Alfabeta - anno I - n. 7 - novembre 1979

Ntl corrierdeeigrandi L' «andare verso il popolo». P er tentare di penetrare nel complesso arcipelago Testori (romanziere, poeta, drammaturgo, critico d'artt:, moralista e osservatore del costume) può essere molto utile partire da una definizione che ne diede Arbasino, in un intervento sul Verri dell'ormai lontano 1960, quando ebbe a ravvisare in lui uno dei «nipotini dell'ingegnere> (Gadda). Gli altri due erano, ovviamente, Pasolini e lui stesso, Arbasino. Togliamo subito dal gruppetto l'autore di Fratelli d'Italia, che in quel momento proponeva una simile alleanza 'faute de mieux', ma poi, per sua fortuna, con l'allargamento del clima culturale dovuto alla neoavanguardia, non tardò a prendere strade diverse. Resta, forte e innegabile, l'abbinamento con Pasolini, che infatti risulterà confermato anche da tante vicende seguenti, e costituirà in buona misura un filo conduttore di questo tentativo di lettura globale del caso Testori, nel bene e nel male. Tra l'altro, l'accorpamento dei due deve valere anche come avvertenza per tutti gli esponenti di quella che si dice genericamente cultura di sinistra, a non tracciare, tra loro, distinzioni e gerarchie di merito soltanto sulla base di un maggiore o minore quoziente di sinistrismo spettante all'uno o all'altro. on basta insomma che le scelte ideologiche di Pasolini siano migliori e più accettabili di quelle di Testori a decretare l'assoluzione del primo e la condanna del secondo, come invece molta opinione pubblica sembra tentata di fare, in modo troppo sbrigativo. Anticipando un poco il giudizio di fondo cui perverremo, diciamo pure che entrambi si ritrovano a condividere una sostanziale reazionarietà: in modi più coperti e criptici Pasolini. proprio perché velati dalle opzioni politiche «buone>; in modi più scoperti e irritanti l'altro, per il totale collimare. in lui, tra il fondo e la superficie. Questo non toglie che, pur nell'ambito di una sintonia confermata a varie riprese, dovremo cercare di distribuire di volta in volta le parti e i titoli di merito tra i due, constatando che il bilancio si risolve in più occasioni a vantaggio di Pasolini, anche per la caduta finale e irrimediabile dell'altro dopo l'evento della «conversione>. Ma non corriamo troppo avanti, e ritorniamo all'inizio. Essere «nipotini dell'ingegnere>. alla fine degli anni '50, aveva i suoi buoni vantaggi, se non altro come rifiuto di una lingua troppo ovvia, infarcita di senso comune (la lingua, per intenderci, di un Cassola o di un Bassani). Voleva dire, al contrario, scegliere la strada di un certo sperimentalismo linguistico, riconoscere quanto fosse velleitario imporre la maschera di un italiano medio, burocratico e standardizzato, sui ricchi depositi dialettali e regionalistici del nostro paese. Ma d'altra parte non sfuggi ad alcuni critici la carica regressiva insita in quel lasciarsi attrarre dalle tradizioni e dal folcklore popolare, impedendo cosi la crescita della comunità nazionale, il «progresso>, per quanto brutta possa essere la parola, o diciamo una curva di sviluppo sintonizzata sui valori dell'industrialismo e del diffondersi dei mass media. E infatti la linea Gadda appariva subito nutrita di pessimismo e di spiriti ironici nei confronti del «progresso>, come se questo fosse inevitabilmente raggelante e mortuario, e solo presso il popolo si potesse ritrovare, e mantenere, un caldo deposito di affetti, una vicinanza alla carne, al sesso, alla vita. Aspetto regressivo che nei «nipotini>, invece che attenuarsi, si accentuava ancor più, dato che lui, lo zio Gadda, tra lingua e dialetti sapeva stabilire una partita incessante di va-e-vieni, piena di attriti e di scintille. I due giovani seguaci, invece, razionalizzavano il gioco delle parti con cipiglio filologico (come ebbe a riconoscere VittorinÌ in una fortunata nota del Diario in pubblico). e quindi mantenevano accuratamente distinte le zone «in lingua>. che assegnavano a se stessi, o per meglio dire, all'io narrante, giovane intellettuale borghese timido e depresso, pieno di vergogna e di complessi di inferiorità verso la propria classe e la propria cultura, e di conseguenza tanto desideroso di riscaldarsi al contatto col calore del popolo. Nei cui confronti, tuttavia, veniva impostato inevitabilmente un rapporto «dall'esterno», quasi di antropologi che conducono un'indagine sul campo. Le parlate basse insomma erano come fissate al regica. virtuale, proiettata sulla pagina, senza alcun riferimento a dati ed elementi biografici). Gli altri due, invece, vittime di un'errata o insufficiente comprensione del «progresso» e della sua dinamica, credono che questo si identifichi con i valori della prima rivoluzione industriale e di certa etica protestante ad essa connessa, e quindi ritengono di dover combattere Ragione, Sviluppo, Industria, di dover fermare il tempo ai valori di una società pre-industriale, arroccata nel solidarismo, nella pietà creaturale, nella tolleranza verso le pratiche omosessuali, non tanto accettate in piena consapevolezza, quanto piuttosto subite passivamente Philip Corner, Wiesbade11,FftLms FeJlival, OJ.01).62. (Fo10:tipa} stratore, con zelo neo-naturalistico, e con le relative ben note complicazioni ulteriori che da sempre hanno portato ogni naturalista, dai tempi di Zola, di Capuana, di d'Annunzio, a incontrare ben presto fasi decadenti ed espressioniste. Anche perché il riscaldarsi presso il popolo, per entrambi i nipotini, era anche la speranza di trovare presso la sua morale antica una legittimazione agli impulsi omosessuali che una borghesia puritana (ancora erede dei rigori calvinisti del suo primo affermarsi) sembrava censurare spietatamente. Anche qui, curiosa deformazione ottica, perché l'evoluzione del costume ci mostra sufficientemente che viceversa è la cultura «alta> e avanzata (gestita quindi dalla borghesia illuminata) ad avere allargato, col tempo, i confini etici della sessualità, fino a una sostanziale accettazione delle sue manifestazioni eteromorfe. Sta in ciò uno dei punti della rottura di Arbasino con gli altri due «nipotini>, l'aver appunto compreso che la cultura progressista consente di ampliare il discorso, piuttosto che rimuoverlo: da Proust a Barthes a Foucault, tanto per fissare qualche parametro, l'omosessualità, diviene uno dei lieviti per rendere l'umanità più duttile ed elastica (sia ben chiaro che qui e in seguito si farà questione soltanto di una omosessualità, per cosi dire, teoriper effetto della penuria e della promiscuità. C'è dunque una perfetta corrispondenza tra il giovane insegnante Pasolini che, giunto a Roma dal Friuli, va in devoto pellegrinaggio nei sobborghi della capitale per «registrare» le parlate del sottoproletariato immigrato dal profondo Sud; e, nell'altra capitale del Paese, il giovane intellettuale Testori che conduce un analogo scandaglio su un'analoga fetta di sottoproletariato meridionale, spintosi più a Nord. Ma a questo punto sarà il caso di introdurre qualche elemento differenziale, destinato ad assumere un peso via via maggiore. Il «lombardo» Testori ha alle spalle una borghesia controriformata che provoca in lui un sovrappiù di rimozione, e lo porta insomma a vivere in modo più tormentato il senso del peccato (a cominciare da quello omosessuale); cosi come !'«andare verso il poMIO> si accompagna a una buona dose di degnazione manzoniana; o meglio, un progetto che era illuministico ai tempi del Manzoni (di riconoscimento e promozione della classe popolare), assume ora un disegno decisamente reazionario, di alleanza tra il popolo e una certa frazione della borghesia nel comune terrore della novità e nella difesa dello sta1usquo. Mentre Pasolini sembra sfuggire più facilmente al formarsi di quel composto fastidioso che è il senso del peccato: il solidarismo col popolo sembra avere per lui possibilità più schiettamente libertarie. Consentire il ritrovamento di mitici tempi serenamente precristiani, anteriori cioé allo stabilirsi del complesso di colpa, quando l'o• mosessualità non aveva ancora ricevuto sanzioni e condanne. Di qui, nei romanzi di Pasolini, una coralità più larga e distesa, una maggiore disponibilità ai casi umani, una curiosità più prensile. E invece nell'altro una cupezza di toni, un addensarsi di drammi e tempeste spirituali, contro uno sfondo modellato sul fatidico vanitas vani1a1um. Si veda a questo proposito l'Aria/da, del '61, che chiude il primo ciclo costituito dai romanzi globalmente intitolati ai Segreli di Milano, ma trasportato senza difficoltà, appunto con quest'opera, nella veste teatrale, e proprio per il carattere filologico, di indagine al registratore, fatta quindi di spezzoni orali, che appartiene a questa fase del neonaturalismo testoriano. Il tema dell'omosessualità è subito presente a inserire una vibrazione più forte, anche se raggiunto sul filo del pauperismo e della penuria, come variante della circostanza tipicamente naturalista della prostituzione. Ma Eros, il giovane fratello dell' Arialda, pecora nera della sua povera ma onesta famiglia, assume uno spicco che va oltre, come indica il nome in buona misura simbolico, mostrando di aver attinto, proprio grazie ai tesori di auto-educazione e di affinamento della sensibilità insiti nelle stesse pratiche omosessuali, una maggiore nobiltà d'animo, mentre d'altronde la pulsione erotica si congiunge subito in lui con quella distruttiva di morte. Affiora fin da questo momento il «topos» cui Testori resterà affezionato anche in seguito, ove si rivela manifestamente l'altra faccia dell'inibizione borghese, subita anche se denunciata: l'omosessualità è peccato, proprio perché scatena pulsioni di morte, tendenze omicide verso il partner, quasi in ossequio alla casistica dei fatti di cronaca e alla morale corrente, che decreta che certi amori irregolari vanno sempre a finir male. A ciò . si aggiunge, ben inteso, un vistoso compiacimento per ·questa sorta di eroismo satanico dell'eros «contronatura», il solo capace di vivere il dilemma romantico di Amore e Morte, a differenza dell'ovvietà, dell'inerzia meccanica con cui si consumano gli amori «etero». Eros infatti è attratto-respinto da Lino verso un coetaneo, proprio perché vuole sublimare l'attrazione fisica che avverte verso di lui, e sollevarlo piuttosto allo statuto di «angelo» redentore; ma anche e soprattutto perché vuole scongiurare gli impulsi omicidi che sa troppo bene essere coniugati agli altri (ne dovremo riparlare più avanti a proposito del romanzo La ca11edrale). Appare già qui un altro «topos» poi ricorrente nella produzione testoriana, la morte per incidente d'auto o di motocicletta, che è l'estrinsecazione materiale dei pericoli dell'e• tà meccanica, il mostro del progresso che schiaccia inesorabilmente queste povere creature tremanti fatte di carne e di sangue ... La riscritturain stile basso. Dopo l'Aria/da, la produzione (narrativa e drammatica) di Testori conosce una battuta d'arresto di quasi un decennio (mentre continuano l'attività del critico e quella del poeta). A una tale pausa, è forse lecito presumerlo, non sono estranee le forti obiezioni che gli erano state mosse da parte neoavanguardista (e fra gli altri dal sottoscritto, p. es., nei saggi della Barriera del na/uralismo ). Testori, cioè, deve essersi accorto che in effetti la distinzione tra l'io narrante e le miserie dei sottoproletari era troppo rigida, pedantesca, e che inoltre l'urgenza di cronaca e di costume di queste masse diseredate andava diminuendo. Era pur sempre avvenuta una crescita sia nel reddito medio della nazione, sia nelle condizioni di vita, di sensibilità, di costume, e la casistica miserabilista mostrava ormai la corda. Un analogo ripensamento, inutile dirlo. tocca anche Pasolini, che infatti dopo Una vita violenta cessa per intero l'attività di narratore e la trasferisce nel cinema, non solo, ma anche qui scopre l'agio, il lusso dell'avventura culturale, del remake: il popolo, appunto, è cresciuto di mezzi e di istruzione, e ormai si può guardare un po' attorno, o indietro, purché anche in questa più ampia perlustrazione insista sui temi congegniali e anzi miri a darsi un nobile 'pedigree', o meglio, a rivendicare i quarti di nobiltà della stessa problematica miserabilista. Le riletture pasoliniane del Decamerone, dei Racconti di Canterbury, della tragedia greca rispondono essenzialmente a questo spirito, di elevazione universalistica di una tematica e di un messaggio ormai logori, se commisurati a un materiale troppo familiare, sorpreso all'angolo della strada. Con perfetta omologia Testori ci propone i suoi remake dell'Amleto, del Macbeth, di Edipo re, e anzi forse questa è la sola occasione in cui gli riesce di fare un passo più in là, più a fondo rispetto al suo segreto e lontano corrispondente. Infatti, a differenza di Pasolini, egli osa bruciare, abrogare per intero il livello in lingua, penetrare totalmente nell'universo linguistico basso e abnorme, mettendosi alla pari con i suoi personaggi. Vero è che la mancanza di prove linguistiche coeve di Pasolini ci impedisce un confronto esatto, data la non piena congruenza tra il mezzo cinema-• tografico e quello letterario, se non a livello di grandi temi generali. Fatto sta che la Trilogia rappresenta in assoluto il miglior raggiungimento di Testori, quello in cui anch'egli comprova la giustezza, l'inevitabilità dell'ipotesi di uno stile basso programmatico e

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