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Osvaldo Gnocchi-Viani

Operai inglesi e operai italiani

Tratto da «Critica Sociale», n. 11, 31 luglio 1891

È un fatto inoppugnabile che il nostro ceto operaio, come persona collettiva, come persona morale, è, nella Bassa Italia, si può dire non ancor nato, nel Centro invece e nell’Alta Italia è nato, è vero, sotto la pressione del moderno movimento industriale e il soffio delle nuove idee sociali, ma è ancora nello stadio d’infanzia e solo qua e là accenna ad uscire dalle fascie. Alcuni manipoli d’operai, infatti, diedero, circa nove anni or sono, segni evidenti di avere compreso il compito che il ceto operaio, nel presente periodo della società, ha come classe, cioè -precisiamo- come rappresentanza della funzione sociale che il lavoro dell’operaio compie nella società. Quei pochi manipoli, qua e là disseminati, diedero a se stessi, per distinguersi, il nome di Partito Operaio Italiano, il quale viene ora, con nomi diversi e talora anche con diverse forme, componendo la sua organizzazione, pur conservando sempre il suo carattere originale socialistico-operaio.
In tutti i paesi d’Europa, d’America e dell’Australia, nei quali la grande industria si è assodata, rampollarono i partiti operai. Logico quindi che anche in Italia, là dove cotesta industria comincia la sua ossatura, germoglino le prime gemine di un partito operaio.
I partiti operai hanno dovunque aspetto socialistico, più o meno pallido, più o meno rubicondo, a seconda dei luoghi e a seconda della rispettiva loro età. Tipici, due: l’inglese da una parte, il francese dall’altra. Tra questi due tipi, combinazioni, sfumature, gradazioni non poche, talora anche in uno stesso paese.
II nostro Partito Operaio a quale gradazione, a quale categoria accenna ad affigliarsi? a quale dei due tipi tende ad accostarsi?
I discorsi dei suoi oratori, i suoi manifesti, i suoi atti, i suoi congressi -durante quest’ultimo decennio- fanno presagire in esso un concorrente piuttosto col movimento operaio inglese che col movimento operaio francese. Infatti, in qualche Congresso internazionale, in cui fu rappresentato il giovane movimento operaio italiano, questo strinse alleanza e votò colla rappresentanza inglese in opposizione alla maggioranza delle altre delegazioni operaie, la francese compresa. Sono divergenze di metodo più che altro, è vero, ma il metodo nei partiti militanti ha una grande e indiscutibile importanza, perché metodo vuol dire azione.

Ora, qual è l’indole prevalente e caratteristica del movimento operaio inglese? Saputa questa, sapremo, per conseguenza, quale sia l'indole economico-sociale, che pare voglia connaturare in sé il nuovo movimento operaio italiano.

Gli operai inglesi, nella loro grande maggioranza unionista (Trade’s Unions), hanno una profonda stima delle energie spontanee della natura e una diffidenza costantemente vigile verso tutto ciò che è manipolazione artificiosa; per conseguenza, s’affidano volentieri alla spontaneità delle loro propensioni e si abbandonano con animo tranquillo alle intime virtù delle loro associazioni, delle loro organizzazioni, che sono appunto figlie della spontaneità naturale più immediata e più vicina alle sorgenti della vita. Il che si riassume in questa formula: Fidare in se stessi, che equivale a quest’altra formula, più precisa: L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, che fu anche il segnacolo immortale dell’Associazione internazionale dei lavoratori.
Per essere però oggettivamente esatti, conviene pur dire che, se la grande maggioranza delle Trade's Unions inglesi è come or ora accennammo, c'è una minoranza che con metodo diverso si move.
In questi ultimi due o tre anni di fianco al tradizionale unionismo, sorsero nuove Trade's Unions, le quali rappresentano, si può dire, una tendenza opposta, non hanno, cioè, che una fede scarsa e lenta nella potenza motrice delle associazioni e fidano invece di più nell'iniziativa dei poteri politici e legislativi. Il fenomeno, del resto, non si presenta strano se si consideri che queste giovani Trade's Unions reclutano i loro affigliati in mezzo a quegli operai che non appartennero mai ad alcuna associazione e che, psicologicamente poco sviluppati e socialmente poco addestrati, sentono il bisogno di una estranea autorità che li sorregga e li tuteli. Fatti adulti ed esperti, andranno certamente ad ingrossare il numero degli operai, che li precedono con più virili esempi.
Ora, se gli operai italiani simpatizzano davvero con la tendenza della maggioranza degli operai inglesi associati, non hanno che a volgere più spesso, più attentamente e più studiosamente lo sguardo oltre la Manica: là troveranno una quasi secolare tradizione ed esempi recenti e rinnovantisi di quella scuola gagliarda che agli operai insegna di fare da sé come operai per educarsi a fare di sé altrettanti uomini nel vero ed alto senso di questa parola.

L’operaio inglese afferra un’idea pratica, sanzionata dalla ragione e dalla scienza, la getta nel laborioso crogiuolo delle sue organizzazioni, ed essa finisce coll’uscire da quel crogiuolo, trasformata in una imponente marea umana che sale. Coronata quell’idea dall’alloro del trionfo, tutta la vasta organizzazione operaia diventa di quell’idea una conservatrice tenace e pronta alla battaglia, sia per difenderla, sia per correggere gli inconvenienti, che la sua isolata applicazione può produrre.
Fatto un passo - all’armi per farne un altro! Questo è il criterio di condotta pratica e normale dell’operaio inglese; criterio che pare venga ora seriamente accolto da quasi tutti gli operai del mondo civile colla istituzione del primo maggio, il quale ha, per ciò, anche questo alto e generale significato, di essere, cioè, nella storia dell’operaio moderno, l’inizio del periodo pratico, avendone la Internazionale chiuso e riassunto il periodo teorico. Ma stieno bene in guardia gli operai, perché la retorica dottrinaria ritenterà, con nuova lena, le prove per togliere al primo maggio il suo nativo carattere operaio e pratico e, sfruttandolo, farne uno strumento a intenti diversi. Il tentativo farà capolino anche nel prossimo Congresso internazionale socialista di Bruxelles, e partirà da Parigi, e precisamente da un gruppo -lo si noti bene- non operaio. In mezzo agli operai però il tentativo certamente fallirà, perché il moto, con tanto senso pratico iniziatosi col primo maggio, non può regredire cacciandosi nelle nuvole e nel buio. È il metodo sperimentale che entra ora, a spron battuto, anche nelle file operaie dopo avere conquistato quasi tutte le schiere degli scienziati.
Al cimento della prova sperimentalista sono ora le otto ore di lavoro. Conquistate -e la conquista ha già arriso qua e là agli operai- si inanelleranno dopo con un altro movimento, quello delle retribuzioni, e via via, di moto in moto, finché la marcia sarà finita e l’ultima meta raggiunta. Ogni stazione però dev’essere, non un voto all’aria, ma un beneficio in pugno.

L’operaio inglese un’altra cosa insegna. Insegna -e fu il primo ad insegnarla col fatto a tutti gli operai del mondo- che senza associazioni, senza organizzazione, senza disciplina di classe, vano è sperare miglioramenti efficaci e durevoli, e redenzioni sicure.

"Siete organizzati?” -domandavano i minatori inglesi ai minatori belgi che, nell’ultimo Congresso internazionale, volevano che si desse battaglia con uno sciopero minerario universale. E avute mal sicure risposte, soggiungevano: "Organizzatevi bene dapprima; dello sciopero parleremo poi”. Imperocché dello sciopero gli Inglesi hanno un concetto ben diverso da quello che operai d’altri paesi hanno. In Italia, per esempio, lo sciopero -salve rare eccezioni- è un impeto; in Inghilterra è un calcolo. Da noi è un salto; là è una procedura. Qui è empirismo; in Inghilterra è scienza.
Molto giustamente, infatti, la colta e operosa signora Jessie Mario intitolava La scienza dello sciopero un suo articolo da Londra alla Riforma, che parlava appunto di scioperi inglesi.
Ecco come è scienza nel paese delle Trade's Unions lo sciopero.
Supponiamo, per esempio, che in mezzo agli operai di una data arte si manifesti il bisogno di un miglioramento nella mercede.
Il Consiglio esecutivo della Trade's Union di quell'arte dirama un questionario, al quale l'Unione deve, innanzi tutto, rispondere. Ecco i principali quesiti che in esso sogliono campeggiare:
«Quando avete l'intenzione di licenziarvi dai direttori dello stabilimento?
«Avete già tenuto riunioni? Quanti erano presenti? Quanti favorevoli e quanti contrari allo sciopero?
«Di quali fondi si può disporre per sussidiare gli operai, che non sono membri della Trade's Union, nel caso di lotta?
«Quando fu concesso l'ultimo accrescimento di salario o l'ultima riduzione delle ore di lavoro?
«Quale è lo stato dell'industria al momento attuale? Quali ragioni si hanno per supporre che, al momento in cui si lascerà il lavoro, lo stato della industria sarà tale da decidere i padroni a concedere il domandato aumento?»
Se a cotesti e ad altri quesiti le risposte sono soddisfacenti, si procede ad un minuto esame della potenzialità finanziaria, sulla quale si può fare assegnamento, e si valuta press'a poco il numero degli operai disoccupati in quell'industria, che potrebbero offrirsi a sostituire gli scioperanti. Poi si iniziano le trattative pacifiche, i tentativi di conciliazione e di arbitrato. Se a nulla approdano, e se la Trade's Union dichiara lo sciopero, lo sciopero scoppia e l'Union sta in campo fino all'ultima cartuccia.
Questo procedimento ponderato, oculato, saggio finisce sempre collo svegliare nel pubblico una corrente di simpatie, che si traduce in offerte di danaro od altro, mediante pubbliche sottoscrizioni. E si noti che le Trade's Unions hanno una cura vigile e scrupolosissima di suscitare a loro pro simpatie nel pubblico, imperocché ben sanno che una forte avversione del pubblico non è soltanto un lucro che viene a mancare, ma è anche un potente fattore morale di scoraggiamento e di disfatta. E quando avviene che dei soci delle Trade's Unions precipitino inconsideratamente uno sciopero e lo rendano perciò antipatico, l'Associazione non solo non sussidia quei suoi affigliati troppo precipitosi, ma talora li multa anche.

L'Associazione è, in Inghilterra, più che in altri paesi, il vero perno attorno al quale aggirasi il movimento operaio.

Fuori dell'Inghilterra —se si eccettui l'America del Nord, che, in fondo, non è che un'Inghilterra americana— fuori, dunque, di coteste due Inghilterre, il movimento operaio, è vero, si inizia pur là coll'associazione, ma lungo il cammino si imbeve spesso di pregiudizi politici, e, fidando in essi, sminuisce talora, e di non poco, la virtù e l'efficacia dell'azione associazionista e corporativa. Tendenza pericolosa, parmi, codesta, e tanto più pericolosa, anzi direi esiziale, sarebbe in mezzo al nostro proletariato italiano, ove lo spirito politico, per natura sua assorbente e accentratore, non troverebbe ancora un freno e un correttivo in una vasta rete federativa di organismi economici operai.
Ciò, dunque, che innanzi tutto urge agli operai italiani è una larga orditura federale di organismi economici loro propri; orditura, la quale, perché essenzialmente economica e federativa, sarà sempre un vigoroso e salutare antidoto al parassitismo politico, che succhia il sangue migliore della dignità e della libertà umane.
Da noi, in Italia, lo sviluppo associazionista operaio in alcune parti è ancor nullo, in altre infantile, in qualche altra parte invece è discretamente inoltrato e sta, si può dire, per uscire di fanciullezza. Ma, ad ogni modo, il moto operaio italiano è indubbiamente destinato, per un certo lasso di tempo ancora, a procedere sconnesso e rotto.
Ciò nonostante, il suo intento, indicatogli e dalla naturale indole sua e dall’influente esempio d’altri paesi, e specialmente dell’Inghilterra, è questo: creare e sviluppare associazioni operaie di ogni specie, ovunque si può e quanto si può, e confederarle. Organizzare, che è cosa ben diversa dall’irreggimentare. Fare dei sodalizi, infatti, non è fare delle caserme, né dei conventi. Qui è mestieri mettere in azione degli uomini, non degli automi; disciplinare con gerarchie elette e consensuali, non pioventi da Olimpi indiscutibili, e imposte. Fondare società di mutuo soccorso, difesa contro malattie, invalidità per vecchiaia e infortuni, e in pari tempo scuola prima elementare della solidarietà; società di resistenza, ordinate alla conquista di condizioni migliori di vita al lavoro, mentre della solidarietà s’accampano scuola più alta e più efficace; società cooperative, che impernano l’auspicata unione del capitale e del lavoro nelle stesse mani e sono nel tempo stesso asilo fraterno ai lottatori vinti e sfrattati dai campi e dalle officine dal capitalismo vittorioso; non solo, ma sono pur anche il rudimento primo della organizzazione futura del lavoro. Le Camere del lavoro infine, rappresentanza complessiva della grande funzione sociale che i lavoratori compiono nella società. Ecco lo svolgimento razionale ed effettivo, che ancora non ha, ma che avrà, e incomincia già ad averlo, il movimento operaio italiano. Lottare e lavorare; demolire e in pari tempo ricostruire; rendere meno improbo il presente e apparecchiare un avvenire migliore. Moto virtualmente grandioso anco negli inizi, perché i suoi stessi vagiti ci soffiano nel pensiero il presentimento d’un poema sociale avvenire.

Ma a questo moto operaio manca ancora -diciamolo pure- la più magica e perciò la più prodigiosa delle virtù di efficienza, la conscienza; e, per dirlo in altre parole, manca tuttora al nostro proletariato la consapevolezza della eccellenza civile, a cui può e deve assorgere il suo movimento sociale; questa consapevolezza, questa dottrina dell’anima, è ancora privilegio di pochi. La massa è, pur troppo, inconsciente. Si può dire, senza tema di errare, che il più pingue contributo di vita automatica dato a quella vasta funzione biologico-sociale che si chiama l’inconscienza, viene largito dal proletariato, il quale -una piccola frazione a parte- non sa perché esista, perché lavori, non conosce il significato e l’importanza di ciò che istintivamente compie ed ommette, ignora la missione sociale che può e deve compiere nel mondo e a quali condizioni soggettive la possa compiere, perciò non sente tutto il nobile orgoglio che è riposto in quel fine sentimento, che è la responsabilità morale, fratello naturale e indivisibile all’altro sentimento, che è la dignità umana, l’uno e l’altro procreatori di sempre più progrediti diritti e, per conseguenza, di sempre più progrediti doveri. E quando questa collettiva conscienza del popolo lavoratore sarà un fenomeno emergente dai fatti e parlerà il linguaggio saggio e imperioso di una nuova civiltà, le nostre classi dirigenti si fonderanno necessariamente con questa giovane e fresca fiumana d’umanesimo, in cui la donna operaia avrà, da parte sua, versato le prime stille di una redenzione successiva, quella di tutto il sesso muliebre.






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