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Pietro Adamo

"La prima cosa è dire no!”: Nicola Chiaromonte tra ragione, storia e utopia

Tratto da Dedicato a Nicola Chiaromonte nel trentennale della morte, quaderni dell'altra tradizione, 1, Una Città, 2002

Le "osservazioni sui piccoli gruppi, l’azione periferica, eccetera, non l’avevano minimamente impressionata: era ovvio che Monteverdi credesse in simili movimenti, perché non avrebbe dovuto? Era un anarchico”1. Quasi mezzo secolo fa il Monteverdi di The Oasis, fondatore della piccola comunità utopica di cui il romanzo ricostruisce la vicenda, offrì a Mary McCarthy il destro per illustrare la profonda influenza che nella seconda metà degli anni Quaranta Nicola Chiaromonte aveva esercitato sulla comunità newyorchese di intellettuali radicals che si radunava intorno alle riviste Partisan Review e politics e che comprendeva personaggi del calibro di Hannah Arendt, Dwight Macdonald, Paul Goodman, C. Wright Mills, Daniel Bell, eccetera2. Per un lettore italiano d’oggi è per certi versi stupefacente apprendere della rilevanza politica e intellettuale di un pensatore suo connazionale sconosciuto ai più3. Di fatto, rispetto alla cultura italiana del Novecento, Chiaromonte sembra appartenere a un ristretto gruppo di "intransigenti”, laicamente fieri della propria autonomia rispetto alle vulgate di partito e alfieri di una "terza via” rispetto all’esperienza del socialismo reale da un lato e al capitalismo d’assalto dall’altro: non a caso, un gruppo inviso oggi sia agli intellettuali di destra sostenitori della "via italiana alla politica”, che ne criticano la mancanza di realismo e la propensione a "tirarsi fuori” dalla cultura nazionale, alla ricerca di un’inesistente "Altra Italia”, sia ai tecnocrati di sinistra, che giudicano irrilevanti le sue pregiudiziali etiche e disfattistiche le sue prese di posizione critiche. Inoltre, nella valutazione di questo esiguo gruppetto di laici "eretici” Chiaromonte sembra assumere una posizione piuttosto defilata, soprattutto per la sua indisponibilità -anzi, per la sua "refrattarietà”- a trasformarsi in "utile idiota”. Non è oggi difficile identificare i motivi per cui la sinistra di partito italiana, ridotta ormai a una ricerca di progenitori "nobili” quasi ridicola, riproponga con ardore i nomi di Gobetti e dei Rosselli, con i più audaci a ricordare persino Ernesto Rossi, valorizzando soprattutto l’impianto antagonistico del loro pensiero; è altrettanto semplice capire perché Chiaromonte, con la sua sociologia indeterministica e la sua inflessibile critica della politica praticata, della tecnocrazia e della statualità "moderna” mal si adatti a riscoperte dell’ultima ora in chiave di sostegno a una progettualità sinistrorsa burocratizzata, dirigista e grettamente utilitarista.
D’altro canto, la riflessione di Chiaromonte sembra percorrere le principali linee sismiche di crisi della vicenda della sinistra novecentesca. A cominciare dalla sua militanza giovanile in "Giustizia e Libertà”, in cui, scrivendo prima dall’Italia e poi nell’esilio francese (con l’intermezzo spagnolo nella squadriglia aerea di Malraux)4, proponeva un’originale analisi del fenomeno totalitario in chiave di "tirannia moderna”, legandolo soprattutto alla fenomenologia dello Stato nazionale ottocentesco; proseguendo, negli anni Quaranta, con il soggiorno prima negli Stati Uniti e poi nuovamente in Francia, quando per un breve momento sembrò prendere concreta forma l’ipotesi di una "terza via” fondata sul recupero dell’opzione libertaria in campo socialista, operazione che, costruita sull’asse New York-Parigi e sui rapporti tra le intellighenzie delle due capitali passate dalla militanza nel marxismo eretico (leggi: trotskysmo) a un più scettico apprezzamento dei valori centrali della civiltà liberale, vide Chiaromonte tra i più convinti protagonisti5; per finire nell’Italia del dopoguerra, in cui il nostro si schierò apertamente contro il socialismo reale ma proponendo nel contempo un altro Occidente rispetto a quello trionfante del capitalismo fordista e dello sciovinismo culturale (l’"altra Europa” cui accenna Mary McCarthy, attribuendo a Chiaromonte il merito di aver proposto al circolo di politics una nuova genealogia del pensiero politico moderno)6. Negli anni Cinquanta e Sessanta, la fase più matura e creativa del suo percorso (si pensi all’impresa di Tempo presente), affrontò un’"enorme […] profusione” di temi7, dalla letteratura alla filosofia, dalla politica al costume, passando con una certa disinvoltura dalla natura ideologica del marxismo ai presupposti storico-teorici del romanzo classico e post-classico, dalla Francia di De Gaulle alla Grecia dei colonnelli, dallo scontro tra cinema e censura alla situazione giovanile, attraverso un’originale sociologia storica indeterministica impostata sul "rapporto tra l’uomo e l’evento” (così si legge nella prefazione di Credere e non credere, edizione italiana di un libro pubblicato in inglese con il titolo The Paradox of History)8. Un approccio trasversale, quindi, ben rappresentato dal saggio tradotto dal francese che qui presentiamo, tratto da un manoscritto dove si intrecciano considerazioni e argomentazioni di natura abbastanza differente e che risale probabilmente ai primissimi anni Cinquanta, dopo la pubblicazione della seconda edizione di L’homme et le sacré di Roger Caillois9 e nello stesso periodo in cui, ci dice Chiaromonte nell’introduzione di Credere e non credere, stava cominciando a riflettere sulla "questione della storia” in relazione al romanzo moderno10. D’altro canto, il metodo di lavoro del nostro, che annotava quasi tutto per poi riprendere e sviluppare più volte le annotazioni, potrebbe anche farci pensare che qualche periodo risalga a momenti precedenti11.
L’eredità culturale di Chiaromonte è comunque affidata a elaborazioni estemporanee, a intuizioni folgoranti, a scarti di prospettiva piuttosto che a un "sistema” complessivo; tale impresa manca dal suo curriculum (i suoi libri, con l’eccezione comunque parziale di Credere e non credere, restano raccolte di saggi). Dai suoi scritti emerge soprattutto uno spirito dedito alla "critica” e al "dubbio”, le qualità che a suo parere dovevano caratterizzare l’azione degli intellettuali; e per lo stesso motivo le sue proposte in positivo vanno ricercate e decodificate nelle pieghe dei suoi scritti essenzialmente critici, impresa che rivela tratti e problemi a volte più sfumati e sfuggenti di quanto possa far pensare la simpatia del Monteverdi mccarthyano per le tattiche e le strategie della tradizione libertaria.

1. La crisi del moderno

In un appunto risalente alla fine degli anni Sessanta Chiaromonte spiega la natura della "crisi” che attanaglia il secolo identificando due ordini di motivi. Il primo è legato al fatto che "si continua a parlare il linguaggio del progresso […] quando nel progresso non si crede più” e sono invece subentrati, come motori "profondi” dell’azione, il pessimismo, l’ansia, l’indifferenza; ciò che si è dolorosamente scoperto, commenta, è che il mito del benessere -la prevalente traduzione contemporanea del settecentesco bonheur- conduce a sottomettere la società intera alla sua logica: "Tutti diventano schiavi di tutti”, in un processo generale fondato sul "meccanizzare” e sul "burocratizzare”. A tale credenza si sovrappone, secondo punto, la "riscoperta” della ragion di Stato, strumento e nel contempo scopo proprio di coloro che con maggior impegno perseguono il fine della felicità e del progresso. Un nodo irrisolto nello stesso pensiero socialista, che anzi sembra costitutivamente produrre l’"alienazione di cui tanto si parla”, assoggettando chiunque "all’imperativo sociale e all’ideale del bonheur”12.
La citazione del dilemma socialista è tutt’altro che casuale. Si può anzi dire che, se l’analisi della modernità di Chiaromonte si articola intorno ai nodi del Progresso, della Storia e dello Stato, il quadro interpretativo di sfondo sembra dipendere da una domanda ricorrente, che trova piena esplicitazione nella già citata premessa al volume del 1971: "Perché il movimento socialista, che aveva indubbiamente costituito il tentativo più vigoroso e intellettualmente ricco di promuovere la causa della giustizia e dell’eguaglianza in Europa, era stato scompaginato a tal punto dallo scoppio della prima guerra mondiale da non essere poi mai più riuscito a ricostituirsi in modo politicamente efficace e ideologicamente convincente?”. In altri termini, nella prospettiva di Chiaromonte il problema Storia/Stato ha un riferimento preciso: "La disfatta del socialismo democratico”. Nonostante egli stesso distingua tale tema da quello più generale delle implicazioni del mito del Progresso, affermando che non è certo il primo "il più importante”, di fatto, nello sviluppo concreto della sua analisi per quasi quarant’anni, i due termini si presentano strettamente intrecciati13.
Il suo primo intervento pubblico, ospitato nella Conscientia di Giuseppe Gangale, è un atto d’accusa nei confronti della società di massa, di sapore un po’ letterario, nel quale si indica però una precisa via d’uscita. L’analisi dell’inedito potere "delle macchine e della tecnica pratica” mette in luce la sua dipendenza dalla "maggiore o minore passività individuale”: alla spersonalizzazione dei rapporti e alla crescente "macchinizzazione” può far da controcanto non l’associazione della "massa”, ma piuttosto quella formata dagli "individui viventi”, dagli "uomini a cui l’inevitabilità della lotta, la forza spietata della corrente vitale danno una pienezza nuova di dolore e di ansia, un nuovo senso di solidarietà umana, raggiunto attraverso il riconoscimento di una lotta non rivolta alla reciproca sopraffazione, ma alla liberazione comune”14. L’interpretazione della modernità in chiave pessimistica si risolve qui nella valorizzazione di un nuovo attivismo, motorizzato da un’inedita concezione -più esistenziale che sociale- dei vincoli di solidarietà. Il volontarismo chiaromontiano -di chiara derivazione gobettiana- è anche il principio guida della sua analisi del fascismo come totalitarismo, analisi che si inserisce però nel dibattito sulla forma dello Stato "nuovo” che caratterizzò il confronto in area giellista tra statalisti ("regionalisti”) e "libertari” nella prima metà degli anni Trenta15. Il suo primo contributo sull’argomento pone la discussione sul piano più generale della "crisi della civiltà occidentale”, che necessita di "forme nuove, nelle quali le attività economiche, giuridiche, politiche, etiche, intellettuali ritrovino espresse la loro efficacia e la loro concordanza”. Sul piano strettamente politico si registra la crisi dello Stato di diritto liberale di ascendenza ottocentesca, contro il quale si erge lo Stato-mito, lo Stato concepito come persona, o "sopra-soggetto”, divinità, idolo: lo si pensa come una entità mistica, anteriore o superiore agli esseri umani che "vi stanno dentro”. […] Siccome non esso Stato esiste per il bene dei cittadini, ma questi sono meri strumenti al servizio di finalità per loro inscrutabili, lo Stato s’arroga poteri discrezionali non solo sui corpi ma pure sulle coscienze; sorveglia e prescrive il modo in cui si deve sentire e pensare; esige l’unanimità oltre che l’assoluta obbedienza16.
Pur salvaguardando la "differenza qualitativa” tra Stato fascista e Stato comunista e sottolineando il "significato positivo” del bolscevismo, Chiaromonte sottolinea comunque "l’affinità” tra i due esperimenti, concludendone che GL, più che proporre un "antifascismo” generico, avrebbe dovuto caratterizzarsi come movimento "antitirannico” e "antistatale”17.
Nel suo intervento più ricco sul tema della genesi e della natura del fascismo, "Sincero” asserisce che i fenomeni totalitari non sono altro che "i punti di necrosi dell’organismo europeo quale pretendono mantenerlo le inettissime attuali classi dominanti”. La crisi risale alla formazione stessa dello Stato moderno, fondato teoricamente sull’"esistenza di una forma politica da cui tutte le forze agenti nella vita di un paese siano contenute: cioè da leggi che ne regolino adeguatamente i rapporti, in modo da impedire il prevalere dell’una sull’altra”, salvaguardando da un lato la pluralità stessa di queste forze, ma nel contempo garantendo, nella pratica, l’imposizione dello sfruttamento e della tirannia. Lo Stato nazionale ottocentesco era, secondo Chiaromonte, formalisticamente attento alla protezione di una certa "forma o idea astratta di Giustizia di spettanza dello Stato”, ma poco disposto a prendere in considerazione -dal punto di vista "neutro” della tradizione liberale- "i concreti rapporti sociali”: di conseguenza le "libertà” concesse dalle classi dominanti non erano altro che uno stratagemma "paternalista” che facilmente degenerava nella "tirannia” e nell’"uniformità burocratica”, sorretta da "un’idea generica dell’interesse comune o generale”. E quest’ultima, concludeva Chiaromonte insistendo sulle linee di continuità tra Stato risorgimentale e Stato fascista, "non può essere fatta funzionare se non da un potere tirannico, sul piano della forza e in nome dello Stato”. Il fascismo si configurava quindi come "forma esemplare” di un fenomeno epocale, la "tirannia moderna”, incarnata in forma meno "pura” dallo stesso Stato liberale ottocentesco che era Stato spazzato via in Italia e Germania. Il passaggio decisivo -quello tra "governo autoritario” e "Stato totalitario”- non si rivelava così particolarmente traumatico: la società veniva "inquadrata” in "una disciplina tecnico-militare” in cui "non l’autorità, ma la forza in funzione della potenza, è il principio”18.
Nei decenni successivi Chiaromonte resterà costantemente fedele a tale lettura: "Il punto cruciale è uno e uno solo”, scriverà in un appunto risalente al 1963, "nello Stato sotto il quale viviamo si nasconde l’elemento tirannico”. Un elemento che è però strutturale nell’esperienza dello Stato moderno, così come è stato definito in concreto dalla tradizione machiavellica: il "principio della politica di potenza”, la "nozione che lo Stato è forza, uso calcolato della forza. Che non deve riconoscere alcun principio superiore che lo limiti”. È questo l’elemento che lo rende necessariamente "militare, tecnologico, industriale, non controllabile”19.
L’analisi del totalitarismo proposta negli anni Trenta si situa comunque ancora all’interno di un orizzonte segnato da una (parziale) fiducia nel "politico”. Sottesa a tale analisi resta infatti la possibilità di un’azione razionale, orientata in fondo dai valori forti del socialismo. I totalitarismi avevano scosso alla radice le versioni usuali dei temi della "libertà politica” e della "giustizia sociale”: occorreva quindi procedere a una "creazione ex novo dei […] valori” loro associati, con modalità "più conform[i] alle aspirazioni effettive, al sentimento, all’intelligenza dell’epoca nostra”. Per Chiaromonte tale operazione di riallineamento dei valori era compito precipuamente culturale, che doveva puntare a "far leva sui migliori” e a formare dunque nuove élites20. Ed è proprio su tale questione di strategia che maturò la rottura con Rosselli e il gruppo dirigente di GL tra fine 1935 e inizio 1936, quando, scriverà vent’anni dopo, "il ‘movimento’ volle trasformarsi in partito”21: nella sua "Franca spiegazione” del dicembre 1935 Chiaromonte rivendicò la centralità, di contro all’insistenza sull’azione da parte di Rosselli, di "un pensiero netto accompagnato da un continuo lavorìo critico”, ipotizzando che GL diventasse qualcosa di affine a un "centro studi” (ipotesi addirittura "spaventosa” per la leadership giellista)22.
Il trauma della guerra acuì la sensazione di irrilevanza della politica che già si intravedeva nei termini della polemica con Rosselli. Nella "Spiegazione” Chiaromonte aveva indicato, come presupposti indispensabili di un’azione politica sensata, "l’adeguatezza alla situazione e ai fini che si propongono”23. L’esperienza americana -in un ambiente culturale in cui la critica del bolscevismo in chiave di pianificazione totalitaria della vita associata era stata arricchita dal contributo di social scientists come Friedrich von Hayek e Karl Popper, che avevano insistito nel concettualizzare la realtà sociale come esito imprevedibile di effetti inintenzionali di (presunte) azioni razionali, come un affastellato di eventi la cui interpretazione complessiva in termini di direzione della Storia era al di là delle possibilità conoscitive degli esseri umani- condusse l’italiano a riflettere nuovamente sulla contrapposizione tra ragione e azione (politica). In uno dei suoi ultimi scritti per politics, Chiaromonte criticò con una certa asprezza quei gradualisti che, in tema di miglioramento sociale, ritenevano che l’obiettivo fosse un semplice punto di riferimento orientativo per l’azione, e non un valore a sé. In un certo senso l’italiano colse un’affinità tra i critici del totalitarismo fautori di un riformismo gradualistico, si trattasse di tecnocrati come von Hayek o di umanisti socialisti come i "compagni di strada” dei comunisti in America, e gli storicisti marxisti: sia i primi sia i secondi parevano adattarsi supinamente "alle leggi del progresso storico” e alla credenza che esse fossero sempre portatrici di "progresso” (tramite la mediazione del concetto hegeliano di "astuzia della ragione”), adottando una posizione che, risolvendosi nell’accettazione dei "risultati” proposti dalla Storia stessa, costituiva di fatto una resa "di fronte all’irrazionale, all’incoerente, all’organicamente confuso e sconcertante”, "all’‘urlo e il furore’ degli eventi”. Chiaromonte coglieva qui l’implicazione etica di un atteggiamento che sembrava subordinare comunque alla Storia le motivazioni e le spinte dell’azione, costituendo così una giustificazione della "flessibilità”: "Si pensa che sforzo e approssimazione abbiano valore in sé, mentre l’obiettivo, precisamente, è soltanto l’‘ideale’. […] Ciò implica che ogni passo non ha valore proprio, e quindi non si dovrebbe andare troppo per il sottile. Cioè che il compromesso è parte essenziale del processo”. A tutto ciò Chiaromonte contrapponeva la precisa consapevolezza della specificità morale di ogni singola azione: "A meno che non vogliamo rinunciare del tutto alla ragione nell’interesse dell’azione”, concluse, "non possiamo in alcun modo abbandonare questa semplice distinzione”24.
L’etica resta così l’unico criterio accettabile per l’azione, di contro a qualsivoglia progettualità puramente politica, irrimediabilmente compromessa con un concetto di "efficacia” del "politico” nella storia che trova la sua base nell’ideologia e che contamina le stesse democrazie post-totalitarie. Decisivo in proposito l’incontro (intellettuale) con Simone Weil e la sua concettualizzazione del ruolo della forza nella formazione della modernità: la rivelazione, secondo l’italiano, che "l’universo dei moderni non ha forma, che il loro senso del bene e del male è del tutto incerto, e che essi non hanno in comune nessuna credenza, come prova ampiamente la realtà della loro vita collettiva”25. Di conseguenza, tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta l’analisi della modernità di Chiaromonte abbandona la focalizzazione sulla politica, divenendo commento a tutto campo sulle tare della "vita collettiva”, sui "principi maledetti del mondo moderno”: "Feticismo del successo, repressione di sé di fronte alle ragioni Superiori, organizzazione”, scrive nel 196326. Non che le coordinate ultime dell’interpretazione dell’italiano cambino di molto. Poco prima della morte, in un tono che con gli anni si va facendo sempre più apocalittico, identifica ancora le radici della "falsa religione” dell’esperienza contemporanea nel connubio tra due "superstizioni”: la Storia e la Politica, "l’idea che l’uomo sia padrone della propria storia e quella che la politica sia il mezzo migliore per realizzare integralmente la sua natura morale”27.

1 M. McCarthy, L’oasi (1949), tr. it. Liberal Libri, Firenze 2001, p. 78.
2 Sulla presenza di Chiaromonte in tali ambienti, e sull’influenza esercitata soprattutto su Mary McCarthy e Dwight Macdonald, si vedano A. Donno, Dal New Deal alla guerra fredda, Sansoni, Firenze 1983, in particolare pp. 159-204; A.M. Wald, The New York Intellectuals, University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 1987, specificamente p. 210; M. Wreszin, A Rebel in Defence of Tradition. The Life and Politics of Dwight Macdonald, BasicBooks, New York 1994, passim; G. Sumner, Dwight Macdonald and the politics Circle: The Challenge of Cosmopolitan Democracy, Cornell University Press, Ithaca 1996, passim; G. Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1999, pp. 68 e sgg. The Oasis è una cronaca quasi astiosa, in forma di "racconto filosofico” (termine dell’autrice), dei dissidi e delle vicende dell’Europe-America Groups Project, presieduto dalla stessa McCarthy. Il progetto comprendeva i maggiori intellettuali radicali newyorchesi, divisi nel frangente in due fazioni: gli appartenenti alla prima, che grosso modo facevano capo alla Partisan Review, erano convinti della necessità di difendere senza dubbi e tentennamenti la superiorità dell’American Way of Life; gli appartenenti alla seconda, che guardavano a politics, propendevano a sottolineare gli elementi autoritari e illiberali nello stesso Occidente (sul romanzo si vedano A.M. Wald, The New York Intellectuals, cit., pp. 241-243; G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., pp. 212-214; e la "Postfazione” di Maria Rosaria De Bueriis alla recente edizione italiana di The Oasis, cit., pp. 121-134).
3 Non è certo casuale che i principali contributi su Chiaromonte pubblicati in italiano siano, con l’eccezione della recente biografia intellettuale di Gino Bianco citata alla nota precedente, di qualche saggio casuale e degli atti di un convegno dedicato a Tempo presente (Nicola Chiaromonte Ignazio Silone. L’eredità di "Tempo presente”, a cura di G. Fofi, V. Giacopini, M. Nonno, Fahrenheit 451, Roma 2000), le singole introduzioni ai volumi che raccolgono parte dei suoi scritti: di M. McCarthy (Scritti sul teatro, a cura di M. Chiaromonte, Einaudi, Torino 1975; d’ora in avanti ST); di L. Valiani (Scritti politici e civili, a cura di M. Chiaromonte, Bompiani, Milano 1976; d’ora in avanti SP); di G. Herling (Il tarlo della coscienza, a cura di M. Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1992; d’ora in avanti TC); di G. Pampaloni (Credere e non credere, Il Mulino Bologna 1993; d’ora in avanti CC; la prima edizione del libro, del 1971, è stata pubblicata quando Chiaromonte era ancora in vita); di W. Karpinski (Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971, a cura di M. Chiaromonte, Il Mulino, Bologna 1995; d’ora in avanti CR), di S. Fedele (Le verità inutili, a cura di S. Fedele, ed. L’ancora, Napoli 2001; d’ora in avanti VI). Senza introduzione restano altre raccolte (tra cui Silenzio e parole, Rizzoli, Milano 1978; d’ora in avanti SEP).
4 Sulla vita di Chiaromonte si rimanda a G. Bianco, Nicola Chiaromonte, cit.
5 L’italiano aveva infatti stimolato il progetto sin dai suoi primi mesi in Europa, divenendo poi il rappresentante ufficiale dei Groups oltreoceano (le sue lettere dalla Francia e dall’Italia, come quelle di Monteverdi in The Oasis, costituirono la principale fonte d’informazione e il principale strumento per elaborare direttive e progetti a disposizione degli amici americani).
6 G. Bianco, Nicola Chiaromonte, cit. p. 68.
7 W. Karpinski, Introduzione, in CR, p. xvii.
8 CC, p. 17.
9 R. Caillois, L’homme et le sacré, Gallimard, Paris 1963. La seconda edizione è stata pubblicata nel 1950 (la Préface di Caillois, ivi ristampata alle pp. 7-9, è datata novembre 1949); la prima edizione è del 1939 (l’Avant-propos, ivi riprodotto alle pp. 11-14, è datato marzo 1939).
10 CC, p. 18.
11 Per esempio, la citazione delle note al manifesto del Collegio di sociologia, un testo che agli inizi dei Cinquanta non era certo al centro della discussione (lo si veda ora in tr. it. in Il collegio di sociologia 1937-1939, a cura di D. Hollier, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 13-55).
12 CR, pp. 225-226.
13 CC, pp. 17-18.
14 N.C., "Crisi e soluzione della modernità”, Conscientia, 19 giugno 1926, ora in VI, pp. 59-62, citaz. p. 61.
15 Sull’argomento si vedano C. Malandrino, Socialismo e libertà. Autonomie, federalismo, Europa da Rosselli a Silone, Angeli, Milano 1990, in particolare pp. 105-135, e S. Fedele, E verrà un’altra Italia. Politica e cultura nei "Quaderni di Giustizia e Libertà”, Angeli, Milano 1992, pp. 112-123; sia concesso il rimando anche a P. Adamo, "Carlo Rosselli e la tradizione libertaria”, Quaderno di storia contemporanea, n. 29, 2001, pp. 116-139, in particolare pp. 122-128.
16 [N.C.], "Lettera di un giovane dall’Italia”, Quaderni di Giustizia e Libertà, dicembre 1932, ora in SP, pp. 11-17, citaz. pp. 13-14.
17 Ivi, p. 14; Sincero [N.C.], "Per un movimento internazionale libertario”, Quaderni di Giustizia e libertà, agosto 1933, pp. 13-20, citaz. p. 13.
18 Sincero [N.C.], "La morte si chiama fascismo”, Quaderni di Giustizia e Libertà, gennaio 1935, pp. 20-60, citaz. pp. 25-26, 28, 42, 44.
19 CR, p. 189.
20 [N.C.], "Lettera di un giovane dall’Italia”, cit., p. 16; [N.C.], "Ufficio stampa”, Quaderni di Giustizia e Libertà, novembre 1933, ora in SP, pp. 30-36, citaz. p. 35.
21 N.C., "L’intellettuale e la politica”, Il Mondo, 28 febbraio 1956, ora in SP, pp. 223-224, citaz. p. 223.
22 Luciano [N.C.], "Franca spiegazione”, dicembre 1935, trascritto in appendice a P. Bagnoli, "Di un dissidio in ‘Giustizia e Libertà’”, ora in P. Bagnoli, Rosselli, Gobetti e la rivoluzione democratica, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 61-109 (la "Spiegazione” si trova alle pp. 92-98, citaz. pp. 96-97). Sul dissidio si vedano, oltre al citato saggio di Bagnoli, A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli (1945), 2 voll., Vallecchi, Firenze 1973, pp. 332-337; G. Bianco, Un socialista "irregolare”: Andrea Caffi intellettuale e politico d’avanguardia, Lerici, Cosenza 1977, pp. 63-72; G. Bianco, Nicola Chiaromonte, cit., pp. 26-41.
23 Luciano [N.C.], "Franca spiegazione”, cit., p. 94.
24 N.C., "Osservazioni sulla giustizia”, politics, may-june 1947 (con il titolo "Remarks on Justice”), ora tr. it. in VI, pp. 63-77, citaz. pp. 74, 77.
25 N.C., "L’Iliade di Simone Weil”, Il Mondo, 30 maggio 1953, ora in SEP, pp. 213-217, citaz. p. 216. Chiaromonte ha descritto vividamente l’impatto che il saggio della Weil sull’Iliade, pubblicato nel numero del dicembre 1940-gennaio 1941 dei Cahiers du Sud, esercitò prima su di lui e poi sui lettori di politics: "Non sapevo, allora, chi fosse Emile Novis [lo pseudonimo della Weil]. Ma certo non era un professore, né un letterato. Era qualcuno che aveva sofferto con l’anima e saputo purificare con la mente il senso di disfatta che da almeno quattro anni incombeva sull’Europa. Che costui volesse e sapesse esprimersi attraverso una rilettura dell’Iliade era segno che le ‘umane lettere’ potevano ancora fruttare pensieri vigorosi. Nel 1945, in America, fui lieto di contribuire a far pubblicare il saggio in una rivista, politics, […] e di constatare che quella meditazione su Omero poteva toccare profondamente un pubblico di radicals newyorkesi, gente poco ellenizzante e, in apparenza almeno, interessata solo alla polemica ideologica” (ivi, pp. 213-214). Sull’influenza decisiva degli scritti di Simone Weil sugli ambienti di politics si veda G. Sumner, Dwight Macdonald, cit., pp. 55-60; sulla sua concettualizzazione della forza, cfr. G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991, pp. 51-67; D. Canciani, Simone Weil. Il coraggio di pensare, Edizioni Lavoro, Roma 1996, pp. 221-250; G. Gaeta, "Simone Weil: le radici religiose del totalitarismo”, in G. Gaeta, Religione del nostro tempo, Edizioni e/o, Roma 1999, pp. 22- 38. Chiaromonte ebbe aspre parole di condanna per Franco Fortini, che si oppose alla pubblicazione italiana di Oppressione e libertà nelle Edizioni di Comunità, ma non nascose le sue perplessità di fronte alla virata "spiritualistica” della Weil dei primi anni Quaranta (vedi la recensione del terzo volume dei Cahiers, Tempo presente, agosto 1956, nella Gazzetta, pp. 435-436).
26 N.C., "Eichmann osservato”, Tempo presente, febbraio 1963, nella Gazzetta, ora in VI, pp 217-218, citaz. p. 218.
27 N.C., "Sono i falsi mistici”, L’Espresso, 1 novembre 1970, ora in SP, pp. 336-337, citaz. p. 336.
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