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Sul despotismo burocratico

Andrea Caffi, 1943.

Leggo in un giornale l'affermazione categorica: "La burocrazia è il nemico numero uno della democrazia. " Non si potrebbe dir meglio e più brevemente. L'affermazione, e i termini coi quali nell'articolo si denuncia l'" apparato centralizzato di uffici onnipotenti che serve a tutti i regimi e li mina tutti", ricordano da vicino l'ultimo articolo che Lenin dettò nell'autunno 1922, prima della ricaduta che doveva portarlo alla tomba, sull'" Ispettorato operaio e contadino", enorme gerarchla di funzionari istituita per controllare, unificare e mantenere nel retto cammino tutti gli ingranaggi dello Stato sovietico. Con un'asprezza che rivelava un'angoscia profonda, il grande capo della rivoluzione da cui quello Stato era uscito accusava il sistema degli uffici di essersi già incrostato nella routine, nella grinta autoritaria, nel formalismo meticoloso e di soffocare le iniziative spontanee delle forze economiche e sociali, scoraggiando le capacità e le competenze e allontanando ogni giorno di più il governo dal popolo.
Da Lenin, il pensiero torna indietro ai suoi legittimi antenati, i Giacobini. Si sa quanto Albert Mathiez ammirasse Robespierre e l'opera dei Giacobini. Tuttavia, egli non può fare a meno di constatare con tristezza che la dittatura del Comitato di salute pubblica non potè stabilirsi fermamente, nell'aprile 1794, che sopprimendo il tessuto di autonomie comunali e dipartimentali che la Costituzione del 1791 aveva messo in vigore e che la Costituzione repubblicana aveva — teoricamente — rafforzato. Le necessità della lotta contro gli eserciti stranieri e contro la Vandea all'interno costrinsero i Montagnardi del 1793 a ritornare ai metodi di Richelieu e dei trentasei intendenti di Luigi XIV, così come il blocco della Russia da parte della Francia e dell'Inghilterra, unito all'appoggio dato da queste potenze all'insurrezione dei generali "bianchi" dovevano rendere urgente — secondo la lucida espressione di Trotzki — la sostituzione di un "apparato di governo indipendente dalle masse" ai Soviet.
In ambedue i casi l'operazione si compì rapidamente e quasi senza urti, grazie alla lunga abitudine che aveva la nazione a lasciarsi amministrare passivamente da una burocrazia estremamente centralizzata: Pietro il Grande aveva saputo applicare gli stessi princìpi e la stessa tecnica d'oppressione di Colbert e di Louvois.
In Francia, questa restaurazione del centralismo autoritario si è cristallizzata nella Costituzione dell'Anno VIII, le cui invenzioni fondamentali — prefetture e sottoprefetture, statuto dell'esercito, distinzione fra polizia nazionale (Sûreté) e prefettura di polizia (nella quale si accentrano le funzioni della polizia e quelle della prefettura civile a Parigi), controllo fiscale, statuto dell'Università, Banca di Francia, magistratura asservita all'esecutivo, eccetera — hanno sopravvissuto a tre rivoluzioni, due o tre colpi di Stato, quattro ingressi di truppe nemiche a Parigi, dieci cambiamenti o rimaneggiamenti delle leggi costituzionali. L'immobilità politica della Francia contemporanea, il fallimento finale di ogni tentativo riformatore, sono certo dovuti al peso schiacciante di questa impalcatura essenzialmente dispotica perché essenzialmente fondata sulla potenza imperturbabile dei regolamenti, degli incartamenti e della routine. Né sarebbe giusto tralasciare il fatto che un tale meccanismo, una volta che funzioni regolarmente e con sufficiente imparzialità (o impersonalità), entra nelle abitudini della società e degli individui, i quali collaborano volenterosi al suo buon funzionamento pur di ottenere i vantaggi che esso promette.
L'elogio di tale sistema lo si può trovare in più di un passo del Memoriale di Sant'Elena, e particolarmente in questo: "Bisogna anzitutto arrivare all'unità... L'organizzazione delle prefetture, la loro azione, i risultati erano ammirevoli e prodigiosi. Il medesimo impulso veniva dato, nel medesimo istante, a più di trenta milioni di uomini. I prefetti erano essi stessi dei piccoli imperatori... Nel mio pensiero, la maggior parte di questi meccanismi — precisa Napoleone — non erano che degli strumenti di dittatura, delle armi di guerra... Io non potevo mantenermi al potere che con la forza".
Queste chiare parole fanno subito venire in mente due osservazioni: la prima è che la grande scoperta dei totalitari di sinistra o di destra era stata già fatta da Napoleone imperatore; la seconda è che, se si tien conto del fatto che il sistema napoleonico, separatamente o in simbiosi con quello prussiano, servì d'esempio a tutti praticamente gli Stati europei, salvo l'Inghilterra, e specialmente a quelli delle nazioni "risorte" a vita indipendente, la "crisi della democrazia" di cui tanto si parla non appare più tanto enigmatica, dato che bisogna cominciare col notare che in Europa una democrazia nel senso serio della parola non è ancora esistita. Ci sarebbe una terza osservazione, che riguarda più particolarmente le parole nelle quali Napoleone riconosce con gallica chiarezza che la sua era una dittatura e non poteva mantenersi altro che con la forza: quando Tolstoi diceva che "il mondo attuale è fondato sull'assassinio", cioè sulla violenza organizzata e illimitata, voleva in sostanza indicare la natura irrevocabilmente violenta dello Stato moderno: a testimonianza di Napoleone, la sua era una diagnosi scientificamente esatta.
Beninteso, i "risultati ammirevoli e prodigiosi" dell'impulso unico e istantaneo non si manifestavano pienamente che quando esso era dato da un padrone come Bonaparte, fornito dei mezzi di polizia di Fouché, o almeno da un uomo come Clemenceau, con a lato un Mandel armato dei pieni poteri, della censura e dello stato d'assedio. Quando lo stato di pace, la pressione di costumi umanitari e di un'opinione pubblica non spaurita, il carattere mediocre o indulgente dell'oligarchia che manovrava le "leve di comando" rallentavano l'azione della formidabile macchina fino a ridurla a un dolce disordine, gli amministrati potevano quasi dimenticare che la potenza dell'apparato autoritario non solo non era diminuita, ma al contrario decuplicata grazie alle comunicazioni rapide o rapidissime, al telegrafo, alla radio, alle mitragliatrici, ai carri armati, agli aeroplani, ai gas (perlomeno quelli lacrimogeni, finché la polizia consentiva a rimanere filantropica...) e infine — fatto essenziale — all'assorbimento di una parte sempre più considerevole del reddito nazionale da parte dello Stato. Allora si spingeva l'incoscienza fino a lamentarsi — come le rane della favola — di non avere "un governo che governi".
Questo tuttavia non impediva che a ogni svolta critica — nel 1914 come nel 1938 — i partigiani della reazione autoritaria avessero la piacevole sorpresa di veder confermato il giudizio di un uomo di Stato che se ne intendeva: "Qualsiasi imbecille è capace di governare con lo stato d'assedio." Qualsiasi imbecille, e anche un imbecille mostruoso come Hitler... Ora, la Costituzione dell'Anno VIII, e tutte quelle che la imitarono in seguito, significano lo stato d'assedio permanente; ovvero, per essere più moderati, i poteri autocratici dello stato d'assedio pendono in permanenza sulla testa della nazione.
Non è quindi senza sorpresa che, nei vari programmi della Resistenza (come già prima in quelli del Fronte popolare), abbiamo rilevato la mancanza di ogni accenno alla necessità di demolire o, comunque, riformare radicalmente l'imponente e schiacciante insieme d'istituzioni che, dopo l'Anno VIII, ha di fatto reso illusone le libertà dell'uomo e del cittadino. Eppure, c'è in Francia una tradizione gloriosa di lotta contro l'armatura imperiale e burocratica: basti evocare il nome di Pierre Jacques Proudhon, grande pensatore e autentico uomo del popolo, per indicare la via che potrebbe prendere una volontà di "liberare e federare" davvero, e per la prima volta, la nazione francese. Allora l'esempio francese potrebbe, per la seconda volta nella storia, essere contagioso per l'Europa.
Purtroppo, a questo si preferisce dai più il ritorno a un patriottismo il quale, oggi come oggi, oltre a essere nefasto, non può essere che intimamente falso. Prendere per effettivamente esistente quell'ibrido fra Giovanna d'Arco e Luigi XIV che è la Francia del generale De Gaulle sarebbe, per la nazione francese, l'ultima delle disgrazie.

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