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Enzo Golino

Chiaromonte, un chierico che non ha tradito

Tratto da Cosa rimane, atti del convegno dedicato a Nicola Chiaromonte (Forlì, 25 maggio 2002), quaderni dell'altra tradizione, 3, Una città, 2006

C’era una volta a Roma un magico pentagono. Correvano gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, e alcuni giovanotti d’ogni parte d’Italia esibivano in quel perimetro le prove, a volte già folgoranti e mature, di carriere che si sarebbero dipanate nei mass media, nei giardinetti dell’accademia, nelle lettere, nella politica, nell’industria, magari intrecciando i percorsi disinvoltamente, curiosi ed eclettici, attenti a non rinchiudersi entro steccati disciplinari. Ai vertici di quel pentagono c’erano "Il Mondo” di Mario Pannunzio in via della Colonna Antonina 52; "L’Espresso” di Arrigo Benedetti in via Po 12; un paio di caffè e la libreria Rossetti in via Veneto; altri caffè come Rosati e Canova in piazza del Popolo; "Tempo presente” in via Sistina 23, la rivista fondata e diretta (1956-1968) da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, austeri dioscuri di quella stagione.
Nelle stanze in penombra di "Tempo presente”, dal parquet scricchiolante, si respirava un’aria cosmopolita, e quindi più attraente agli occhi di chi avvertiva il fascino di taluni scrittori. Passavano, visitors eccellenti, Mary McCarthy, Lionel Trilling, Dwight Macdonald e altri che Chiaromonte aveva conosciuto a New York, al tempo in cui, esule antifascista, sbarcato nel Nuovo Mondo dopo le tappe di Parigi, Tolosa, Algeri, Casablanca, lavorava all’"Italia Libera” di Gaetano Salvemini e collaborava alle pubblicazioni della sinistra intellettuale, da "Atlantic Monthly” a "Politics”, da "The New Republic” a "Partisan Review”. E passavano anche Stephen Spender e Francine Camus, conosciuta ad Algeri, nel 1941, insieme al marito Albert, l’autore dello Straniero.
Silone e Chiaromonte non brillavano per abitudini mondane. A tu per tu con gli altri si concedevano frugali arguzie, misurate ironie, e la McCarthy ha ricordato frivolezze, allegrie, divertimenti di Nicola durante il periodo newyorkese, nella casa vicino a Washington Square e nelle vacanze estive sulla spiaggia di Cape Cod. Al di là del carattere, la loro storia personale suscitava nei più giovani una distanza rispettosa e ammirata: il narratore dei "cafoni” di Fontamara per la sua drammatica vicenda politica nell’internazionalismo comunista, segnato per sempre dal lutto del "dio che è fallito”; l’intellettuale anarchico e libertario, diviso fra il pensiero e l’azione, per un cosmopolitismo non provinciale, per l’esperienza di combattente antifranchista nei cieli di Spagna con la squadriglia aerea di André Malraux, e già eletto a figura letteraria sotto le spoglie di Scali nel romanzo L’Espoir. 
Due miti insomma, la cui blindata discrezione e un ben riposto snobismo da una parte, l’indifferenza -ricambiata- della sinistra più settaria dall’altra, non lasciarono che assumessero le dimensioni pubbliche che meritavano. E si può affermare, senza tema di smentite, che al cospetto di Chiaromonte e Silone, oggi, allo sguardo del postero, celebrità dell’epoca si sono sbriciolate nel nulla.

Nicola Chiaromonte (nato a Rapolla, Potenza, nel 1905, morto a Roma nel 1972) è stato un saggista parco ma incisivo, colpevolmente trascurato dalla cultura italiana (come in anni non sospetti ripeteva di continuo Vittorio Saltini, studioso di Estetica e romanziere). Quasi tutti i suoi libri sono stati pubblicati postumi. Una trascuratezza che ancora perdura: il suo ricchissimo epistolario nel Fondo Chiaromonte alla Yale University è sempre in attesa di un editore. I suoi interessi spaziavano dal cinema al teatro (di teatro si occupò per "Il Mondo” di Mario Pannunzio, per "L’Espresso”, nei volumi La situazione drammatica, Bompiani 1960, e Scritti sul teatro, Einaudi 1976), dalla filosofia alla letteratura, dall’arte alla politica, come dimostrano in parte i ventiquattro saggi confluiti in Il tarlo della coscienza (a cura di Miriam Chiaromonte, introduzione di Gustaw Herling, il Mulino 1992), già editi in periodici vari e in precedenti antologie. Come questo, i titoli dei suoi libri gli somigliano, riflettono il suo carattere, il suo profilo intellettuale: Credere e non credere (il Mulino 1971), Silenzio e parole (Rizzoli 1978).
La scrittura sobria, affilata sui modelli classici, a cominciare dai greci, si abbandona di rado a sussulti e inarcature di stile, ed è disseminata di gemme concettuali taglienti, soprattutto per quel che riguarda gli aspetti della modernità nell’arte e nel costume di cui Chiaromonte addita gli insidiosi meccanismi, i falsi idoli, le fatue negazioni. "Negare, in senso autentico, non significa inveire” scrive, poiché "negare significa vivere la negazione e patirla; soffrire la nausea e l’orrore del reale; cercare, nel mondo così com’è, un senso e non trovarlo, sentirsi prigioniero dell’incubo e del grottesco, vittima di una libertà intollerabile, ossesso: solo. Insomma, i mostri di Goya sono veri mostri, e l’universo di Kafka una spaventosa assenza; ma l’inferno dei Padri Gesuiti, per paura che faccia ai ragazzi, rimane profondamente scemo”.
Un fuoco interiore alimenta, con stoico distacco, la tensione morale, l’utopia raziocinante, il nichilismo attivo di questo straordinario chierico che non ha tradito il suo ruolo, un Socrate involontario ispirato da sentimenti assoluti (massimamente solidarietà e amicizia), strenuo assertore del principio di responsabilità. Un esempio da indicare ai protervi urlatori dell’anima che infestano prime pagine e schermi tv esibendo un io insaziabile, voglioso di null’altro che di consensi personali. Si leggano le parole -profetiche- che nel 1967 gli ispirò la politica: "oggi è diventata un’evasione, come il cinematografo e gli altri modi di uccidere il tempo residuo”. E ai politici di ogni schieramento verrebbe voglia di raccomandare un suo sferzante aforisma: "Le ‘menzogne utili’ corrodono le ‘verità inutili’, mettendole fuori uso o falsandole”.
Anche in queste parole "il sasso di Matera” -così, affettuosamente, Clotilde Marghieri definiva Chiaromonte alludendo alle sue origini lucane e alla sua scontrosità- aveva tempestivamente avvertito i risvolti irrazionali che scuotono e modificano in peggio la convivenza civile, il male oscuro che mina la società di massa, la massificazione delle élites, la degradazione dell’idea di progresso, la riduzione del linguaggio a vuoto simulacro perpetrata dal regime di Mussolini, dalla pubblicità, dai giornali, dalle avanguardie letterarie. Fino a teorizzare, di conseguenza, la secessione silenziosa ma risoluta da un tale stato di cose, un atto di eresia da compiere tranquillamente. Il contrario, insomma, delle forme in cui ribolliva la separazione eretica di Pier Paolo Pasolini, disperato pedagogo di massa, lontanissimo da Chiaromonte eppure consonante, sullo sfondo francofortese e heideggeriano, in alcune delle più spietate diagnosi del nostro tempo. 
Quando maturò la sua adesione al regime, benché dissuaso dagli anziani antifascisti che conosceva, Chiaromonte aveva sedici anni. Ma dopo il delitto Matteotti e prima delle leggi eccezionali promulgate nel 1926 divenne un deciso oppositore del fascismo. Spiato dall’Ovra -i cui rapporti al Ministero dell’Interno ne denunciavano la "intensa e notevole attività sovversiva” e i contatti con Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli-, un mandato di cattura emesso il 12 giugno 1935 dal Tribunale Speciale creò la premessa di un rinvio a giudizio nel gennaio 1936 "in istato di latitanza”.
Certamente il ricordo di queste vicende e la dittatura fascista contribuiscono a illuminare fino in fondo la natura del totalitarismo e della tirannia: la cui oppressione fondamentale, in epoca antica e moderna, consiste nell’ "impedire all’uomo la coscienza del proprio essere”, e trova in Chiaromonte un lucido e precoce analista. Qui i suoi punti di riferimento teorici sono Hannah Arendt e Leo Strauss, ma vi è anche il peso cospicuo di una propria elaborazione non vicaria sulle ideocrazie fascista, nazista, comunista. E sul clamoroso abbaglio di credere "che le storture intellettuali, la violenza assurda, le rivolte prive di senso, le rivendicazioni idiote, siano fenomeni importanti in quanto occupano il campo dell’attualità”.
L’errore ha indotto molti a cadere nella trappola di "menzogne utili” come le "due superstizioni concomitanti che sono all’origine del disordine odierno: la superstizione della Storia e quella della Politica, l’idea che l’uomo sia padrone della propria storia e quella che la politica sia il mezzo per realizzare integralmente la sua natura morale”. Questo spiega, a mio avviso, per quale motivo tanti, specialmente giovani, hanno scelto di militare nel comunismo non perché obbedienti, in coscienza, alla ragion di partito, ma perché, secondo Chiaromonte, "di fronte a un mondo che non li soddisfa, vedono nel partito il solo strumento efficace di un cambiamento radicale”. Una posizione omologa a quella che nel 1968, riflettendo sugli studenti in rivolta, Chiaromonte manifesta con un pacato riconoscimento delle ragioni messe in campo dalla "gioventù indocile” che si ribella allo stato miserevole dell’insegnamento scolastico e universitario, a "una società che non impone né merita rispetto”. Ma con altrettanta pacatezza egli respinge le esplosioni più estreme della "massa in tumulto” quasi prefigurandone i minacciosi sviluppi. 
E’ un azzardo, però, sottolineare l’attualità delle argomentazioni di Chiaromonte, uno degli ultimi "maestri segreti” di tutta una generazione "di intellettuali europei e americani” (come ha scritto di lui Maurice Nadeau, storico del Surrealismo), fiero avversario della mentalità storicista della Storia, poiché nulla di quel che accade -appunto la Storia, nella formulazione dei suoi zelatori- è motivato da ragioni storiche. Un antistoricismo, il suo, comunque edotto del fatto che siamo esseri incontestabilmente temporali, personaggi di una storia, e che ogni nostro atto è relativo. 
Tutto ciò che la Storia produce in base a presunte leggi immutabili impoverisce la sostanza umana, la proteiforme ricchezza della vita individuale e associata. Ha ragione Gustaw Herling nell’appassionato ricordo dell’amico, "anima nobile”, a mettere sul medesimo piano la sua battaglia contro ogni dogmatismo per liberare la verità assediata da schematici finalismi e l’amore instillatogli da Adriano Tilgher per il teatro di Pirandello, uno scrittore che sfidava la fissità menzognera delle maschere sociali per raggiungere lo stesso obiettivo. 
Alla sua scomparsa Chiaromonte, "poliglotta dello spirito”, aveva esaurito il ruolo del testimone contemporaneo? Nessuno può dirlo, ma il suo discorso, scontate le opacità insite e quelle indotte dal trascorrere del tempo, le sordità dovute a eccessi di intransigenza, disegna il ritratto di un indimenticabile homme revolté che affronta a viso aperto l’assurdo, armato soltanto di una corazza etica contro la peste che dilaga nel mondo.
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