Alfabeta - anno I - n. 2 - giugno 1979

Unospettrosiaggiraperl'Italia Vittorio Gorresio I carissimi nemici Milano. Tascabili Bompiani. 1978 pp. 23. lire 1.900 Ruggero Guarini/Giuseppe Saltini I primi della classe Milano. Sugarco, 1978 pp. 136. lire 4.000 Nello Ajello Intellettuali e PCI 1944/1958 Bari. Laterza. 1979 pp. 567. lire 13.000 Daniela Pasti I comunisti e l'amore Roma. Editoriale de l'Espresso. 1979 pp. 148, lire 2.500 I comunisti non sono uomini come tutti gli altri. Appartengono a una specie, anzi a una sottospecie diversa. Lo abbiamo imparato dall'immediato dopoguerra, da quando il primo inviato compì il suo viaggio per il Corriere in Russia e da quando Longanesi pubblicò Victor Kravcenko. Ma. sinché si parlava di comunisti nel senso di sovietici, era un discorso che riguardava gente di un pianeta remoto, era facile credere alle più sensazionali testimonianze. Ma cosa dire dei comunisti italiani? Nella prefazione a una recente riedizione economica del suo / carissimi nemici. il primo ritratto dei comunisti italiani, Vittorio Gorresio racconta: "A poco a poco mi ero fatto la fama di specialista degli affari del PO. Ripensandoci oggi, era una fama usurpata, a giudicarla secondo i canoni dell'attuale sofisticata politologia; qualche merito da cronista mi potrebbe invece essere riconosciuto, perché in quei tempi ero uno dei pochi giornalisti italiani ad avere fatto la scoperta che i comunisti erano un tema, una materia d'esame. un argomento che era conveniente trattare con la massima obiettività possibile. Per essere chiaro: io mi occupavo dei comunisti come se comunisti non fossero, ma persone umane e politiche pari a tutte le altre. Nonostante l'ineccepibile onestà della sua logica, questo era un punto di vista poco diffuso allora [...]." / carissimi nemici è del 1949. Certo, trent'anni dopo, sono in tanti a occuparsi dei comunisti italiani. Non passa giorno senza che esca almeno un libro sull'argomento. I comunisti italiani dominano in libreria. C'è, comunque, da domandarsi se quanti si occupano di loro li trattino secondo l'esempio di Vittorio Gorresio, come se fossero persone umane e politiche pari a tutte le altre. Da quello che leggo, non lo direi proprio. Al contrario, mi sentirei di affermare che la grande maggioranza di coloro che si occupano di comunisti italiani, paiono farlo per metterne in evidenza l'assoluta alienità e l'assoluta anormalità. Del resto, quando il libro di Vittorio Gorresio usci, neppure i comunisti italiani vi si riconobbero. Su Rinascita Roderigo di Castiglia, ovvero Palmiro Togliatti, che sino a due anni prima si era compiaciuto di sostenere con il giornalista piemontese sottili e pedanti dispute letterarie, così commentò in uno dei suoi sempre perfidi e spesso ottusi corsivi l'apparizione de/ carissimi nemici: "Quando passa per le strade del mondo brillante rumorosa una schiera di cavalieri, è inevitabile che tra la polvere e il fango, dove son passati, rimangano immondezze e altre trascurabili tracce. Questa è la vita per lo scarafaggio che vi si avvoltola e impasticcia. E la sola cosa che sia all'altezza del suo interesse, lo diletti, lo soddisfi. Lo scarafaggio però, per fortuna, non scrive libri. Vitto~o Gorr~~io invece, per sfortuna, ne scnve [...). Ruggero Guarini, in collaborazione con Giuseppe Saltini, ha messo insieme ne/ primi della classe un'antologia dello sciocchezzaio culturale comunista dal 1944 al 1964. L'antologia è stata ricavata dall'Unità. edizione romana. da Rinascita. prima mensile e poi settimanale. da li Contemporaneo. prima settimanale e poi mensile. consta di vari pezzi d'un centinaio di firme più o meno illustri. ed è francamente orripilante. Ruggero Guarini ammette nella prefazione: "Sì. questo libro è il prodotto di un forsennato furore polemico. Ma il suo bersaglio non sono le circa cento persone i cui nomi. nelle pagine che seguono. ricorrono in calce ai diversi frammenti citati. bensì quell'orrendo 'soggetto ideale' al quale abbiamo dato in questa introduzione il nome di Imbecille Collettivo: un mostro al quale anche noi, in anni ormai lontani. avendo militato nel PCI. sacrificammo qualcosa. votandoci a imparare a nostre spese che l'intelligenza e la dignità dell'uomo non sono esposte ad alcun rischio altrettanto grave come l'illusione di potersi sviluppare e la tentazione di potersi confermare. alienandosi in siffatte. perniciose 'formazioni ideali' [...]." L e citazioni non sono minimamente difendibili. come. però. non sarebbero minimamente difendibili le citazioni che si potrebbero ricavare da quanto dichiarato e stampato dalla parte opposta nello· stesso tempo. In realtà. è proprio questo che Ruggero Oreste del Buono Guarini non vorrebbe ammettere e per cui si scandalizza e continua a infuriarsi. Il fatto che i comunisti risultino in definitiva uomini come tutti gli altri. sottoposti cioè all'inevitabile divario tra intenzioni e realizzazioni e all'inevitabile convergenza tra pregiudizi e giudizi. Così Ruggero Guarini nella prefazione anticipa l'obiezione di avere scelto e raccolto solo le testimonianze delle aberrazioni della politica culturale del PCI. e replica preventivamente che una simile obiezione "presuppone il riconoscimento del fatale ricostituirsi. nell'ambito di quel discorso. della stessa funesta scissione tra l'alto e il basso. il colto e il rozzo. l'evoluto e il primitivo. il complesso e il semplice che esso pretendeva di abolire. presuppone. cioè. l'ammissione che il discorso culturale comunista. proprio mentre affermava di volerla ricomporre. non fece che riprodurre nel proprio spazio quella stessa frattura fra cultura d'élite e cultura popolare o di massa che esso credeva e sosteneva di poter eliminare; il che non vuol dire nient'altro - ma anche niente di meno - che ammettere la natura complessi; vamente demagogica di quel discorso [ ... ]." A conclusioni non molto diverse. anche se con un più approfondito modo di indagine. una più studiosa attenzione allo spirito dell'epoca in verità non molto esaltante. arriva Nello Ajello nel suo denso Intellelluali e PCI /944//958. Nello Ajello. deliberatamente. non pronuncia violente condanne retrospettive né fa sfoggio di icastica virulenza. ha l'ambizione di cercare di esporre efficacemente e di cercare di far capire. Per far capire ritiene. ovviamente. necessario capire prima lui. "L'arco temporale di questo lavoro-dal ritorno di Palmiro Togliatti in Italia ai contraccolpi di quella durevole tragedia che fu l'invasione sovietica dell'Ungheria - abbraccia una serie di vicende non abbastanza sedimentate per poter aspirare a ciò che taluni continuano a definire 'il giudizio imparziale della storia' o qualcosa di simile. Numerosi episodi narrati nelle pagine che seguono danno infatti l'impressione di essere cronaca ancora calda. disadatta a lasciarsi contemplare con occhi distaccati. sine ira et studio. E tuttavia questo non è né un libello né un pamphlet ma ciò che Francesco De Sanctis definiva una 'paziente e modesta monografia,' di quelle che a un certo punto della sua vita il critico irpino mostrò di preferire. quando inclinò a credere che 'accertare un fatto desta più interesse che stabilire una legge.' L'autore mira non tanto a fornire una storia. vista dell'interno. del PCI e dei suoi intellettuali e neppure un'analisi minuziosa della PiùimP.erfezione menoaemocrazia (A proposito di un intervento di Gilles Deleuze) Pier Aldo Rovatti "Che gli italiani non ci rimproverino, questa volta, di occuparci di quel che non ci riguarda, di ciò che non conosciamo," scrive Cii/es Deleuze nel suo intervento sul "caso Negri," pubblicato da La Repubblica il l O maggio scorso. Deleuze avanza alcune riflessioni sul modo con cui l'inchiesta giudiziaria viene condotta: l'accusa, egli dice, è formulata in maniera taleda non potere essere identificata. Essa non si precisa, né esclude, ma procede per accumuli. Le ipotesi contraddittorie, anziché elidersi, si assommano. L'accusa cresce su se stessa, e la difesa non ha un oggetto preciso cui applicarsi. A Deleuze, inoltre, pare che lo stesso meccanismo di accumulazione abbia in massima parte carallerizzato il comportamento della stampa nell'informare l'opinione pubblica sull'inchiesta: falli contraddittori e smentite si sono accumulati come se non si tra/lassedi contraddizioni e di smentite. Per Deleuze i due comportamenti sono connessi e si rinforzano a vicenda: gli effe/li che si producono gli appaiono gravi. Generalizzando, si tratterebbedi una situazione in cui il potere riescea revocare il principio di distinzione (su cui si basa ogni giudizio critico) e a dar luogo a forme di consenso che, se non sono storicamente inedite, sono abbastanza nuove e preoccupanti per noi, in una fase in cui il pluralismo sociale è un dato di pressante emergenza e la legittimazione politica un problema che sembra affrontabile solo a questa altezza. È vero, come ricordava Umberto Eco in uno dei rari interventi controcorrente apparsi finora sulla stampa italiana (La Repubblica del 23 aprile), che si deve parlare di "democrazia imperfe11a"la quale si muove per aggiustamenti realistici: ma vi sono dei contenuti. Vi è ilpluralismo sociale che non_può essere aggiustato più di tanto. E vi è la crisi storica dei contenuti di legittimazione del potere. L'immissione di semplici elementi di forza di tipo repressivo, o di un consenso forzato, accentua l'imperfezione e indebolisce la democrazia. Non toglie la spinta dei contenuti sociali, né risolve la crisi di contenwo del potere. Crea, invece, inciampi e ritardi artificiali nella dialettica reale,caricando in maniera anomala le opinioni con un ruolo e una responsabilità compensatoria. Qui entrano appunto in gioco le idee e gli intellettuali. Li si assume per quello che non sono: sintesi e rappresentazione della reale dialetticasociale, testa di un corpo. E in ogni caso fare oscillare il principio di distinzione significa comprimere e ridurre lo spellro delle opinioni, squalificandone una parte e spingendo vigorosamente le altrea conformarsi. La debolezza, proprio politica, di questo calcolo è evidente. Si rischia di limitare o addirittura di interrompere le comunicazioni tra la riflessione e almeno una parte dei soggeui sociali emergenti, mentre sarebbe necessario fare il contrario: creare delle condizioni perché tu/li i soggetti sociali elaborino in forma pubblica il loro punto di vista, siano favoriti nel rappresentare razionalmente differenze anche nelle. E così, se guardiamo alla stessa logica del potere, ci si avvia lungo il vicolo cieco del consenso autoritario, mentre sembra chiaro che si può dare legittimazione so/{) tentando di "rappresentare" in mod{) articolato la pluralità dei bisogni sociali e i conflilli che ne scaturiscono. Nessuno può negare che le opinioni abbiano effetti pratici. Le idee incidono sulla realtà. Ma è insensato, oltre che irrealistico, arrivare di qui a pensare a senso unico che le idee "istighino" i falli. Il dire è un fare, ma è innanzi tu/lo un fare razionale: si lega a dei fatti precedemi o presenti, con maggiore o minore capacitàdi analizzarli, "leggerli," elaborarli, ed entra in relazione con alcuni falli futuri, dove però questa "relazione" comporta ascolto, consenso o dissenso, possibilità di discussione, presa o rifiuto razionale. Nel momento in cui l'opinione viene elaborata e diviene pubblica, essa prende necessariamente distanza dai faui da cui parte e si apre a una quantità di fruizioni: diventa, allora, essa stessa un fatto di tipo particolare, il cui carattere "pubblico" e la cui fruibilità non chiusa segnano una differenza positiva e non revocabile rispello al fatto cieco. Tutto ciò sembra grandemente ovvio: almeno fino a quando non viene messo in movimento un meccanismo di autocensura che ci induca a misurare ogni opinione solo rispetto a quanto essapotrebbe "istigare.'' Commentando l'articolo di Deleuze, Giorgio Bocca osserva che Deleuze non dice tutto. Anche questo è vero: Deleuze non fa un'analisi politica, e d'altronde nessuno la pretende da lui. Ma è sintomo importante che nell'intervento di Deleuze troviamo alcune delle poche considerazioni lucide che si sono lettedopo il 7 aprile. Ciògeua una luce poco rassicurante sullo stato del dibaltito in Italia. La contrazione forzosa delle opinioni è già operante sulla base di un duplice ricatto: quello del terrorismo quotidiano e quello di una macchina di potere che impone al!'opinione pubblica di abbandonare le distinzioni. In mezzo, schiacciata da questi due meccanismi totalizzanti, credo stia un'intera area sociale che vede ancor più ridursi le parole a propria disposizione. Chi sta veramente colpendo in senso politico lapesantissima azione giudiziaria contro i leaders dell"'autonomia"? Non certo il terrorismo, come si poteva capire fin da subito e come i falli dimostrano in modo sconvolgente. li silenzio e il disagio di parecchi intellettuali possono, a mio parere, essere considerati il segnale di una situazione di larghissimo disagio sociale: una compressione politica e teorica che potrebbe andare ad aggiungersi ai fenomeni di emarginazione già esistenti e che in ogni caso contrasta e rallenta i processi di soggettivazione, gli sforzi verso un'identità sociale, pubblica e razionalmente comunicabile. politica culturale del partito di Togliatti. quanto piuttosto uno studio delle· capacità aggreganti che esso mostrava all'esterno. e dell'azione che esercitava nella società culturale italiana[ ...)." promette Nello Ajello nella prefazione. E mantiene senz'altro le promesse. Leggere il suo libro significa, per chi è passato attraverso queste vicende, chi. insomma. si è trovato in qualche modo a patirle per colpa sua o di altri. riaffrontare la dialettica del passato per tornare al presente a considerarne le conseguenze e la continuità. Una lunga serie di equivoci, di occasioni perdenti. di inganni perpetrati non sempre in malafede. Nello Ajello è molto scrupoloso nel riferire, molto puntiglioso nel fornire i dati, eppure durante la lettura di Intellelluali e PCI I 944/ 1958 sono stato colto a un tratto da un curioso sospetto di inautenticità. Quel sospetto di inautenticità che, tanto per fare un esempio, coglie nella lettura dei romanzi storici che pure presentano personaggi famosi nell'atto di pronunciare le loro celebri battute, o nella visione di film in costume che ostentino attori truccati per rassomigliare maggiormente ai personaggi famosi che sono chiamati a interpretare sullo sfondo. fastose ricostruzioni di templi e monumenti celebri ormai ridotti a rovine. Dopo un poco che rimuginavo un simile sospetto d'inautenticità mi sono reso finalmente conto che il mio sconcerto era cominciato proprio con l'inizio del libro di Nello Ajello, l'incipit addirittura: "A chi tenta di ricostruire le vicende del PCI nel dopoguerra sotto l'angolo visuale della culnira,-J'ar,rivo ·di--Palmirn•.Togliaui---a Napoli il 27 marzo 1944, può apparire una coincidenza simbolica. In quei mesi Napoli non era soltanto la prima metropoli liberata dagli alleati, il centro del grande caos post-fascista, il luogo in cui si manifestavano a fatica i primi fermenti democratici dopo il letargo ventennale. Era anche la capitale di quella cultura crociana che aveva dominato la formazione mentale di tanti italiani. da quelli di alto rango intellettuale a quelli di media e corrente istruzione scolastica [...]." Per Nello Ajello il fatto che, per puro caso, le contingenze belliche abbiano posto Napoli come punto di partenza della politica culturale che il leader del PCI si proponeva di svolgere è fondamentale. Il confronto con Benedetto Croce risulta subito impegnativo, e a questo confronto Nello Ajello dedica appunto molte pagine indubbiamente avvincenti. Per Palmiro Togliatti e per un certo numero di dirigenti del partito comunista Benedetto Croce era un riferimento d'obbligo, poiché la loro cultura era, in parte piccola o grossa, superata o non superata, ancora crociana, ma per il resto dei comunisti italiani, intellettuali compresi, era davvero Io stesso? Letta a nord questa storia dei rapporti tra intellettuali e PCI scritta a sud pare addirittura un'altra storia. I nomi sono gli stessi, e pure sono gli stessi gli episodi, ma il senso delle storie parallele non pare coincidere esattamente. Come spiegare che alla rivista napoletana Latitudine di cui usci un solo numero, si ripete: un solo numero, venga proporzionalmente dedicato più spazio che-alle vicissitudini del Politecnico? Per carità, non è per reimmergerci nelle querimonie per la precoce scomparsa del Politecnico. Le rievocazioni e le discussioni sul Politecnico, che si chiuse, sl, perché Mario Alicata gli aveva dato l'ostracismo, ma soprattutto perché Elio Vittorini ormai non aveva più voglia di continuarlo ed era assillato dalla preoccupazione per la propria sorte di scrittore, questo periodico piangere sulla grande occasione perduta, questo insistere nell'escogitare alibi per la pochezza endemica del giornalismo culturale italiano hanno finito per suggerirmi una certa con-

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