Alfabeta - anno I - n. 8- dicembre 1979

"' ...... Il serpente QoMi~ pescecane Luigi Malerba D serpente Milano, Bompiani, 1966 (1979) pp. 218, lire 1500 Dopo il pescecane Milano; Bompiani,.1979 pp. 125, lire 5.000 C'era una volta la città di Luni Teramo, Lisciani & Zampetti, 1978 pp. 25, lire 2300 La storia e la gloria Torino, Stampatori, 1979 pp. 80, lire 3.800 Ronald D. Laing Intervista sul folle e il saggio Bari, Laterza, 1979 pp. 175, lire 3.500 R onald D. Laing ( Intervistasul folle e il saggio, Bari 1979) dice ad un certo punto: «Certo, parlare in continuazione alla lunga diventa insopportabile, e c'è chi sembra non stancarsi mai di dialogare, o magari di monologare. E qualcuno arriva alla frenesia; sono indubbiamente cose che accadono. Ciononostante, io sono grato del linguaggio.Non posso uscire dal linguaggio,ma non lo odio per questo, giacché uscirne significa ritrovarsi ridotti a zero, al vuoto» (p. 128). Sono convinto che l'attività del critico somigli abbastanza a quella dell'agricoltore: non solo è lecito «tentare» degli innesti, è in un certo senso un preciso dovere, una sollecitazione necessaria, laddove le cose «non» avvengono spontaneamente. Ibridazione; reazione chimica se si vuole, mutando metafora: sta di fatto che il frutto «secondo» della critica non è mai materia prima. Cos'è dunque lo zero, il vuoto cui allude Laing? Seguitiamo a leggere: «li linguaggioè, per dirla con Heidegger, la casa in cui, in quanto esseri umani, viviamo. Noi dimoriamo nel linguaggio: essoè l'habitat della nostra mente». Bachelard aveva parlato di una «logosfera». Da una parte dunque il silenzio, dall'altra la comunicazione. Dire da una parte può anche voler dire «prima». Una realtà spazio-temporale che si modifica con una emittente che comincia a funzionare. Posso a questo punto sovrapporre la rilettura del Serpente di LuigiMalerba, uscito nel '66 ed oggi riproposto in edizione economica. Cominciamo dalla fine: «Sono stanco di questo assedio. Vorrei che smettessero di suonare questi telefoni dei campanelli, questi campanelli dei telefoni. Vorrei che si facesse un po' di silenzio e di buio intorno a me. (...) Desidero il buio e il silenzio. Quando avrò il buio e il silenzio resterò immobile come una mummia.( ...) Nella immobilità sta la perfezione. La perfezione sta anche nel buio perfetto, nel silenzio perfetto». Vincenzo Caretti, intervistando Laing, chiede: «La via del silenzio è stata sempre la via dei grandi maestri. Il Tao Te Ching si apre difatti con questa sentenza: 'Il Tao che può essere espresso non è ilTao eterno'.( ...) Persino tu hai affermato che il significato della vera esperienza è il silenzio...». La risposta di Laing, giocata sulla musica come esaltazione del silenzio, non è rilevante ai fini del nostro discorso. Ci interessa di più sottolineare come Malerba collochi l'esperienza del narratore tra una perfezione supposta (immobilità, buio, silenzio) e una perfezione raggiungibileo desiderata (ancora una volta immobilità, buio, silenzio, determinati dalla cessazione del racconto). I nutile ricordare che tutti i libri (romanzi o racconti) di Malerba vivono in questo spazio fittizio che si ricava tra la precondizione necessaria e la condizione che si deve raggiungere: il Giuseppe di Salto mortale, oppresso da un ronzio e assillato da una voce, è uno splendido esempio di patologia della comunicazione, .cosi come il protagonista del Serpente, che dalla sua mente trae una storia e nella sua mente tutta la consuma, inventando il canto mentale, una donna tutta mentale, una «trama» che si ritorce su se stessa fino all'ossessione, è ben consapevole di essere immerso in una rete di parole: «Attenzione, mi dicevo, le parole servono sempre a nasconqere qualcosa»·. Nelle Rose imperiali (1974) l'imperatore, su consiglio del mago Tchao Mong-ien, si dispone a restare per novantanove giorni «immobile e silenzioso» sperando di raggiungere la sospirata immortalità. Non ci interessa qui aggiungere che, all'interno delle singole narrazioni, l'uso costante della.riduzione paradossale infrange anche ilmito del silenzio, sicché- per esempio- durante il silenzio dei potenti finalmente ritorna la prosperità degli uomini. Nel Protagonista (1973) l'equazione narrazione-comunicazione è resa ancora più esplicita dallo strumento scelto per comunicare: il proprietario del «protagonista» è infatti un radioamatore. L'intervallo tra le due «stazioni», tra il silenzio presupposto e il silenzio da raggiungere, è dunque il romanzo, la storia, la narrazione. E siccome il silenzio. o il buio o l'immo- (su altre frequenze, le parole) è prima di tutto «dentro» la testa degli uomini e quando esce fuori, si aggrega secondo leggi che non hanno niente a che vedere con la descrizione del reale. Le parole stesse sono un probabile reale (o, come vedremo, un «indizio» di un reale supposto) e soggiacciono ad una legislazione che è possibile solo a posteriori decifrare. Il rumore di Aster perenhis non è una parola: è un rumore ereditario, che dura al massimo cinque o sei secondi: «Da quando mio padre mi ha detto che lo sentiva anche lui, l'ho ascoltato con più attenzione e ho capito che assomigliaveramente al rumore di qualcuno che bussa al portone della nostra casa di campagna, anche se il rimbombo sembra lontano come quello del tuono» (p. 104). Il rumore è ovviamente un messaggio, di cui Malerba ci fornisce il codice: non è qualcuno che chiede di entrare. Chi bussa è l'Assassino. «Gli assassini pare che fossero tre e sono rimasti impuniti (...). Quei tre arrivarono di notte e bussarono al portone per farsi aprire. Mio padre sparò alcuni colpi dalla finestra tanto per spaventarli, e pensava di averli messi in fuga. Dopo un po' si affacciò e questi gli spararono in faccia» (p. 106). Per la prima volta in un testo malerbiano il rumore (cioè l'assenza del silenzio e del buio e dell'immobilità, cioè la fine della perfezione) coincide con lamorte, è un messaggiodi morte. «Il silenziodella campagna fa risaltare più netto e preciso il mio rumore». Su questo rumore il protagonista vuole Fema11doGrillo, Como, Villa Olmo, A111w1110 Musicale, ouobre 1979 bilità assoluta non si pongono in un tempo dato o in un dato spazio, ma sono entità spazio-temporali, nel senso che mettono in forse o relativizzano la funzione spazio-temporale, ecco che le parole che riempiono il vuoto non si aggregano secondo un ordine precostituito, non hanno una direzione certa come le rette della geometria euclidea. Rovesciando un titolo di moda si potrebbe dire che è la metafora come malattia a tenere banco nella narrativa malerbiana. U na conferma ci viene dall'ultima raccolta di racconti: Dopo il pescecane (1979). Leggiamo subito Aster perennis, il cui protagonista dichiara immediatamente: «Questo rumore ormai fa parte della mia persona come i piedi piatti e altri piccoli difetti fisicicome il neo che ho sul naso e il pomo di Adamo. Mamentre i piedi piatti il neo sul naso e il pomo di Adamo sono difetti esterni, il rumore è un difetto interno, cioè viene da dentro e non da fuori» (p. 103). Che cos'è questo rumore lo diremo tra un momento. Giuseppe detto Giuseppe (Salto mortale), a proposito di «questo ronzio questo ronzare» che lo ossessiona, domanda: «Me lo sogno o lo senti anche tu?». Dunque il rumore «sapere tutto»: vuole sapere da dove viene e dove andrà, cioè se sarà trasmesso alle generazioni future. Ma l'indagine è breve: «Oggi mi sono decisoa scrivere sulmio quaderno questa specie di storia del mio rumore preso un po' sulle generali. La ragione è quella che ho già detto: il sole è ormai tramontato da due ore e lui non si è fatto sentire. ( ...) C'è un gran silenzio». Quello che avviene poi non sorprenderà il lettore attento: la storia accaduta al padre si ripete. Tre colpi battuti al portone, uno sparo per allontanare i supposti ladri. Poi l'attesa (nel silenzio)... «È passata forse un'ora e non ho sentito più niente» (p. 113). E infine il gesto finale: «Adesso aprirò lentamente, millimetro per millimetro, e poi mi affaccerò a guardare» (p. 114). S e il rumore porta con sé la morte è legittimo identificare con la morte stessa la fine del rumore? Sarebbe dunque questo antichissimo archetipo a risolvere ogni trasmissione? Aster perennis costituisce un «unicum» nella narrativa malerbiana proprio perché, per la prima volta, la trasmissione si condensa in un solo simbolo (il rumore) e da un altro simbolo ben preciso (la morte) viene repentinamente interrotta. Di pm: quanto avviene nel racconto non ha altra funzione che quella di «scatenare» questa identificazione finale. Non supporrei dunque inMalerba la volontà di offrire una chiave universale per interpretare-riduttivamente-il senso delle altre trasmissioni-narrazioni. Aster perennis è una variante di uno schema malerbiano ormai codificato, ma è una variante significativa perché privilegia l'angoscia del finale su ciò che accade «durante» la trasmissione. Nel Serpente le parole si aggregavano fino a costituire gli «indizi» di tina storia. Letto in chiave sociologica il Serpente si piega bene a rivelare di quale storia si tratti, cosl come succede con gli altri racconti di Dopo il pescecane. E proviamo qui un altro innesto. Nel recentissimo reading curato da Aldo Gargani (Crisi della ragione, Torino 1979) scrive tra l'altro il curatore nella densissima introduzione: «Non si tratta di macinare l'esperienza entro una macchina logica, bensì di elaborare costrutti e procedure teorici che servano alla spiegazione fisica in una situazione di completa libertà intellettuale, e che non devono necessariamente avere, passo per passo, un riscontro nell'esperienza. Sono le conseguenze di tali costruzioni teoriche che dovranno essere, invece, controllate sull'esperienza». «Morale:», conclude Gargani citando Einstein, «se non si pecca contro la ragione, non si combina nulla». Lo splendido saggio di Carlo Ginzburg, il primo di questo libro. intitolato Spie. Radici di un paradigma indiziario diventa una ricchissima lezione di metodo. N on giocherò l'innesto sulla suggestione delle citazioni possibili. È una questione di respiro maggiore che investe - se è possibile ancora affrontare il discorso in termini tanto schematici - il rapporto scienza-letteratura. Quanto più il narratore pecca «contro ragione» tanto più ha probabilità di costruire modelli narrativi fecondi in un senso opposto ai canoni positivistico-riduttivi messi in opera dai naturalisti. Non trarrei per il momento conclusioni di nessun genere, limitandomi in questa sede a raccogliere materiale. Per quanto attiene specificamente il dettato malerbiano, la costruzione del modello: qualcuno che parlalqualcuno che ascolta con trasmissione di parole (si badi che le parole hanno inMalerba un «peso» specifico, volano alto o basso, soggiaccionoalle leggidella gravità e si trasformano) è ancora troppo generale per corrispondere a quella che in altri termini si definisce una «poetica». Il fine immediato del «peccare contro ragione» malerbiano (cioè l'uso del paradosso) può anche essere - come a qualcuno è sembrato per quest'ultima raccolta di racconti - «politico». (Si ,. legga al proposito li favoloso Andersen, in questo senso scopertissimo). Ma non direi che il fine immediato sia poi il più utilizzabile ai fini della decifrazione del codice malerbiano. In Dopo ilpescecane il parlante si rivolge al lettore e gli propone eventi «straordinari». Gli insegna, per esempio, a guardare il cielo (L'ufologo) invece di occuparsi di quanto avviene intorno a lui («Dalle strade qua sotto si sentono spesso le sirene della polizia,ma io non me ne accorgo») o a guidare la Terra (Il pilota). Può mostrargli come eliminare i rifiuti di un grande ospedale (ivi comprese gambe tagliate, appendici etc.) servendosi degli avvoltoi o come tentare, invano, di iscriversialla mafia. Paralleli ai romanzi maggiori, come denuncia chiaramente un esame anche superficiale delle formule stilistiche, questi racconti strumentalizzano il paradosso per porre in corto circuito alcune ricorrenze «ovvie» in una società capitalistica avanzata. Con essi l'autore tenta inusitate scorciatoie: raccoglie «indizi» appunto, sintomi di una malattia generalizzata che si esprime nell'intervallo tra il silenzio supposto come primordiale e il silenzio supposto come fine ultimo. Nulla vieta di pensare che i due silenzi «coincidano» e che lagrande beffa consista nel navigare «inutilmente» da uno verso l'altro, cosi come Alessandro Magno nel recente La storia e lagloria (1979) assaggia ilMar Caspio non credendo a chi lo informava trattarsi di un lago e naviga in tondo per tornare al punto di partenza. Ma che cosa vuol dire leggere cilluministicamente» la sacra storia (operazione assai congeniale a Malerba, creatore dei medioevi più «bassi» e paradossalmente intriganti) se non raccogliere indizi per un uso diverso· «anche» del reale? Così in Cera una volta la cinà di Luni (1978) l'ignoranza normanna della geografia, porta ad un clamoroso scambio di belliche prede: Luni - creduta Roma - verrà distrutta e in La storia e la gloria lo stesso Alessandro navigatore del mar Caspio, accampato sulla riva di un fiume ha la stessa idea dei suoi nemici: spostare nottetempo l'esercito sull'altra riva per prendere alle spalle il campo degli avversari. Beffe «didattiche•? Non direi visto che Colombo, nel più bel paradosso tramandato dai libri di scuola, scopri l'America credendo di andare in India per altra via. A I narratore dunque, impegnato come un logoteta folle a dis-ordinare le parole e ciò che esse rappresentano nell'intervallo tra i due silenzi, non resta altro compito che quello della raccolta degli indizi. Che poi la storia indiziaria, come Ginzburg cimostra, abbia suoi statuti e finalità di rango ben più elevato del supposto, non interessa tanto al narratore, quanto al Lettore, tornato, con il poliromanzo di Calvino a dignità di protagonista palese e letterariamente vivo. Che ne farà il Lettore (il critico?) degli indizi sparsi a piene mani? Le strade sono molte e tutte egualmente percorribili. Da quella più consueta del processo di identificazione (la denuncia di un «disagio» collettivo) a quella della pura e semplice schedatura e archiviazione degli indizi stessi (l'inutilità dell'esercizio letterario). Personalmente non ci auguriamo che il «peccare contro ragione» insegni altro che il «peccare contro ragione» cioè, nella relatività dell'esercizio, l'assolutezza dell'esercizio stesso. Ci piacerebbe, a conclusione, adottare la frase del commerciante di francobolli del Serpente, eccellente nonpersonaggio: «Mi rifiuto di discutere su questo argomento, ormai è un argomento chiuso. Adesso basta, la storia è finita. Ma non so nemmeno se è proprio una storia».

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