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Pietro Adamo

"La prima cosa è dire no!”: Nicola Chiaromonte tra ragione, storia e utopia

Tratto da Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell'altra tradizione, 1, Una Città, 2002

3. Necessità dell’eresia

"È come se, dopo la prima guerra mondiale”, si legge in un appunto dei primissimi Sessanta, "fossimo stati sopraffatti da una realtà cieca e sorda, e avessimo perso fiducia in ogni orientamento intellettuale e forma appresa. Allora si decide che la realtà è questa cosa che non si capisce e non si sente e che bisogna attenersi a questa e diffidare del resto. Così di fatto, si descrive la propria miscredenza, non la realtà”74.
In tale "miscredenza” Chiaromonte identifica il principale avversario di una progettualità antagonistica che non intenda arrendersi al nuovo trionfo della "sacralità” del politico e della ragion di Stato, causa ed effetto della situazione generalizzata di alienazione dei singoli. La soluzione che traspare dagli scritti del direttore di Tempo presente -rifondazione dell’utopia come metodo critico, recupero di nuove modalità di associazione diretta in chiave di "separazione” dalla società corrotta, rifiuto della violenza (politica e non)- mostra un orientamento completamente antitetico agli stilemi dell’antagonismo tradizionale della sinistra "storica” (e uso il termine sia nell’accezione storiografica sia in quella epistemica): alla fin fine, si tratta di una strategia che mira in primo luogo alla "sopravvivenza” dei singoli e in secondo alla "sovversione” (nel senso di incisione diretta sulle pratiche riassumibili nella politica "reale”).
Come abbiamo già visto, Chiaromonte aveva scorto nella convergenza tra l’accettazione del principio della forza da parte dell’uomo-massa, da un lato, e l’attività rivoluzionaria segnata dal dogmatismo intellettuale e dalla fiducia apocalittica nella Storia, dall’altro, i prodromi della "rinascita del sacro dalle latebre della convivenza umana”75. Questa istanza di sacralizzazione, che si concretava soprattutto nella sfera del politico con la celebrazione dello Stato moderno come unico ente in grado di armonizzare obiettivi "realistici” e forza necessaria per raggiungerli, si rivela centrale per comprendere non solo le modalità di esercizio dell’autorità, ma anche la "questione del nostro modo di vita o meglio, del modo in cui ci lasciamo vivere”. "Non è possibile”, continua Chiaromonte andando alla radice del problema, "separare questa aspetto della questione da quella del funzionamento dell’apparecchio statale e della mentalità dei governanti”76. In altri termini, l’azione antagonista deve puntare in primo luogo a spezzare il circolo vizioso che lega il culto sacrale della Forza e dello Stato alla pratica e alle credenze sociali. Una funzione che Chiaromonte, da sempre legato a una visione gobettiana del ruolo dell’élite e a una visione culturalistica dell’interazione società/politica, riserva agli intellettuali, agli uomini di "pensiero”, cui spetta il compito eminentemente sociale di immaginare alternative che spezzino l’ordine consolidato delle cose: dovremmo, scrive Chiaromonte pensando anche a se stesso e a Tempo presente, fare i realisti da un punto di vista immaginario […], cercare di essere immaginativi e obiettivi insieme: di arrivare, cioè, a un’immagine quanto più possibile significante viva e netta degli eventi così come noi li vediamo e subiamo dal nostro punto di vista, di vittime designate, non da quello fittizio di visione o possibile dottrina globale e sovrana. Un’immagine drammatica, che esprima in qualche modo l’elemento del conflitto e della tensione proprio degli avvenimenti reali77.
Gli strumenti per pensare tale "immagine drammatica” vengono tratti dalla lezione del socialismo libertario, anarchico e pacifista. È questo il senso in cui Chiaromonte ridisegna la genealogia del pensiero politico occidentale (l’"altra Europa” cui accennava Mary McCarthy), costruendo una linea di sviluppo che va da Pierre-Joseph Proudhon a Lev Tolstoj, da Georges Gurvitch a Simone Weil sino ad Andrea Caffi, e che è alternativa alla sacralizzazione della Storia e della Politica implicita non solo nelle filosofie conservatrici, ma anche -elemento ben più rilevante- in quelle della sinistra marxista e costruttivista. La rubrica Ancestors di politics, insieme ai diversi pensatori particolarmente valorizzati dalla rivista, costituisce una prima indicazione di come Macdonald e Chiaromonte immaginavano tale tradizione: non solo personaggi della più consolidata tradizione anarchica (Godwin, Proudhon, Tolstoj) e "compagni di strada” più o meno noti (Herzen, Tucholsky), ma anche scrittori capaci di rivelare il lato oscuro della modernità come Tocqueville e Weber. Ovviamente, si tratta di indicazioni e interpretazioni che restano sul piano di suggerimenti, piuttosto che di analisi vere e proprie: né Macdonald né Chiaromonte hanno in seguito tentato di ricostruire un vero e proprio canone libertario78, anche se non hanno mancato di fornire, esplicitamente o implicitamente, indizi significativi79.
Comunque, se all’epoca di politics, quando una concreta terza via sembrava ancora immaginabile, Chiaromonte insisteva sulle caratteristiche specificamente socialiste della "società migliore” cui miravano i libertari, in seguito insisterà soprattutto sulla questione di metodo, anteponendo a qualsivoglia suggerimento tattico fornito da un’interpretazione "pragmatica” e "realistica” della Storia la consapevolezza che solo una "norma” chiara e precisa -per esempio, quella di "dignità umana, che è a fondamento della giustizia secondo Proudhon”, scrive nella "confutazione” di Caillois che qui presentiamo- indichi con chiarezza le linee d’azione coerenti. A Caffi proporrà infatti di rinunciare del tutto al successo nella Storia come metro di giudizio delle iniziative politiche: "Mi arrischierei a proporre che si adotti come principio la nozione che la ‘verità non può essere figlia del tempo’, e se ne tragga la regola di escludere l’elemento ‘temporale’ da ogni giudizio sul vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’utile e l’inutile”80.
L’argomentazione di Chiaromonte non è una rinuncia a fare i conti con la realtà e con il "fatto sociale”, né è una condanna massimalistica del gradualismo: al contrario, impostare in tal modo i termini dell’iniziativa sociale e politica significherebbe evitare ogni tentazione di escatologia rivoluzionaria e liberarsi nel contempo di quella propensione al compromesso che, in virtù della valutazione spregiudicata dei risultati raggiungibili "realisticamente”, acceca la possibile strategia complessiva del riformismo. La sua avversione per la sinistra socialdemocratica si riflette perciò in un giudizio lungimirante, che anticipa in sostanza la situazione odierna. Poiché "le sinistre nel loro complesso non hanno mai capito (né mai riesaminato) il totalitarismo fascista né quello bolscevico”, non hanno mai compreso davvero la natura della crisi della politica e si sono arenate nell’accettazione del "dato” dalla Storia,
riassumendo la loro azione nel barcamenarsi tra l’uno e l’altro idolo del passato (Stato burocratico, nazionale, volontà popolare, masse, potere più o meno giacobino, socialismo di Stato e insieme -non si sa come- democratico e antiautoritario, e via discorrendo), nel barcamenarsi, dunque, tra questi idoli, senza più credere veramente a nessuno di essi, e tuttavia pensando di far buona politica col non abiurarne pubblicamente nessuno81.
I rischi di un simile atteggiamento non sono puramente teorici: "La scienza politica degli italici è da temere”, scrive in Tempo presente nel 1962, "consiste ancora tutta nello studio delle forze e delle opportunità. Perciò appunto la libertà degli italici è cosa precaria, che, capitata come per caso, come per caso può sparire”82. Porre in termini chiari la questione dei principi non significa quindi anteporre una strategia massimalistica a una riformista: porre in termini chiari il primato dell’etica come metodo -ovvero un metodo che non transiga né sui principi né sulla relazione tra fini e mezzi- vuol dire costruire una base salda e sicura per un’azione di sinistra che abbia senso. E nel contesto dell’Occidente ciò implica un atto di coraggio, ovvero saper privilegiare la funzione euristica dell’utopia. Ripetutamente Chiaromonte indica nell’accettazione della logica dell’utopia come metodo regolativo la linea d’azione che meglio permette di conciliare principi e azione: "La sfida implicata nella parola ‘utopia’ sarà infatti raccolta fino alle sue estreme conseguenze”, aveva scritto in politics ancora nel 1946, spiegando, come abbiamo visto, che se ciò significava cadere sul terreno dell’utopia tanto aborrito dai marxisti, era allora necessario ammettere "che non esiste altra forma di socialismo che quella utopica”83.
Ovviamente l’"utopia” cui fa riferimento Chiaromonte è agli antipodi di quella di chi spera concretamente di realizzare il paradiso in Terra, con l’abolizione delle classi, della proprietà e quant’altro. Nella già citata lettera a Caffi spiega di essere "molto favorevole alle utopie -ma alla utopie che si dichiarano tali: forme ideali e modelli ‘senza obbligo né sanzioni’”, distinguendo il suo dall’utopismo dell’attivista "rivoluzionario” o "nichilista” che si affida "alla nozione più contraddittoria di tutte”, ovvero che l’"idea” sia pensata per realizzarsi, il che contrasta sia "con l’esperienza che si ha della natura della realtà” sia con "l’essenza propria di ogni costruzione ideale”. Al contrario, l’utopia ha funzione euristica, di misura, di metro di giudizio, di ideale regolativo: "Chiederle di tradursi in atti, equivarrebbe esattamente a chiedersi a una statua di muoversi”84. La concezione della funzione dell’utopia di Chiaromonte è ulteriormente chiarita nel saggio "Il realista e l’utopista”, in cui le due posizioni sono comparate tra loro. In politica il realismo che pretende di aver scoperto "il segreto del reale” si riduce, attraverso l’appello alla Storia e quindi alla Forza, a null’altro che "alla ragion di Stato e all’interesse del principe”, trasformandosi di fatto in idolatria del potere85. In fondo è esattamente questa l’accusa che Chiaromonte rivolge alla sinistra del compromesso come a quella della rivoluzione: sposare in sostanza le ragioni del potere, accettandone la logica così come esse si presentano nella Storia, avviandosi su una strada che conduce al "terrore”, che si presenta come "esercizio il più rigoroso possibile del potere” e che proprio per questo motivo è "un’idea implicita nella mentalità giacobina come in quella bolscevica”86. Al contrario l’utopista, consapevole della natura ultima del reale, ritiene dubbio che la relazione dell’uomo con il mondo possa essere risolta con la semplice tecnica: "La questione dei mezzi e dei fini -la questione dell’azione- non può ridursi a una questione puramente obbiettiva e tecnica, perché nessun uomo, per quanto altolocato, può mai pretendere si agire sul reale, ma agisce sempre e soltanto nel reale, in mezzo al brulicare infinitesimo delle azioni e reazioni umane”. In un certo senso Chiaromonte costruisce l’antitesi tra il "realista” e l’"utopista” sottolineando il tratto "utopico” (nel senso tradizionale) del primo, che tenta di imporre ordine a una realtà indomabile e indecifrabile, e quello "pragmatico” del secondo, che accetta i limiti delle possibilità di conoscenza e di azione degli esseri umani in società, nonché l’esistenza di quell’"elemento di incertezza, d’imprevedibilità e di non misurabilità” intrinseco alla natura umana: è per questo che "l’uomo non può non introdurre nella politica l’elemento ‘utopico’ a lui connaturato”, che corrisponde al suo "essere composto di sentimenti, aspirazioni, sogni, idee e ideali non meno che di carne e d’ossa”87.
Il ricorso all’utopia -ovvero il rifiuto di dare per scontate le ragioni del "realista”- si configura quindi come valorizzazione dell’immaginazione, come euristica della speculazione alternativa e come metodo gradualistico di costruzione della società libera. È in questo senso che Chiaromonte rilegge il Proudhon di Gurvitch, riscoperto tra gli anni Venti e Trenta come alternativa socialista e libertaria al marxismo: come il campione dell’"utopia” contro il "realismo”, come il "pensatore che, credendo nella verità, si sente libero di mettere in discussione tutto ciò che sia anche vero”, convinto che "le soluzioni pratiche possano essere solo parziali e l’essenza del problema sociale sia proprio nel suo restare aperto” e che quindi tale problema "deve sempre e comunque essere lasciato aperto attraverso le vicissitudini della storia”88. In Proudhon Chiaromonte vede l’archetipo dell’intellettuale responsabile, che usa l’utopia come un’euristica per "aprire” la società di contro ai progetti di "chiusura” del realista: "Solo la possibilità dell’utopia”, scrive in un appunto,
il non vedere la realtà in termini "realistici”, crea una situazione tale per cui l’individuo, e il filosofo, si sentono impegnati nella realtà sociale, condotti, cioè, ad accettare la situazione contraddittoria per cui sperano di ottenere la realizzazione di un ideale non tanto venendo a compromesso con la realtà (diminuendola perciò o alterando del tutto l’esigenza ideale), quanto compiendo un "atto di fede” nella "ragione collettiva” pur sapendo che questa non è ragione ma media statistica d’interessi, ovvero semplice stato d’emozione89.
Ed è proprio nella seconda metà degli anni Sessanta che le ragioni di Chiaromonte riprendono con chiarezza la strategia anarchica fondata sui "piccoli gruppi” e sull’"azione periferica” del Monteverdi mccarthyano. Il tema era emerso con prepotenza nelle discussioni sulle New Roads ai tempi di politics. Qui le suggestioni provenienti dalla visione camusiana della democrazia cosmopolita e dalla concezione caffiana di un "moltiplicarsi di gruppi d’amici partecipi delle medesime ansie e uniti dal rispetto per i medesimi valori” che abbiano lo scopo di "trasformare i modi di pensare e i costumi piuttosto che le cose” si fusero con le istanze provenienti dalla tradizione libertaria americana90, testimoniate dai contributi alla serie New Roads dei due più influenti "anarchici” di politics. Macdonald propose di "ridurre l’azione politica a un livello modesto, non pretenzioso, personale”, partendo "nuovamente dal basso, con piccoli gruppi di individui in vari paesi, raggruppati intorno ad alcuni principi e sentimenti che condividono”; i membri di tali gruppi -"anzi, famiglie”- "vivono e si guadagnano da vivere nel mondo di tutti i giorni, ma si radunano abbastanza spesso e abbastanza intimamente da formare una comunità psicologica (di contro a una geografica)”. Il fine di tali "famiglie” sarebbe duplice: da un lato porterebbe a una crescita dei membri attraverso il confronto, la partecipazione e la convivenza, e dall’altro condurrebbe, rispetto al "mondo esterno”, a intraprendere "azioni insieme” per "sostenere quegli individui, siano o no membri del gruppo, che difendono gli ideali comuni” e a "predicare quegli ideali -o, se preferite, fare propaganda- con parole e azioni nei vari contatti quotidiani del gruppo con gli altri uomini (per esempio, riunioni di sindacato, associazioni padri-figli, comitati per "cause degne”, feste, eccetera)”91.
Nel suo contributo Paul Goodman sostenne, di contro ai programmi rivoluzionari della sinistra marxista statalista/burocratica e all’affermazione della Sociolatria (ovvero l’accettazione delle istituzioni sociali esistenti da parte della massa degli "alienati”), la necessità di "tracciare la linea -in piccoli gruppi- e cominciare immediatamente un’azione che soddisfacesse direttamente la nostra natura profonda”. Era necessario che lo sforzo fosse immediato e diventasse sempre più autonomo, "senza ricorso a decisioni di partiti o sindacati lontani”; che i "gruppi fossero piccoli, perché il mutuo appoggio costituisce la nostra natura condivisa soprattutto rispetto a quelli con cui ci troviamo faccia a faccia”; non bisognava sviluppare l’azione da "utopisti” che guardino "a una futura sistemazione”, ma, per così dire, da "millenaristi” che mirino a "soluzioni fraterne nell’oggi, incorporando sempre più le funzioni sociali nella nostra società libera”. Anche Goodman dava come principale indicazione pratica "l’iniziativa politica diretta” dei "piccoli gruppi” nei "problemi comunitari che ci riguardano direttamente (le abitazioni, la pianificazione urbanistica, l’istruzione, eccetera)”92. I due proponevano, in sostanza, un’ipotesi di militanza fondata sul rifiuto del confronto violento con le istituzioni e su una "secessione” politico-sociale che costituisse gradualmente una nuova società libera.
È probabile che proprio il contesto degli anni Sessanta abbia avuto una funzione importante nello spingere nuovamente la riflessione di Chiaromonte sui binari degli anni di politics. Sempre sospettoso verso le agitazioni studentesche d’Occidente, verso quella "ragazzaglia che al primo pretesto, invece di andare a scuola, corre per le strade delle nostre città vociando, lanciando sassi e imbrattando i muri” (scriveva già nel 1956)93, le sollevazioni giovanili americane prima e quelle europee poi lo preoccuparono notevolmente. In una serie di interventi e articoli94 Chiaromonte stigmatizzò con forza l’orientamento e le propensioni degli studenti, spesso ricordando i giudizi negativi dell’amico Paul Goodman: nelle varie idolatrie per Guevara, Castro o Mao, nelle pratiche di guerriglia e nelle dichiarazioni programmatiche dei vari leader (per esempio Daniel Cohn-Bendit), Chiaromonte rintracciava "il culto della potenza e della violenza che si diffonde, sotto specie di ‘nuova sinistra’. E con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea, cominciato nel 1914, si chiude”95. L’idea che l’azione politica possa basarsi principalmente "sul fervore di diciottenni e ventenni”, cui sottoscriveva lo stesso Goodman, era sbagliata: "Una cosa simile non s’è mai vista, e quando s’è vista (sotto il fascismo), non era una cosa raccomandabile”96. Di qui -ovvero in chiave anti-’68- l’enfasi sul pacifismo e la non violenza, strumenti essi sì adeguati alla costruzione di una società libera. Chiaromonte costruisce i presupposti per una pratica su ampia scala della non-violenza, argomento sul quale aveva riflettuto soprattutto negli anni Quaranta, negli ambienti anarco-pacifisti di politics, su fondamenti completamente nuovi rispetto a quelli tradizionali. A partire da una riflessione sulle idee di Tolstoj, il direttore di Tempo presente illustra le motivazioni per cui la "non resistenza” si dimostra debole sia sul piano prettamente etico -ipotizzando una "conversione radicale” dell’umanità a valori che non sembrano particolarmente rispondenti alla sua "natura”- sia sul piano pratico - restando appunto un’istanza morale, di contro alla violenza organizzata dello Stato. Il suo senso sarà quindi essenzialmente simbolico: la pratica della non resistenza diventa segno tangibile della differenza di chi la adotta, di uno stile di vita alternativo, che non riconosce legittimità né al male né all’ingiustizia, "ma anzi [si] separa […] visibilmente dall’uno e dall’altra”. La non violenza risulta quindi fallimentare sia come "principio universale astratto” sia come "metodo d’azione” politica tradizionale, ma si rivela utile come segno di demarcazione tra differenti modalità di intendere l’interazione tra gli esseri umani, dando respiro a un modo di vita "che non si esprime in messaggi salvifici né in catechismi né in manifesti politici, ma consiste nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vero e vale”97.
Il termine chiave dell’argomentazione di Chiaromonte è "separazione” ed è un termine che riassume al fondo l’intera sua filosofia politica della maturità. "Dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno”, scriveva nell’epilogo di "La situazioni di massa”98, illustrando una strategia complessiva di "sottrazione” di uomini-massa alla macchina di cui fanno parte, che passa per i rapporti personali, per la comunicazione privata, per la costituzione di società/associazioni alternative. La sfiducia di Chiaromonte per l’organizzazione delle masse nel senso usuale della sinistra, già elemento delle sue prime elaborazioni degli anni Trenta sulla natura dei sistemi totalitari, tocca il culmine alla fine degli anni Sessanta, quando appunto le "masse” si mettono in movimento: "La massa in tumulto non ragiona mai, né può mai avere ragione: è un’esplosione e basta”99.
L’alternativa è forse di basso profilo e rimanda direttamente alla tattica di "separazione” dal corpo della società elaborata negli anni Quaranta dagli anarchici di politics, a sua volta mediata dalla tradizione libertaria americana, gradualista e avversa all’esercizio della violenza politica. Chiaromonte ritorna sul concetto caffiano di "società”, intesa come associazione tra individui eguali fondata su vincoli liberi, spontanei e volontari100. È su questa base che si costituisce il vincolo sociale: "È infatti l’accordo naturale e ragionevole fra individui liberi, che forma e mantiene il tessuto sociale, non l’organizzazione nel senso tecnico e militare che forma attualmente oggetto universale di culto”. La società di massa, tuttavia, è costruita sulla "situazione antisociale di una collettività in cui la nascita di un legame sociale vero e proprio -quello che Aristotele chiamava philía- è costantemente impedito”101. Ma, ed è qui che il pensiero di Chiaromonte comincia a virare verso il polo costruttivo nella stessa società di massa abbiamo minoranze decisive, contraddistinte dal diritto di rifiuto, "il più naturale ed elementare dei diritti dell’uomo”, che "significa insistere a mantenere lontano ed estraneo ciò che ci si vorrebbe imporre per pura forza di cose o di costrizione”. Per quanto infime, tali minoranze sono formate da individui che si oppongono "veramente alla meccanizzazione della vita sociale”. È sul potenziamento di tali associazioni, o fràtrie, che possono essere costruite le fondamenta di uno stile di vita alternativo, ovvero di uno stile di vita "eretico”, nel senso di uno stile che rifiuti l’ideologia della "violenza efficace” che unisce destra e sinistra e che le rende, da questo punto di vista, pressoché "indistinguibili”: una fràtria che sappia prendere atto "una volta per tutte” di due idee "ingannevol[i]”, quella per cui nelle società avanzate esiste "una maggioranza favorevole alla libertà, all’eguaglianza e alla fratellanza” e quella per cui è possibile "mobilitare per la giustizia e la libertà la forza delle masse”102.
Solo l’adozione di tale prospettiva potrebbe forse rivelare, scrive Chiaromonte richiamando le idee dell’amato Caffi, un qualche senso nella Storia:
È infatti nel permanere di tali rapporti "che hanno almeno l’apparenza della libertà” attraverso le tormente della storia, nella loro capacità di resistere e sussistere malgrado le violenze, le deformazioni e gli stenti cui le assoggetta la volontà di potenza, nel loro riaffermarsi e dare frutto non appena le circostanze si facciano meno avverse, è in questa alterna e sempre tragica vicenda dell’ "umana compagnia”, che Caffi scorgeva l’unico "senso” intelligibile della Storia103.
La proposta punta a recuperare una versione laica e ragionevole dell’ethos radicale e del criterio di "cittadinanza” andati perduti nella "crisi” del moderno e nella vittoria dello Stato fondato sulla "potenza”. Una proposta che assume senso concreto nella ripresa dell’ipotesi secessionista e gradualista che avevano formulato Macdonald e Goodman ai tempi di politics:
Il rimedio, in verità, se c’è è altrove. E a molto lunga scadenza. Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio: da uno stato di cose, giacché "società” implica comunanza e ragione, che sono precisamente quello che manca, oggi, nella vita collettiva) […]. Da questa società -da questo stato di cose- bisogna separarsi, compiere atto pieno di eresia. E separarsi tranquillamente, senza urla né tumulti, anzi in silenzio e in segreto; non da soli, ma in gruppi, in "società” autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica, nella quale ognuno apprenda anzitutto a governare se stesso e a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di per sé il più semplice e rigoroso dei principi morali, e sempre per natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria e la fame di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe assentarsi né dalla vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio104.
In tali associazioni libere e spontanee che si separano, per lo meno esistenzialmente e senza esercizio di violenza, dallo Stato moderno e dalle istituzioni che lo compongono, riproponendo il valore della cittadinanza in cerchie più strette e limitate, si può ritrovare il senso forte di un’esperienza di eresia che si proponga come modello, ovvero come "utopia” che assume forma strettamente euristica:
Importa essere eretici, oggi, separati dalla massa, chiusi in cerchie ben definite e tenute insieme da idee e interessi comuni. Il rapporto di queste cerchie o gruppi con la società "in genere” e lo Stato dev’essere di distanza, di partecipazione minima, di scepsi e critica ma non di rivolta. Perché lo scopo di tali "frátrie” è di ricostituire società giuste, anzi di ricostruire dalle fondamenta una società, sic et simpliciter. Tali "frátrie” hanno quindi, per cominciare, il compito di stimolare la società a passare dalla politica intesa come realizzazione di un assoluto Bene alla morale come misura e limite dell’azione politica, nonché come distanza da mantenere continuamente fra l’idea di comportarsi con giustizia verso gli altri e l’azione politica come mezzo per la realizzazione di una giustizia obiettiva impossibile105.
Sottrarsi quindi alle lusinghe della macchina, ma anche delle ideologie prese nelle spire della "potenza” e della "politica”, separandosi dalla "massa” e proponendosi come esempio di stile di vita alternativo. Le indicazioni di Chiaromonte, qui nella più pura incarnazione del Monteverdi mccarthyiano, sembrano costituire, nella loro conclamata "utopia” e nel loro conclamato gradualismo, un punto di partenza "sano” dal punto di vista etico per "la ricostruzione della società devastata dalla forza”:
Di fronte alla violenza del potere organizzato, oggi, la prima cosa è dire "no”, e ritrovarsi con i pochi (inevitabilmente pochi) pronti a dire "no” e a resistere; la seconda è cercare i modi della resistenza nella direzione del rifiuto d’obbedienza, della resistenza passiva, del sabotaggio silenzioso, e non sul terreno della violenza, sul quale si è certi di essere sconfitti: la terza, infine, è di non cercare il successo rapido e vistoso, ma sapersi ritirare nell’ombra e preparare lentamente il momento in cui, come diceva Proudhon, "le pietre si solleveranno da sole”106.

74 CR, p. 174.
75 N.C., "Riflessioni su una crisi”, cit., p. 267.
76 CR, p. 190.
77 N.C., "Riflessioni su una crisi”, cit., p. 265.
78 Due storici che hanno analizzato politics nel quadro dell’evoluzione del radicalismo americano che ha condotto alla New Left hanno entrambi notato la mancanza di riferimenti alla tradizione antagonista indigena: "In retrospettiva”, ha scritto Richard King, "è parecchio sorprendente il fallimento degli intellettuali di politics di usare intellettuali americani e la tradizione intellettuale americana dell’anarchismo e del comunitarismo”, mentre Gregory Sumner ha lamentato soprattutto il disinteresse per "la ricca vena del pragmatismo americano” (R. King, The Party of Eros. Radical Social Thought in the Realm of Freedom, 1972, Dell, New York 1973, p. 43; G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., p. 126). Michael Veysey, alla ricerca di uno specifico "radicalismo culturale americano”, ha colto la mancanza di precise conoscenze "storiche” da parte del cosmopolita Macdonald ("Una volta gli ho chiesto se avesse mai sentito parlare di Voltairine de Cleyre e lui mi ha risposto di no”), identificando abbastanza correttamente una soluzione di continuità nella tradizione libertaria americana: "Agli inizi degli anni Quaranta un nuovo gruppo di intellettuali pacifisti, che avevano pochi contatti con i sopravvissuti del movimento ortodosso, hanno riscoperto autonomamente l’anarchismo” (L. Veysey, The Communal Experience. Anarchist and Mystical Communities in Twentieth-Century America, 1973, The University of Chicago Press, Chicago-London 1978, p. 37). Tuttavia, sembra chiaro che il riferimento culturale più ampio dei libertari di politics era quella tradizione indigena gradualistica e secessionistica che aveva anticipato la condanna delle tendenze comunistiche della sinistra (comprese quelle anarchiche) come espressioni di una volontà totalitaria e che si riconosceva in una versione individualistica dell’anarchismo: una tradizione collegata ai nomi di Josiah Warren, Lysander Spooner e Benjamin Tucker (vedi P. Adamo, "Anarco-individualismo”, Bollettino di filosofia politica, VI, n. 12-13, gennaio-dicembre 1995). Non è certo sorprendente che, al di là di qualche citazione di maniera (soprattutto di Kropotkin), in politics non si dia spazio alcuno alle diverse varianti dell’anarco-comunismo. Si veda anche la nota successiva.
79 Su Chiaromonte si veda oltre. Macdonald si è spesso dichiarato anarchico, per esempio nella celebre conferenza newyorkese del giugno 1960 alla prima riunione della Students for a Democratic Society, intitolata The Relevance of Anarchism, in cui si presentò come "anarchico conservatore” echeggiando l’analoga presa di posizione di Paul Goodman (M. Wreszin, A Rebel, p. 544; sull’autodefinizione di Goodman si veda "Appunti di un conservatore neolitico”, tr. it. in P. Goodman, Individuo e comunità, a cura di P. Adamo, Elèuthera, Milano 1995, pp. 87-108). Un’altra importante dichiarazione di Macdonald si trova nell’introduzione scritta nel 1957 per il suo Memoirs of a Revolutionist: "È strano che l’anarchismo non abbia messo radici negli anni Trenta, tenendo presente (1) il temperamento americano, senza legge e individualistico, (2) la tradizione anarchica americana, da Benjamin Tucker ai Wobblies e (3) che l’anarchismo ha fornito una risposta al vero problema moderno, l’invadenza dello Stato, migliore di quella fornita dal marxismo, che era rivoluzionario solo a riguardo della proprietà privata (oggi non più un problema reale) ed era totalmente reazionario sulla questione dello Stato. […] Oggi l’alternativa rivoluzionaria allo status quo non è la collettivizzazione della proprietà sotto l’amministrazione di uno ‘stato operaio’ (qualsiasi cosa ciò possa significare), ma una qualche sorta di decentramento anarchico che spezzerà la società di massa in piccole comunità, dove gli individui potranno vivere insieme come variegati esseri umani invece che come unità impersonali nella somma della massa” (D. Macdonald, "Introduction: Politics Past”, in Memoirs of a Revolutionist, Farrah, Straus and Cudahy, New York 1957, pp. 3-31, citaz. p. 28, nota).
80 N.C., "Lettera ad Andrea Caffi”, cit., pp. 104-105. Anche in questo caso si registra una significativa convergenza con Dwight Macdonald, che nel suo intervento nella rubrica New Roads aveva affermato che i valori erano "assoluti in due sensi”, ovvero che "sono fini in sé” e che "hanno un elemento che non è storicamente relativo”; lo stesso Chiaromonte ebbe comunque da ridire, ma più per la forma perentoria delle dichiarazioni che non per la loro sostanza "antistorica” (D. Macdonald, The Root Is Man, pubblicato in origine in politics, april e july 1946, ora ristampato in volume presso Autonomedia, New York 1995, p. 104; G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., pp. 157-158).
81 N.C., "La disfatta francese”, Tempo presente, luglio 1968, pp. 4-6, citaz. p. 5.
82 N.C., "La politica è forza”, Tempo presente, settembre-ottobre 1962, nella Gazzetta, p. 739.
83 N.C., "Sul socialismo scientifico”, cit., p. 168.
84 N.C., "Lettera ad Andrea Caffi”, cit., pp. 107-108.
85 N.C., "Il realista e l’utopista”, cit., p. 283.
86 CR, pp. 221-222.
87 N.C., "Il realista e l’utopista”, cit., pp. 279-280.
88 N.C., "P.J. Proudhon: un pensatore scomodo”, politics, january 1946 (con il titolo "P.J. Proudhon: An Uncomfortable Thinker”), ora in SP, pp. 125-132, citaz. pp. 131-132. Secondo Richard King, Proudhon fu "la prima scelta naturale per la serie degli Ancestors” (R. King, The Party of Eros, cit., p. 34).
89 CR, p. 211.
90 A. Caffi, "Critica della violenza”, ora in A. Caffi, Critica della violenza, Bompiani, Milano 1966, pp. 77-104, citaz. pp. 103-104 (pubblicato in forma abbreviata con il titolo "Violence and Sociability” in politics, january 1947). Nella sua analisi della strategia dei "piccoli gruppi” Sumner sembra trascurare la presenza di tale rilevante tradizione americana (Dwight Macdonald, cit., pp. 199-203).
91 D. Macdonald, The Root Is Man, cit., pp. 136-137.
92 P. Goodman, "Revolution, Sociolatry, and War”, politics, december 1945, ora in P. Goodman, Drawing the Line. The Political Essays of Paul Goodman, a cura di T. Stoehr, Dutton, New York 1979, pp. 25-35, citaz. pp. 31-32. Sia concesso il rimando a P. Adamo, "L’anarchismo ‘riformista’ di Paul Goodman”, introduzione a P. Goodman, Individuo e comunità, cit., pp. 7-55.
93 N.C., "Perfezione di un simbolo”, Tempo presente, novembre 1956, nella Gazzetta, p. 671.
94 "Gioventù indocile”, Tempo presente, aprile 1965, pp. 2-5; "Lettera da New York”, Tempo presente, gennaio 1967, pp. 39-44; "I giovani e la politica”, Tempo presente, febbraio 1967, pp. 2-4; "La nuova sinistra”, Tempo presente, settembre-ottobre 1967, pp. 2-4; "A lume di ragione”, Tempo presente, marzo-aprile 1968, pp. 16-23; "La rivolta degli studenti”, Tempo presente, marzo-aprile 1968, ora in SP, pp. 143-148.
95 N.C., "La nuova sinistra”, cit., p. 4. Marino Sinibaldi ("Eretici, bisogna essere. Nicola Chiaromonte, i ‘giovani ammutinati’, il ‘68”, in L’eredità di Tempo presente, cit., pp. 113-121) ha illustrato i motivi di fondo della collisione tra Chiaromonte e il ’68, sfumando forse troppo l’inveterata avversione chiaromontiana -ché proprio di questo si tratta- per i movimenti giovanili ipnotizzati da una mitologia "progressista” e marxisteggiante.
96 N.C., "Lettera da New York”, cit., p. 44.
97 N.C., "Violenza e non violenza”, Tempo presente, agosto 1968, ora in SP, 299-314, citaz. pp. 308, 310, 314.
98 N.C., "La situazione di massa e i valori nobili”, cit., p. 257.
99 N.C., "La rivolta degli studenti”, cit., p. 147.
100 "Conveniamo anzitutto di chiamare ‘società’ l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni, nelle loro durata e nella loro rottura” (A. Caffi, "Critica della violenza”, cit., p. 86).
101 N.C., E. Zolla, "Discussione. Massa e valori di cultura”, cit., p. 667; N.C., "Lo stato senza ragione”, Tempo presente, agosto 1963, ora in SP, cit., pp. 268-276, citaz. p. 275.
102 N.C., "Importanza del dir di no”, Tempo presente, novembre 1958, nella Gazzetta, p. 894; N.C., "Lo stato senza ragione”, cit., p. 275; N.C., "Noi e i greci”, Tempo presente, maggio 1967, pp. 4-6, citaz. p. 6; N.C., "Sono i falsi mistici”, cit., p. 337.
103 N.C., "Prefazione” ad A. Caffi, Critica della violenza, cit., ora in SP, pp. 150-167, citaz. p. 166.
104 N.C., "La rivolta degli studenti”, cit., p. 148. Sulla tradizione secessionistica e gradualistica dell’anarchismo si veda P. Adamo, "Gli esistenzialisti dell’anarchia”, Volontà, n. 3-4, 1996, pp. 207-229.
105 CR, p. 238.
106 N.C., "Discussione. La tentazione dell’Est”, Tempo presente, agosto 1959, pp. 641-644, citaz. p. 644; N.C., "I greci e noi”, cit., p. 6.
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