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Salvemini e il 1920. La crisi del primo dopoguerra

«Il Mondo», 29/12/1951

Quando Salvemini entrò in Parlamento, la Camera era in grave crisi. Il governo Nitti aveva mantenuto una politica di stretta neutralità durante le elezioni del novembre 1919, e la Camera da esse uscita rifletteva quindi lo stato d'animo di profondo malcontento che esisteva nel paese. Furono eletti 156 socialisti e 100 popolari, i quali avrebbero potuto mettere insieme una lieve maggioranza di 256 su 508 deputati, se non fossero stati gli uni contro gli altri. I rimanenti seggi, in numero di 252, erano suddivisi fra vari gruppi minori: nazionalisti e liberali a destra; democratici giolittiani, radicali, socialisti riformisti e combattenti al centro ed al centro-sinistra. I 156 socialisti costituivano il gruppo più forte, ma i massimalisti erano assai più numerosi dei riformisti e condannavano il partito ad una costante opposizione. Il grosso dei deputati socialisti consideravano il Parlamento come un'istituzione borghese da sabotare. Essi votavano contro ogni ministero, e ostacolavano il normale funzionamento della Camera interrompendo gli oratori, provocando degli incidenti, quando non venivano alle mani coi deputati di estrema destra. Per formare un gabinetto, occorreva una coalizione fra i popolari ed i gruppi di centro; ma il sospetto con cui i democratici ed i conservatori seguaci della tradizione laica del Risorgimento guardavano i predecessori degli odierni democristiani rendeva instabili le maggioranze parlamentari e causava frequenti crisi ministeriali. Durante gli anni di guerra le sessioni parlamentari erano state rare, ed il compito di amministrare il paese era stato lasciato quasi completamente ai ministri i quali governarono per mezzo di decreti-legge.
Per girare l'ostacolo costituito dall'ostruzionismo dei socialisti, il Primo ministro Nitti trovò conveniente di continuare a servirsi di decreti-legge. Quindi i problemi più importanti non erano discussi colla dovuta calma, o non erano discussi affatto dal Parlamento, ed i deputati erano invitati a votare in gran fretta numerosi decreti che a volte non avevano neanche avuto il tempo di studiare. Nitti si assentava spesso da Roma per partecipare a conferenze internazionali, e durante quelle settimane il Parlamento restava chiuso. Se si eccettuano poche discussioni generali in cui venivano affrontati alla rinfusa ogni specie di argomenti, il Parlamento funzionava poco e male. La situazione migliorò nel luglio del 1920 quando andò al potere Giolitti, ma tornò a peggiorare sotto i suoi deboli successori. Prima ancora che Mussolini vibrasse il colpo mortale al Parlamento, questo era stato indebolito dalla prassi degli anni di guerra, ed era minato dal contegno dell'estrema destra nazionalista e dell'estrema sinistra socialista.

Entrato in Parlamento dopo anni di lotte in cui aveva rischiato più di una volta la vita per combattere i disonesti metodi elettorali di Giolitti, Salvemini dové presto convincersi che non vi era molta possibilità per lui di contribuire a quel lavoro di serie riforme a cui si era preparato con lunghi studi. In Parlamento non si sentiva a suo agio. Scoprì con meraviglia che molti deputati non s'interessavano seriamente di politica, non avevano opinioni proprie e si accontentavano per lo più di ripetere gli argomenti trovati negli artìcoli di fondo del loro giornale preferito. La maggioranza dei deputati parvero a Salvemini onesti ma di limitata intelligenza. Diversi avvocati si facevano raramente vedere a Montecitorio. Essi si presentavano soltanto dopo essere stati convocati telegraficamente dal governo per partecipare alle votazioni più importanti, e, votata la fiducia al governo, lasciavano subito la capitale. Molti massimalisti gli apparvero come «scimmie urlanti», mentre i popolari come una «massa cieca è disciplinata». Egli ebbe l'impressione che in fatto di valori intellettuali e di competenze la Camera uscita dalle elezioni del 1919 fosse inferiore alle precedenti.
Nei 15 mesi in cui sedette in Parlamento Salvemini si sentiva profondamente a disagio.
I nazionalisti lo odiavano per la sua opposizione alla politica di Sonnino; i socialisti non lo amavano perché aveva abbandonato il partito ed era stato interventista; i cattolici diffidavano di un uomo che in fatto di rapporti tra Stato e Chiesa seguiva le tradizioni separatiste del Risorgimento; i democratici giolittiani non gli perdonavano 1' opuscolo Il Ministro della malavita. Dopo essersi separato per divergenze ideologiche anche dagli altri rappresentanti dei Combattenti, Salvemini rimase solo, se se ne eccettuino i suoi amici Bissolati e De Viti de Marco. La morte di Bissolati nel maggio del 1920 fu un duro colpo. Bissolati era stato per lui come un fratello maggiore ed aveva più di un tratto in comune con lui, la fedeltà ai princìpi, la rude franchezza, il coraggio di sfidare l'impopolarità.
Sentendosi in un ambiente ostile, Salvemini stava in guardia, si muoveva con cautela, come chi veda dovunque trabocchetti, e reagiva con violenza agli attacchi dei nazionalisti e dei massimalisti. I nazionalisti, in special modo, avevano deciso di rendergli la vita difficile. Lo accusavano continuamente di essere «antitaliano», dicevano che i suoi discorsi fornivano argomenti agli uomini politici jugoslavi, e che il suo vero posto sarebbe stato nel parlamento di Belgrado; lo avevano soprannominato «Slavemini».
Anche Il Giornale d'Italia rifletteva questo punto di vista. Chiunque leggesse i resoconti che dei discorsi di Salvemini pubblicava Il Giornale d'Italia, senza conoscerne il testo integrale, giungeva alla conclusione che l'oratore doveva essere impazzito. Il pensiero era alterato in guisa da renderlo incomprensibile. Solo le interruzioni e le apostrofi degli avversari erano accuratamente registrate. Per difendersi contro le distorsioni dell'organo di Sonnino non restò a Salvemini che ripubblicare nell'Unità il testo integrale dei suoi discorsi seguito dal sunto datone dal Giornale d'Italia, perché i lettori giudicassero a quali metodi polemici ricorrevano i redattori del quotidiano romano.
Non passarono tre mesi e Salvemini comprese che il compito per cui era più adatto era piuttosto quello di continuare a fare lo studioso, l'educatore e lo scrittore politico fuori del Parlamento. Ma reagì all'impulso di dare le dimissioni da deputato, pensando ai suoi elettori che lo avevano mandato in Parlamento, e sentì il dovere di rimanere al suo posto fino alla fine della legislatura.
Durante la campagna elettorale Salvemini aveva spiegato ai suoi elettori che non dovevano illudersi dì avere in lui uno «sbrigafaccende» a cui rivolgersi perché prendesse cura dei loro affari privati. Se volevano uno sbrigafaccende avrebbero fatto meglio ad eleggere il suo avversario. Egli era uno studioso, aveva la professione d'insegnante universitario, e non aveva bisogno di fare il deputato. Offrendosi di rappresentarli e di difendere in Parlamento gl'interessi generali del paese e della loro provincia, riteneva di fare e non di chiedere loro un favore. Gli elettori compresero perfettamente l'antifona, e non si rivolsero quasi mai a lui per faccende private. Le rare volte che ciò accadde Salvemini non rispose alle loro lettere.
Salvemini frequentava assiduamente le sedute della Camera, ascoltava attentamente gli oratori, interrogava i ministri e pronunziava dei discorsi accuratamente preparati. Dapprincipio si sforzò di leggere e capire tutti i disegni di legge ed i decreti a cui doveva dare il voto. Ma si accorse subito che si trattava di una fatica sovrumana e si persuase che la massima parte dei deputati non erano informati delle cose su cui erano chiamati a votare.
Fece allora il proponimento di dare voto contrario a tutti i progetti che non aveva avuto tempo di leggere, e di decidere caso per caso sugli altri. Di solito fu all'opposizione sia contro il ministero Nitti che contro quello Giolitti. Una delle poche occasioni in cui dette voto favorevole fu dopo la discussione sul trattato di Rapallo.
Da queste esperienze Salvemini fu indotto a pensare ad una riforma che avrebbe rimediato all'accumularsi dei disegni di legge che i deputati non avevano il tempo di studiare e discutere con calma. Le leggi che il Parlamento approva sono preparate dalla burocrazia centrale. Neppure i ministri hanno il tempo di esaminare con cura tutti i decreti presentati alla loro firma. «I ministri passano, mentre gli alti funzionari dei ministeri restano». Il piano di una riforma parlamentare fu abbozzato nell'Unità e ripreso molti anni dopo nel libro What to do with Italy (1943). Il rimedio sarebbe consistito nel passare «dal centralismo legislativo ed amministrativo ad un regime federalistico, nel procedere dal sistema parlamentare verso un sistema più snodato e più democratico di autonomie locali e di governo diretto» (L'Unità, 1 aprile 1920). Punto primo, il Parlamento centrale avrebbe dovuto occuparsi soltanto di questioni d'interesse nazionale; tutti gli affari di interesse locale avrebbero dovuto essere trasferiti ad assemblee comunali, provinciali o regionali. Punto secondo, neppure tutti i problemi nazionali avrebbero dovuto essere discussi da un unico Parlamento centrale, ma dovevano essere esaminati da vari corpi legislativi, specializzati per gruppi di problemi.
Naturalmente questo piano presupporrebbe un grande interesse da parte dei cittadini verso gli affari pubblici, ma servirebbe a sostituire ad una grande assemblea di valentuomini spesso incompetenti, diversi parlamentini composti di esperti scelti da categorie di elettori direttamente interessati agli affari trattati da ciascun corpo legislativo. E ciò varrebbe sia sul piano nazionale che su quello locale.
Pur riconoscendo che la macchina parlamentare si muoveva male e con difficoltà, Salvemini non si schierò però mai cogli estremisti di destra e sinistra che intendevano distruggerla. Con tutti i suoi difetti, il Parlamento compiva ancora diverse utili funzioni, serviva a rovesciare i ministeri quando un'ondata di malcontento si diffondeva per il paese, gettava luce sugli abusi di potere delle autorità, ed accertava le responsabilità nel caso di disordini nel paese, permettendo la riparazione di alcune ingiustizie.
Il gruppo di combattenti eletti deputati a cui Salvemini apparteneva, chiamato «Gruppo del Rinnovamento», era diviso fra nazionalisti e rinunciatari. I dissensi si manifestarono fin dall'inizio, quando i componenti si riunirono per costituire un gruppo parlamentare e per decidere la linea da seguire. Mentre il gruppo era in seduta, il Consiglio nazionale dei Combattenti fece conoscere ai deputati le sue decisioni, fra cui vi era la richiesta dell'annessione della Dalmazia. Salvemini obiettò di essere stato eletto su un programma antiannessionistico, e che era pronto a dimettersi piuttosto che venir meno al suo impegno. I deputati del «Rinnovamento» continuarono a discutere per due giorni sperando di stancarlo, ma si trovarono di fronte ad un muro. Fu finalmente nominato un comitato di tre persone, Salvemini, Ettore Janni e Paolo Orano, col compito di formulare un ordine del giorno che contenesse il programma del gruppo. Janni appoggiò il punto di vista antiannessionistico, e Orano, benché di tendenze nazionaliste, finì col cedere, sicché l'ordine del giorno espresse la sostanza delle idee di Salvemini.
Quando il 21 dicembre 1919 pronunziò il suo primo discorso alla Camera, Salvemini aveva già compreso di non poter contare sul gruppo del «Rinnovamento» perché appoggiasse una politica estera basata su princìpi di autodecisione in ogni parte d'Europa. Il suo discorso non piacque, difatti, agli altri deputati del «Rinnovamento» che gli fecero le loro rimostranze, senza però chiedergli di dimettersi dal gruppo.
Nel suo discorso Salvemini chiese che tutti i documenti diplomatici dei mesi della neutralità degli anni di guerra e del dopoguerra fossero pubblicati prima che il Parlamento fosse chiamato a discutere i trattati di pace, e raccomandò al governo italiano di prendere l'iniziativa di chiedere la neutralizzazione dell'intero Adriatico, e di aiutare la Germania ad entrare nella Società delle Nazioni su un piede di parità con tutti gli altri Stati. Venendo a parlare dell'incidente di Fiume, Salvemini chiese al Primo ministro Nitti perché non avesse destituito il viceammiraglio Millo in seguito al suo atto sedizioso, e quanta parte di responsabilità per questo dovesse essere attribuita al capo di stato maggiore generale Diaz ed al generale Di Robilant, i cui dipendenti avevano disertato per andare a Fiume insieme con D' Annunzio. Salvemini costrinse la Camera a riflettere sulla gravità di una situazione che minacciava la vita stessa del regime libero dicendo: «Abbiamo il diritto e il dovere di domandare al presidente del Consiglio, ed ai ministri della Marina e della Guerra, se in Italia la sovranità sulla politica estera o interna è esercitata intera dagli organi del governo civile, cioè dal Parlamento e dal governo che ha la fiducia del Parlamento; oppure se siamo in regime di diarchia civile-militare; nel qual regime contro le deliberazioni della Camera e del governo, qualunque esso sia, accettato dalla Camera, esista un diritto di veto da parte degli alti gradi della marina e dell'esercito».
La decisione di Salvemini di dare le dimissioni dal «Gruppo del Rinnovamento» fu finalmente presa due mesi dopo, quando apprese che diversi deputati del gruppo avevano partecipato ad una riunione di parlamentari in cui «aveva prevalso il colore fascista», e dopo un discorso tenuto alla Camera dal presidente del gruppo on. Gasparotto, che fu tutto un'apologia del patto di Londra. Dopo poche settimane anche Antonio De Viti de Marco si dimise dal gruppo per le stesse ragioni.
Nel giugno 1920 il gabinetto Nitti che nonostante l'intelligenza e le buone intenzioni del suo capo non era riuscito a dominare la crisi del dopoguerra fu messo in minoranza e cedette il posto all'ultimo ministero Giolitti. Molti facevano assegnamento sull'abilità parlamentare di Giolitti e se ne ripromettevano un ritorno alla normalità. Viceversa, Giolitti non solo si rivelò incapace anch'egli di superare la crisi, ma ebbe una grande parte di responsabilità nello spianare la via al fascismo. E' vero che il vecchio statista riuscì finalmente a risolvere la questione adriatica, e che pose termine alla paralisi del Parlamento portando dinanzi ad esso un gran numero di disegni di legge perché li discutesse; ma allo stesso tempo, per diminuire la forza del movimento socialista, lasciò mano libera ai fascisti, e permise che essi fossero aiutati dai comandi militari, dalla polizia e dalla magistratura. Giolitti sperava di servirsi del fascismo per indebolire i socialisti, e, raggiunto questo scopo, dì ricondurlo poi nella legalità. Viceversa, mentre alla data della formazione dell'ultimo ministero Giolitti la forza del fascismo era ancora trascurabile, poco più di un anno dopo, quando il vecchio parlamentare lasciò il potere, il movimento era divenuto così aggressivo e potente che i suoi deboli successori si rivelarono affatto incapaci a tenervi testa.
Alla Camera Salvemini ebbe agio di osservare attentamente il suo antico avversario e di ammirarne la grande abilità parlamentare per nulla diminuita dall'età. Nonostante fosse sull'ottantina, Giolitti ascoltava attentamente per lunghe ore tutti gli oratori. Quando si alzava a parlare riusciva a ridurre tutte le questioni ai loro più semplici termini e le esponeva così chiaramente da renderle comprensibili ad uno scolaretto. Pochi lo eguagliavano nelle schermaglie parlamentari; conosceva uno per uno i deputati, si rendeva subito conto degli interessi di cui i singoli si facevano portavoce, anche e specialmente quando cercavano di tenerli celati. Diceva allora poche parole smascherando i riposti motivi di questo o quell'oratore, e provocando l'ilarità generale. Se avesse posseduto la stessa sensibilità che dimostrava per tutto quanto avveniva in Parlamento, per le correnti dell'opinione pubblica nel paese, la sua influenza sarebbe davvero stata irresistibile.
In uno dei suoi migliori discorsi in Parlamento, quello del 2 luglio 1920, nella discussione sul programma del nuovo ministero, Salvemini cercò di spiegare il significato del ritorno al potere di Giolitti. «Cosimo il Vecchio esule a Venezia, interrogato da un amico quando sarebbe tornato a Firenze, rispose: "Ritornerò quando gli errori del partito a me avverso avranno fatto dimenticare gli errori miei"». (L'Unità, 8 luglio 1920). In questa occasione Salvemini espresse la sua fiducia che l'Italia non sarebbe crollata sotto il peso delle difficoltà del dopoguerra, e rivolgendosi al Primo ministro soggiunse: «Oggi c'è un generale accasciamento, e tutti gli spiriti accasciati si stringono a voi, on. Giolitti, sperando da voi salvezza. Io non sono accasciato. Non ho fiducia in voi. Ho la certezza che l'Italia si salverà da sé e non ha bisogno di salvatori. Perciò voterò contro di voi».
Nello stesso discorso Salvemini chiese la ripresa dei negoziati colla Jugoslavia, osservando che la paralisi della politica estera italiana causata dall'eterna questione adriatica era costata al paese dopo l'armistizio 10 miliardi di spese militari straordinarie. Insisté sulla necessità di un compromesso adriatico «liberamente accettato dalle due parti», basato sul diritto della Jugoslavia di ottenere la Dalmazia, sulla neutralizzazione dell'Adriatico e su garanzie bilaterali di un giusto trattamento delle minoranze nazionali. Chiese che si finisse di parlare di «garanzie strategiche» e di pretendere dei tenitori stranieri solo perché un tempo la bandiera del leone di San Marco aveva sventolato su di essi. («Quanto male ha fatto la retorica delle aquile, dei leoni, delle lupe, tutto questo serraglio araldico di bestie feroci!»). Non risparmiò al capo di stato maggiore della marina Thaon di Revel, noto fautore dell'annessione della Dalmazia, e gli applicò le parole del generale napoletano Pianell che diceva di un collega il quale non aveva il senso della realtà: «Chillo è nu gentiluomo che passa cu' a capa dentro alla cruna d'un ago». Avvertì che la pace nell'Adriatico sarebbe rimasta un sogno fino a quando a D'Annunzio a Fiume ed a Millo in Dalmazia fosse Stato consentito di trattare col governo italiano come da potenza a potenza. E ricordò ai deputati i canti minacciosi dei legionari dannunziani :
«Contro la nostra forza nessuna forza vale:
Andremo contro tutti, finanche al Quirinale!
La squadra del Quarnaro, veloce più del vento,
Andrà a gittar le bombe sul nuovo Parlamento!
Il general Badoglio ci ha detto: andiamo a Albona!
E  noi  gli  abbiamo  detto:   andremo fino a Roma!».

Venendo al problema della scuola, Salvemini chiese l'introduzione dell'esame di Stato, in modo che gli insegnanti non esaminassero i loro stessi allievi, e chiese una migliore selezione dei professori ottenuta mediante concorsi nazionali. E domandò pure che non venissero concessi dei sussidi alle scuole private. Con ciò si differenziava dai popolari i quali stavano agitandosi anch'essi per ottenere l'esame di Stato. Per Salvemini l'esame di Stato doveva servire soltanto a garantire che nelle scuole si studiasse sul serio, mentre per i deputati popolari esso doveva servire ad ottenere che gli studenti delle scuole private cattoliche non fossero trattati diversamente da quelli delle scuole statali. E invitò il ministro dell'Istruzione Croce a resistere alle pretese dei popolari.

La discussione sul trattato di San Germano fornì a Salvemini l'occasione per esporre ancora una volta, prima di darvi il suo voto favorevole, le sue idee di politica estera. Il 7 agosto 1920 egli pronunziò un discorso che provocò dei clamori sui banchi dell'estrema destra ed ebbe risonanza nella stampa. «E' lecito... al nostro governo, seguire nella politica internazionale una linea... mazziniana e bissolatiana... Una politica che faccia dell'Italia la sinistra riformista dell' Intesa, mentre la Francia è stata condotta dalla cecità dei suoi governanti a prendere la posizione della destra conservatrice, mentre la catapulta di Lenin funziona da estrema sinistra rivoluzionaria, e l'Inghilterra, come è sua abitudine, funziona da centro».
Quindi Salvemini espose con calma e coraggiosamente le condizioni create a Fiume dalla dittatura dannunziana. «Fiume, o signori, è diventata un centro di disonore e di ridicolo per l'Italia... Lo scontro di Cantrida in cui gli arditi dell'8° battaglione di assalto uccisero quattro carabinieri fu voluto da D'Annunzio. Alla tragedia si unisce la farsa. Il generale Tamaio ha finito un suo discorso colle parole testuali: "D'Annunzio è Dio in terra". Il comando di Fiume è diventato un lupanare. Anche recentemente vi fu una terribile lite fra due amanti del poeta, con grandi urli e strappi di capelli e rotolamenti per terra in una sala del comando. I comandanti delle prime truppe entrate a Fiume hanno abbandonato la città. Tra gli amici che hanno accompagnato il poeta, il capitano Mangano ha rubato 930 mila lire alla cassa... Dalla sottoscrizione per Fiume furono sottratte da Mussolini 480 mila lire per le spese elettorali [vivi commenti]... Lo stesso nome di D'Annunzio è per l'estero causa di discredito per l'Italia. Perché chi conosce bene la lingua italiana può gustare i versi e le prose di D'Annunzio per le veneri della forma: ma per chi non conosce l'italiano, ed ha letto solamente i peggiori romanzi e spesso mal tradotti, D' Annunzio non è che il romanziere delle sfrenatezze sessuali e degli amori incestuosi [commenti, rumori, interruzioni]... D'Annunzio dichiara di non voler più ritornare alla vita normale. "Dopo aver vissuto", egli dice, "belle giornate come queste, come è possibile che mi rimetta in ciabatte e pigiama a scrivere romanzi? Come è possibile dopo aver vissuto questo medio evo?". Ma al popolo italiano non importa nulla del costume con cui il signor D'Annunzio lascerà Fiume. Importa che costui la smetta di compromettere e disonorare l'Italia [vivaci interruzioni del deputato Siciliani. Rumori]». (Vedi il testo del discorso riprodotto nell'Unità, 12 agosto 1920).
Attaccando il poeta che era ancora l'idolo dei più esaltati fra i patrioti italiani, Salvemini correva rischi per la sua incolumità fisica. Vi era, difatti, una congiura del silenzio intorno agli scandali di Fiume. I giornali preferivano tacere per timore di essere accusati di scarso patriottismo, o di reazioni violente da .parte di legionari fiumani. Salvemini si preoccupava che, essendo i fatti di Fiume conosciuti all'estero, la mancanza di critiche in Italia venisse interpretata come inerzia e insensibilità morale. Egli alzò la sua voce perché si sapesse fuori d'Italia che si era avuta nel Parlamento italiano una protesta contro gli eccessi di D'Annunzio.

Non avrebbe mosso quelle accuse se non fosse stato in possesso di prove sicure. Le accuse contro Mussolini erano state fatte dinanzi ad una commissione di giornalisti da due ex redattori del Popolo d'Italia, ed erano state riportate dall'Avanti! e dal Secolo. Poco dopo la spedizione di Fiume, il giornale di New York Il Progresso Italo-Americano raccolse fra gli italiani viventi negli Stati Uniti, un milione di lire per sostenere l'impresa fiumana e inviò la somma a D'Annunzio tramite Mussolini. Mussolini trattenne 480.000 lire per sé e spedì il resto a D'Annunzio, e si servì di quel mezzo milione per pagare degli uomini armati, in ragione di 30 lire al giorno, perché combattessero i socialisti durante la campagna elettorale. Il maggiore Reina che era stato in principio capo di stato maggiore di D'Annunzio, ma si era poi allontanato da Fiume perché indignato di quanto vi avveniva, era presente quando D'Annunzio venne a sapere della bella azione di Mussolini, e raccontò a Salvemini che D'Annunzio ebbe uno scoppio d'indignazione e dette del ladro al futuro duce. Ma dopo un po' di tempo Mussolini e D'Annunzio si riappacificarono, fu nominata una commissione per esaminare la faccenda che trovò, come era da aspettarsi, che i conti tornavano, e l'incidente fu seppellito. Quando Salvemini udì il racconto di Reina, gli chiese di metterlo per iscritto e di firmarlo, cosa che il maggiore fece. Mussolini ebbe quindi la poco piacevole sorpresa di vedere ricordati in Parlamento e riportati dalla stampa dei fatti che sperava fossero stati dimenticati. Se avesse fatto finta di nulla avrebbe confermato implicitamente la verità delle dichiarazioni di Salvemini. Affermando quindi che il suo onore era stato leso, Mussolini nominò suoi padrini Ulderico Mazzolani e Luigi Siciliani, e sfidò a duello Salvemini se non avesse ritrattato le sue accuse.
Salvemini disprezzava Mussolini per la mancanza di scrupoli morali già dimostrata da questi e per la disinvoltura con cui aveva mutato opinioni in politica estera divenendo più nazionalista dei nazionalisti, e non volle dare a Mussolini la soddisfazione di deviare l'attenzione del pubblico dalle accuse portate contro di lui, con un duello. Nominò come suoi secondi il principe Leone Caetani di Sermoneta e il marchese Antonio De Viti de Marco, i quali in due lunghe sedute con i padrini di Mussolini sostennero che la prima cosa da fare era di accertare se le accuse fatte da Salvemini fossero vere o infondate. Aggiunsero che Salvemini era disposto a battersi vere o infondate. Aggiunsero che Salvemini era disposto a battersi solo se le sue accuse fossero state dimostrate false, e che il loro amico lasciava a Mussolini la scelta fra l'azione dinanzi ai tribunali o la nomina di un giurì d'onore per l'accertamento dei fatti. I padrini di Mussolini risposero che l'accusa mossa da Salvemini era già stata giudicata infondata dal lodo della commissione, che essi non vedevano perché Mussolini dovesse assoggettarsi ad una nuova inchiesta, e che quindi aveva il diritto di chiedere riparazione colle armi. I padrini di Salvemini replicarono che le accuse del loro rappresentato erano state fatte sulla base di documenti diversi da quelli esanimati nel lodo favorevole a Mussolini, e che il loro amico era pronto a presentare ai giudici o al giurì dichiarazioni firmate di un testimone oculare concordanti in pieno colle accuse di Salvemini. E' probabile che i padrini di Mussolini informassero il futuro dittatore che 1'avversario aveva in mano delle prove serie; comunque, essi rifiutarono di accettare le proposte di Salvemini e la cosa finì cosi. Per parte sua Mussolini si vendicò attaccando Salvemini sul Popolo d'Italia ed accusandolo di essersi rifiutato di battersi per paura. (Vedi i documenti relativi a questo incidente in L'Unità, 19 agosto 1920).
Anche D'Annunzio, bersaglio di tanti attacchi salveminiani, mandò due dei suoi uomini a dare una lezione allo zelante deputato, ma i due personaggi, dopo aver invano cercato Salvemini al suo indirizzo di Firenze ed a Roma, si stancarono, e non si fecero più vedere.
A prima vista potrebbe sembrare che l'insistenza sui pericoli insiti nell'avventura fiumana fosse esagerata. Ma in seguito si riconobbe che l'impresa fiumana, sotto vari aspetti, era stata un'anticipazione di ciò che si svolse in Italia. In molte cose D'Annunzio fu precursore e maestro di Mussolini. A Fiume il comandante agiva da dittatore, arringava le folle dal balcone del suo palazzo; a Fiume vennero introdotti i canti, il saluto romano, le grida che dovevano poi divenire parte della mistica fascista. Uno studio particolareggiato degli avvenimenti fiumani di quel periodo dimostrerebbe quanta parte della messinscena dannunziana fu utilizzata dai fascisti.
Nell'estate del 1920 era già cominciata la reazione armata dei proprietari terrieri contro le leghe contadine. A Gioia del Colle in uno scambio di fucilate fra proprietari e contadini si erano avuti diversi morti d'ambo le parti. Salvemini parlò alla Camera per esortare il governo ad agire perché non si ripetessero quegli incidenti sanguinosi. In quella occasione la Camera ascoltò una lunga esposizione di tutti i mali che affliggevano la provincia di Bari, centri sovrapopolati, scarsezza di grano, commercio clandestino, stupidità di burocrati, abusi di amministratori locali, malefatte dei prefetti, manipolazioni delle elezioni ed abusi giudiziari. Raramente i deputati avevano ascoltato un discorso più nero. Tutti i tormenti dei poveri contadini del sud trovarono un'eco nelle parole di Salvemini. «Signori, io non parlo con preoccupazioni politiche né elettorali... Parlo per l'affetto che è nato nel mio cuore dai lunghi dolori della mia terra e dallo studio che vi ho dedicato fin da quando ho cominciato a ragionare». Salvemini parlò della denutrizione che rende nevrasteniche le folle. «Le martiri sono le nostre donne che si tolgono il pane dalla bocca per dar da mangiare all'uomo che lavora e al bambino che deve crescere. E difatti abbiamo questo fenomeno: che spesso quelle che danno il segnale nei tumulti, sono le donne; perché sono quelle che soffrono di più, dato che mangiano di meno».
Nelle prime spedizioni punitive dei fascisti Salvemini vide l'estensione a tutt'Italia dei metodi che erano stati prima usati solo nel Mezzogiorno. «O amici del gruppo socialista, tra il 1902 e il 1913, quando io cercavo (ero solo allora!) di richiamare l'attenzione degli uomini di onore e di fede dell'Italia settentrionale e centrale sulle infamie che avvenivano fra di noi, io sentivo molte volte rispondermi: "Queste cose non avvengono fra di noi!". Ed io replicavo: "Badate, se voi lasciate consolidare questo sistema fra di noi, esso si estenderà anche tra voi". I fatti mi hanno dato ragione: gli assalti all'Avanti! di Milano e di Roma, l'assalto alle sedi riunite di Trieste, i fatti di Lodi, provocati dagli arditi inviati da D'Annunzio, i fatti di Torino sono tutti identici alle dolorose storie dell'Italia meridionale. La formula è sempre la stessa: un partito assale l'altro a mano armata, e la forza pubblica lascia fare o interviene solamente quando gli assaliti si difendono per arrestarli». («Pane e Giustìzia in terra di Bari», L'Unità, 16 settembre 1920). Questa era la forma in cui si svolgevano assai di frequente gli scontri tra fascisti e antifascisti. I fatti ricordati da Salvemini furono i primi episodi di una lunga e ininterrotta catena di violenze che per oltre cinque anni insanguinerà le vie e le piazze delle città e dei villaggi italiani.
Fra le realizzazioni positive del gabinetto Giolitti va annoverata la pace adriatica raggiunta colla firma del trattato di Rapallo. La politica difesa dai rinunciatari si era imposta, sia pure in ritardo. Mussolini abbandonò al suo destino D'Annunzio senza troppe proteste. D'Annunzio, dopo aver proclamato in tutti i toni la sua intenzione di apporsi fino all'ultima goccia di sangue, quando si accorse che il governo era seriamente deciso ad usare la forza, lasciò Fiume senza opporre alcuna resistenza. Sebbene Salvemini non fosse tipo da indulgere in manifestazioni di autocompiacimento, dal tono dell'intero discorso trapela un senso di soddisfazione per la chiusura di una dolorosa pagina di storia. «Noi rinunciatari liberi della prima ora... dobbiamo distinguerci dai rinunciatari di quest'ultima ora, che accettano il compromesso di Rapallo, solo perché non sono in grado di perpetuare la contesa... Noi che associamo modestamente 1'opera nostra a quella di Leonida Bissolati, noi fino dal primo prorompere della crisi europea, fin dalle prime ore della stessa neutralità, sentimmo il dovere di stabilire la linea delle nostre aspettative contemperando il diritto nostro e il diritto degli slavi... E oggi accettiamo con coscienza sicura il trattato di Rapallo perché risponde alle nostre aspettative nelle linee fondamentali... Oggi, con due anni di ritardo, giungiamo al porto della pace. Il trattato di Rapallo è la prima vera pace che sia sinora succeduta alla guerra mondiale. Esso è un'opera di saggezza, non solamente perché concilia i diritti nazionali e i bisogni vitali dei due popoli adriatici, ma soprattutto perché è il risultato di liberi accordi diretti... Il trattato di Rapallo è il primo trattato liberamente discusso fra le due parti e liberamente accettato. Esso è anzi qualcosa dì più: può essere il primo passo verso un'alleanza... esso prepara una collaborazione economica e politica la quale potrà fare dell'Italia l'amica e la mediatrice fra gli Stati tutti della regione danubiana e balcanica». E l'avversario di Giolitti non esitò a congratularsi con alcuni ministri, e soprattutto col ministro degli Esteri conte Sforza, perché aveva mostrato di essere uomo di carattere nel resistere alle minacce dei nazionalisti .
Il trattato di Rapallo non attuava tutti i punti del programma salveminiano. Sembrarono a Salvemini imperfezioni e lacune nel testo del trattato: il regime stabilito per la città di Fiume, l'inclusione di oltre 400.000 slavi nei territori assegnati all'Italia, la mancanza di garanzie adeguate alle minoranze nazionali rimaste nei tenitori assegnati sia all'Italia che alla Jugoslavia, e la mancata neutralizzazione dell'intero Adriatico. Ma questi difetti erano più che controbilanciati dalle realizzazioni positive.
Salvemini mise in luce una serie di fatti sgraditi ai nazionalisti, a, cominciare dalle loro false statistiche sul numero degli italiani che abitavano in Dalmazia, all'alterazione da essi fatta delle parole di scrittori del Risorgimento come Mazzini e Tommaseo, per cercar di dimostrare che già questi avevan rivendicato l'italianità della Dalmazia, ed alla fabbricazione di sana pianta di una presunta lettera, di Abramo Lincoln in cui il presidente americano avrebbe mostrato di essere favorevole a quello che sarebbe poi divenuto il programma massimo nazionalista, lettera di cui i nazionalisti intendevano servirsi contro Wilson. Ciò che particolarmente infuriò i nazionalisti furono i racconti delle violenze commesse in due anni in Dalmazia dalle autorità italiane. Vi furono le solite interruzioni e grida dell'estrema destra: «Le vada a dire al Parlamento dì Belgrado queste cose». A cui Salvemini replicò senza scomporsi: «Se fosse necessario andare a Belgrado per dire la verità e denunciare queste cose, sarebbe cattivo segno per il Parlamento italiano e per l'Italia... All'estero queste cose le sanno da un pezzo. Bisogna che le conosca il popolo italiano che avete mistificato».
Fu riferito a Salvemini da Benedetto Croce che, mentre pronunziava il discorso, Giolitti si volse al filosofo che gli sedeva accanto al banco del governo, e gli chiese il nome del deputato che parlava così bene. Croce rispose sorridendo che era 1' autore del Ministro della malavita. «Bel discorso», soggiunse Giolitti, «ma non mi farà guadagnare voti». Il piemontese non era tipo da lasciarsi impressionare dall'oratoria, e sapeva che Salvemini rappresentava se stesso, o, al massimo, un piccolo gruppo di amici.
Il commento del Giornale d'Italia, com'era da attendersi, fu, che per convincere la Camera dei vantaggi del trattato di Rapallo Salvemini aveva sostenuto brillantemente il punto di vista jugoslavo.
L' ultimo discorso tenuto alla Camera da Salvemini fu pronunziato per protestare contro la protezione accordata ai siderurgici, e per proporre la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi.
Durante l'estate del 1920 Salvemini seguì con preoccupazione i progressi del fascismo nella Venezia Giulia, dove, per la prima volta, i fascisti riportarono senza incontrare opposizione una serie di vittorie nei loro assalti contro le sedi di organizzazioni sia slave che socialiste. Ma la svolta decisiva nella crisi sociale del dopoguerra fu rappresentata dall'occupazione delle fabbriche.
Ci sia consentito di ricordare alcuni fatti. Gli operai metallurgici avevano chiesto un aumento di salari che gl'industriali si rifiutarono di accordare. Gli operai ricorsero a forme di ostruzionismo, e gli industriali replicarono ordinando la serrata degli stabilimenti. Ma gli operai si rifiutarono di sgomberare le fabbriche, rimasero ai loro posti di lavoro e continuarono a produrre sotto la direzione dei loro capireparto e dei loro tecnici. Questo movimento coinvolse più di mezzo milione di operai e durò tre settimane.
Giolitti si rifiutò di seguire il consiglio di quanti avrebbero voluto che facesse sgombrare gli stabilimenti colla forza, e nelle trattative fra industriali ed operai prese le parti di questi ultimi. Gl'industriali dovettero cedere, dovettero concedere aumenti di salario, le vacanze pagate e accettarono in linea di principio che gli operai avessero il diritto di partecipare all'organizzazione della produzione. In origine, la controversia era di carattere puramente economico. I socialisti dell'Estrema ed alcuni organizzatori sindacali tentarono di estendere il movimento ad altre categorie dì operai e di dargli carattere politico, ma la loro proposta fu respinta a grande maggioranza nel congresso dei delegati di tutte le organizzazioni operaie del paese. Tuttavia, in quelle tre settimane, le classi medie videro lo spettro della rivoluzione sociale, e pensarono che l'insurrezione potesse scoppiare da un momento all'altro. Gl'industriali sentirono come un affronto intollerabile che le loro fabbriche fossero rimaste in mano agli operai e che il principio della proprietà privata fosse stato violato. Non appena si accorsero che la tento temuta rivoluzione non si sarebbe più verificata, pensarono al modo di limitare la potenza dei sindacati operai che li aveva umiliati. I proprietari di terre della valle padana non nutrivano sentimenti troppo dissimili verso le leghe rosse che avevano diretto scioperi lunghi e vittoriosi per migliorare le condizioni di lavoro dei contadini.
Benché l'occupazione delle fabbriche in sé prese fosse stata, da parte degli operai, una mossa difensiva anziché offensiva essa segnò il punto più alto della marea «rossa» nel dopoguerra. Lo dimostra anche l'atteggiamento di Mussolini, il quale, essendo ancora in dubbio su chi avrebbe riportato la vittoria finale, appoggiò e incoraggiò nel suo giornale gli operai che avevano occupato le fabbriche.
All'epoca delle elezioni amministrative dell'autunno del 1920 lo slancio dei lavoratori è già in declino mentre è in atto la controffensiva delle classi medie.
Giolitti riuscì abilmente a smorzare l'impeto dell'offensiva socialista facendo propria l'idea del controllo operaio sulla produzione avanzata dagli organizzatori operai. Egli fece una manovra simile a quella riuscitagli nel 1911. Allora, proponendo il suffragio universale riuscì ad abbattere il ministero Luzzatti che aveva chiesto un allargamento più moderato del diritto di voto, e potè al tempo stesso indebolire l'opposizione dei socialisti alla campagna di Libia. Questa volta, avendo la Confederazione del Lavoro proposto l'istituzione di Consigli di fabbrica nell'industria metallurgica come condizione per lo sgombero delle fabbriche, Giolitti s'impadronì dell'idea e anzi l'allargò, promettendo di presentare un disegno di legge sul controllo operaio della produzione in tutti i rami dell'industria e non solo in quello metallurgico. Egli si mostrava così di idee più avanzate degli stessi socialisti, mentre in effetti si proponeva dei fini conservatori e mirava a lasciare il controllo effettivo nelle mani degli industriali.

Salvemini notò tutto questo, notò pure che Giolitti favoriva sottomano il fascismo, e non mancò di denunciare i pericoli per il regime libero insiti in questa politica del vecchio statista piemontese. Contrariamente all'opinione di quanti ritenevano che la conclusione della pace fra l'Italia e la Jugoslavia avesse indebolito il fascismo, egli previde che cessato il pericolo di un conflitto colla Jugoslavia, che era servito da freno per molti simpatizzanti fascisti, un gran numero di elementi dei ceti medi sarebbe stato rigettato a destra dalla paura della rivoluzione «verbale» comunista. «Noi vedremo tutte le anime timorose raggruppate sotto la bandiera del fascismo. Al centro di questo gruppo vi sono i grandi industriali i quali appoggiano il movimento fascista con i loro milioni» (L'Unità, 2 dicembre 1920). E precisò così quale fosse la necessità del momento: «E' necessario che in Italia si formi una corrente di opinione pubblica la quale rifiuti ogni solidarietà coi violenti dell'una e dell'altra parte e raccolga tutte le sue forze per esigere che il governo mantenga le condizioni elementari del vivere civile contro tutti: e perciò cominci col mettere a posto i fascisti suoi strumenti, se vuole conquistare il diritto morale di mettere a posto i rivoluzionari suoi nemici» (ibidem). Salvemini fu uno dei pochi che nella confusione di idee che regnava nel 1920 vide chiaramente quel che stava accadendo e cercò, per quanto invano, di mettere in guardia l'opinione pubblica contro una politica che stava scavando la fossa alle istituzioni libere.
Quegli industriali e proprietari di terre i quali, per porre argine al movimento operaio, finanziarono le bande fasciste, mostrarono una cinica indifferenza per la sorte delle libertà democratiche. Ma che dire di uomini politici come Giolitti, o come Bonomi, suo ministro della Guerra, i quali avrebbero dovuto avere una sensibilità politica ben maggiore degli industriali e degli agrari, e che, viceversa, lasciarono fare e lasciarono passare, quando comandanti di reparti militari fornirono armi, autocarri e munizioni ai fascisti? Quegli stessi uomini politici i quali dovevano essere i custodi più gelosi delle libertà politiche permisero che esse venissero brutalmente calpestate. In questa carenza dell'azione governativa, coloro i quali non erano disposti a venire ad alcun compromesso coi fascisti furon costretti a combattere in Parlamento e nel paese in condizioni d'inferiorità una battaglia il cui esito non poteva essere che sfortunato.
Enzo Tagliacozzo







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