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Clotilde Marghieri

Tratto da Amati enigmi, Firenze, Vallecchi, 1974


Jacques, è accaduta una cosa orribile: è morto Nicola Chiaromonte. Lo aspettavo da me insieme con i Rossi Doria e Annie mi telefona e mi dice: "È morto Nicola”.

Breve come è stato il tempo della nostra amicizia, sento che la sua scomparsa, quella di un essere tra i più partecipi e attenti ai problemi e ai segreti del vivere, impoverisce la mia vita senza rimedio. Possiamo sopportare colpi così duri solo perché non riusciamo a crederci.
La scomparsa di un essere caro è una realtà alla quale solo il tempo può abituarci trasformandone l’assenza in una differente presenza, riuniti l’al di qua e l’al di là in un’unica misura. Ma al raggiungimento di questo grado di coscienza che non disgiunge più il regno della vita da quello della morte si arriva solo grazie alla fedeltà del dolore e dell’amore insieme.
Lei lo sa, Nicola era un amico recente. Lo leggevo da anni ma non lo avevo mai incontrato; la nostra società letteraria non favorisce gli incontri. Lo leggevo trovandolo, spesso, troppo stringato e asciutto e sempre avevo ammirato le sue doti di onestà intellettuale; da ogni rigo traspariva la sua integrità e la sua coerenza con la propria vita: una vita di intense passioni politiche e sociali e anche di eroismi segreti. E questo ammiravo tanto, che di una vita avventurosa e coraggiosa non avesse mai fatto né un mito né tanto meno una leggenda.
Ora mi domando: perché non l’ho incontrato prima? Ma che avrebbe potuto essere, anche un incontro, nella confusione della vita di qui, nelle sue futili occasioni? La mia fortuna è stata quella di averlo incontrato sotto il cielo di Anacapri, nel gruppo dei suoi amici di una vita intera: Silone, i Garosci, i Tagliacozzo, la vedova di Camus, a lui legata da profonda amicizia. Niente rapporti mondani, ma la incantevole libertà di discorrere passeggiando per le strade dell’isola o nella casetta sua accanto alla sua carissima moglie Miriam e i suoi amici. Il futile, il conveniente e non parliamo dell’utile, non esistevano. Esisteva, per Nicola, solo l’autentico, il vero, anche se il suo estremo riserbo gl’impediva di proclamarlo.
A tal punto era schivo da ogni vanità personale, da ogni egocentrismo che incuteva persino una certa timidezza, talvolta quasi un senso di colpa; si era investiti, di fronte a lui, come da una fiamma che bruciava tutte le scorie. Capisco perché adesso, subito dopo la sua morte, sia stato chiamato un Maestro. In vita, questa parola avrebbe provocato in lui reazioni violente. Ma io lo sentii tale nella gioiosa esperienza della nostra amicizia nascente quando, in cammino lungo i sentieri odorosi di mirto in Anacapri, avvertii che quello verso cui ci eravamo avviati, era, una volta per tutte, il traguardo di una approfondita conoscenza.
Ricordo, a proposito di un colloquio sullo scrittore e la sua opera, una sua frase chi mi sorprese: "Non abbia paura, non sia timida. È così bello penetrare in un’anima”. Era un uomo che non aveva paura di pronunziare questa parola desueta.
Timida? Sì, Nicola poteva intimidire chi parlava con lui e persino creargli un senso di colpa nei confronti dell’uso sbadato, superficiale, impaziente, delle parole. Io lo chiamavo "il sasso di Matera” perché era lucano – le comuni origini ci avvicinavano – e, come tale, era scontroso, riservato, fierissimo. Poteva essere duro e conciso fino a tagliar corto in una conversazione che non fosse bene impostata o minacciasse di risolversi in chiacchiere; ma non voleva mai ferire nessuno, al massimo solo i vanesi.
Qualche volta mi adombravo, quando mi sollecitava a non prendere sul serio la letteratura, a "non farmene una malattia”, ma forse lo fraintendevo. Il vero risultato di questo suo disdegno era proprio un infinito amore per la letteratura, per quella che riflette i problemi del vivere, i problemi della storia e i rapporti tra l’uomo e il destino.
Mi accorgo di parlare di lui come di un amico di lunga data, come lo erano quelli in mezzo ai quali ho avuto la fortuna di incontrarlo. Ma l’amicizia, come l’amore, può nascere adulta e con tutte le promesse di una pienezza felice. E poi, per me, era proprio il momento giusto per incontrare un uomo come lui. Il momento della resa dei conti, quando si tirano le somme, si fanno i processi al passato e, anche se non c’è più possibilità per ricorsi o appelli, non si è disposti ad accettare monete false né a firmare assegni a vuoto. È stato un incontro importante che mi renderà i prossimi, se ancora ve ne saranno, assai più difficili.
Proprio l’altra sera, mentre lo attendevo da me, ero intenta sulle mie carte e mi torturavo per un aggettivo. Di colpo, mi sono ricordata una sua frase dell’estate passata: "Vede, è proprio quando non si sente più l’aggettivo come un ‘assoluto’ che la letteratura vera incomincia a esistere. Da noi la letteratura vera è finita da un pezzo”.
Ci ripensavo, tra me e me, e non ero del tutto d’accordo; mi ripromettevo di parlarne con lui alla prossima occasione. Non ve ne saranno più.
Sono andata, invece, a dargli l’ultimo saluto. Mi ha colpito di scoprire che, nella sua stanzetta, sul tavolo, c’era un cannocchiale. La sorella mi ha detto che gli piaceva tanto guardare le stelle.
Come somiglia, questo, al Nicola segreto, schivo di parole, che cercava nel cielo come nel profondo del cuore degli esseri cari e degli amici, una voce: quella della sola verità che ci sia dato di cogliere nel nostro passaggio terreno.

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