque ce laproponga? Ma la funzione della regola è quella di mettere tra parentesi ciò che temiamo, escludendolo da/l'universo del sociale, dunque mutilando l'esperienza; o quella di prendere, complessivamente, un'esperienza, trasformandola senza perdite a livello di scambio simbolico? Jaulin, in polemica a Baudrillard, sosteneva che il gioco non è arbitrario, in quanto la comunità sociale ne ha bisogno per rappresentarsi se stessa ed il mondo, in quanto fa corpo col gioco di vivere. Forse sarebbe più semplice dire che non è indifferente. Ma ciò comporta interrogarsi di nuovo, e ormai non in termini moralistici ma con lucidità, sul rapporto tra Gioco e ciò che di volta in volta è fuorigioco (e magari è anche, contemporaneamente, la posta del gioco). Più ancora che l'arbitrarietà, tutti riconoscono alla regola un caranere limitato, locale. Una regola non si universali.a.a. C'è sempre un fuori-gioco; o meglio, forse, sempre altrigiochi. Con che rapporti d'innesto? Ciò non è stato affrontato. Anche il baro, tanto deprecato, potrebbe essere in fondo qualcuno che tisa di un gioco per giocarne un altro. Sedano anch'egli, ma da quale regola? Di fronte ad un invitante fare del Gioco la Nuova dimensione di redenzione, a qualunque patto, le nostre gri~ gie reistenzesi popolano di ricordi. Noi che abbiamo, per esempio, partorito, abbiamo visto come l'esperienza del dare vita venga regolamentata, in cerio senso ritualizzata, in modo conforme alle ansie, ai problemi, di chi vi assiste, in modi o direttamente imposti allapartoriente o cui ella è stata debitamente addestrata in precedenza; mentre di fronte a questo ogni ritualità direnamente proposta dai ritmi soggettivi del parto, dalla stessa esperienza del viverlo in modo pieno, intelligente, è negata e impedita. O ancora, più banalmente. Ti trucchi ogni manina per sedurre in un Gioco culruraliuato chi altrimenti avrebbe una paura ancestrale del tuo corpo di femmina; ma che dire, del tuo doverlo fare, ogni manina? Da bambini si poteva uscire dal gioco - non quando si stava per perdere, beninteso, ma ben prima, se si erastufi, se si voleva cambiare, se qualche circostanza rendeva troppo difficile, svantaggioso, o altrimenti spiacevo/e il giocare - bastava «fare Fortik», dire la parola d'ordine; e viceversa, quanre volte capita che gli altri ti vogliano imporre il loro gioco che tu non giochi volentieri, e che comunque è cosi poco tuo, o addirittura -se la guerra è Gioco - che sia imposto per Legge. Come è stato deno in un intervento di discussione (Michele Rak a Paolo Fabbri), molto bene il Gioco, ma ci rifiutiamo di dover sempre litigare. Questo discorso delle preferenze tra giochi, al di là di soluzioni sagge ma parziali come il suggerimento (di Dossena) di giocare non a scacchi, per annientare l'avversario, ma ad un analogo gioco cinese che mira al solo dominio del territorio (suggerimento basato tuttavia già sull'ipotesi restrittiva che il Gioco funzioni di modello alla vita), richiederebbe un'analisi dei motivi, dei modi, per cui si viene a giocare, e a far giocare, un gioco e non un altro -analisi che, se proprio nessuno la tenta, qualche motivo ci sarà. E pare dunque che, senz.a sapersi menere in gioco fino in fondo, non si possa neanche parlare bene del Gioco.

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