Una città - anno V - n. 40 - aprile 1995

problemi di confine Dalla terapia del dolore alle cure palliative, da queste all'attenzione alle problematiche psicologiche e spirituali ◄ medici che si sono rifiutati di considerare normale il morire fra atroci sofferenze. In venti anni la malattia ingt della morfina per via orale può risolvere la maggior parte dei problemi. Vincere il dolore offre una possibilità anche la propria agonia. La complessità del dolore fisico: quello insopportabile di una madre dipendeva dalla p1 Le difficoltà che incontra un medico di fronte alla richiesta di dialogo sulle domande ultime da parte di pazienti Bi Luigi Saita lavora presso il reparto di Terapia del dolore e Cure palliative dell'Istituto dei Tumori di Milano. Lei si occupa di terapia del dolore e cure palliative all'Istituto dei Tumori di Milano. Può parlarcene? Fino a I0-15 anni fa si diceva: "lo porti a casa, non c'è più niente da fare". Degli ultimi I O, 15,30 giorni si interessava solo il medico curante per quello che poteva fare. I dolori erano atroci, ma l'idea fra molti medici era ancora quella che "di cancro si soffre, è normale". La terapia del dolore è nata perché qualcuno ha detto "no, non è normale". lo faccio terapia del dolore da ormai 12-13 anni. La terapia del dolore è una parte·della medicina oncologica che si è sviluppata negli ultimi I0-15 anni, prima a livello internazionale e poi, con molte difficoltà, in Italia. Quando abbiamo cominciato eravamo in pochi, avevamo uno studio piccolo e facevamo fatica anche perché i farmaci utilizzati, a base di oppiacei, erano di difficile reperibilità nelle farmacie e c'era anche riluttanza a prescriverli. Fu perciò necessario sensibilizzare i farmacisti e i medici. Noi stessi, in verità, eravamo un po' inibiti perché cominciavamo a fare una medicina "di confine" che non tentava di guarire, ma solo di alleviare le sofferenze. Cominciava allora a farsi strada il concetto di terapia sintomatica: nelle fasi avanzate della malattia, quando il tumore non risponde più a trattamenti che diventano assolutamente invalidanti per il paziente senza dare risultato terapeutico, quando, cioè, il paziente entra in quella fase che viene chiamata, con una parola molto brutta, "terminale", il sintomo diventa esso stesso la malattia da curare. E in quegli anni il sintomo principale, sul quale quindi si concentrava l'intervento, era il dolore. Fu agli inizi degli anni 'SO che cominciammo a capire che insieme al dolore c'erano tanti altri sintomi che riguardavano tutti gli aspetti di una persona che soffre nelle fasi terminali della sua esistenza: il dimagrimento, la nausea, il vomito, le piaghe, le infezioni. Tutta la malattia, a quel punto, pur restando inguaribile, non era più considerata incurabile. Si passò così dalla terapia del dolore alla terapia palliativa, che è una specie di glossario di tutti i sintomi, dove ad ogni sintomo, in base alla sua eziologia, corrisponde un trattamento sintomatico, in modo da alleviare le sofferenze, procurando il minor numero di effetti collaterali. Ma a quel punto, arrivati ormai a capire bene come funzionavano le cose dal punto di vista fisico, era inevitabile occuparsi anche delle problematiche psicologiche ed umane della sofferenza, tanto più rilevanti dal momento che proprio in quegli anni, a partire dalla fine degli anni '70, i pazienti avevano preso sempre più coscienza della loro situazione, di essere, cioè, pazienti con una malattia oncologica grave, non più guaribile, destinata a un esito infausto in un tempo più o meno determinato. Ora possiamo avere un'idea molto più globale del paziente sofferente che sta morendo o che è destinato ad una morte prossima, un'idea che tenga conto, cioè, contemporaneamente, delle sue esigenze fisiche, delle sue esigenze sociali, delle sue esigenze spirituali e psicologiche. Per noi questi I0-15 anni sono stati un' elaborazione continua, non ci siamo mai fermati a dire: "ecco, siamo arrivati, da qui in avanti si vive di rendita". Ci siamo sentiti un po' come dei pionieri, a cui non era concessa una situazione di stabilità: il lavoro, gli interventi, le problematiche non potevano essere definite, standardizzate. Qui si è sempre stati non dico sull'inventiva, ma quasi. E possiamo dire di averne fatta di strada dai tempi in cui questi pazienti, quando le terapie non funzionavano più, si trovavano costretti a seguire sempre la stessa trafila: dimessi perché tanto non c'era più niente da fare. E veramente non si tentava di fare più niente, il paziente veniva lasciato al suo destino, la malattia aveva il sopravvento e la qualità della sopravvivenza, a casa o negli ospedali, diventava pessima perché privata di ogni supporto. Il vostro territorio di impegno e anche di ricerca sembra avvicinarsi anche ai confini della scienza, della medicina, a volte sembra oltrepassarli. In un istituto scientifico la maggior parte delle terapie che si svolgono sono terapie su base scientifica, il che vuol dire che sono in fase di studio e che quasi tutti i pazienti sanno che entrano in protocolli di studio, per verificare l'efficacia dei trattamenti. Chiaramente c'è una visione improntata sul rispetto del paziente, però molto centrata sulla lotta alla malattia. Verso la fine, quando le cose cominciano ad andare male, quando l'oncologo non ha più terapie precise e il radioterapista difficilmente riesce ad intervenire ancora, il carico passa a noi che recuperiamo tutta una serie di valenze importanti per il paziente ma fino ad allora un po' accantonate nella lotta alla malattia. D'altra parte anche noi, vivendo ali' interno di un istituto scienti fico, facciamo ricerca, abbiamo una mentalità che, pur essendo assistenziale, curati va, di contenimento, è anche di studio. la morfina, un farmaco in pratica senza tetto Così molto spesso chiediamo ai pazienti di partecipare a ricerche che possono riguardare, sul versante curativo, un nuovo analgesico da provare o, sul versante più umanistico, il bisogno spirituale sia laico che religioso, problemi relativi ali' eutanasia, ali' accanimento terapeutico, agli aspetti etici, etico-sociali, etico-medici del nostro lavoro. E per fare questo non è che possiamo abbandonare completamente una mentalità di tipo scientifico. E' chiaro che anche qua siamo su un confine: ci sono alcune cose che possono rientrare in una valutazione più scientifica e ce ne sono altre invece che non si riesce assolutamente a farle rientrare in questo. Quando, per esempio, si entra nella sfera puramente • umanistica, spirituale, si deve uscire da una mentalità scientifica, ma per poi rientrarci immediatamente per quanto riguarda alcuni aspetti. Questa è una delle difficoltà del nostro lavoro: dover bilanciare le cose e capire bene dove ci si pone quando si fa un intervento piuttosto che un altro. Che criteri vi guidano nell'uso di queste cure palliative? Un criterio guida, sancito abbastanza precisamente dall'Oms, è quello del "primo, non nuocere". Per alleviare una sofferenza non possiamo procurarne un'altra. Ciò vuol dire che il primo passo della terapia del dolore è sempre una terapia per via orale, molto semplice quindi, ma che, secondo noi, è già sufficiénte a risolvere buona parte dei dolori da cancro. In questo modo il paziente ha un'assunzione non traumatica di farmaci analgesici minori o maggiori come gli oppiacei, la morfina, il metadone, che non richiede interventi specifici. Solo quando siamo di fronte a una scarsa risposta del paziente a questi trattamenti, allora passiamo a interventi più aggressivi, più invasivi come il posizionamento di un catetere spinale per mettere la morfina e gli oppiacei direttamente a livello dei gangli nervosi nel midollo spinale oppure a interventi ancora più traumatici come la lesione di nervi che interrompe la conduzione del- ]' impulso nervoso. Però l'approccio è sempre quello di una terapia non aggressiva, non invasiva. Non c'è dubbio, quindi, che in questa visione della terapia del dolore, la morfina ne rimane il cardine fondamentale. E' il farmaco che risolve il problema del dolore in maniera brillante ed efficace e che permette anche di essere usato nel tempo, di non avere problemi di "tetto". Mentre altri farmaci analgesici arrivati a un certo punto non possono più essere aumentati perché procurano solo effetti collaterali, con la morfina invece, se c'è necessità, si può salire perché è tollerata; ci sono preparazioni che consentono la somministrazione bigiornaliera perché hanno una forma di rilasciamento lenta e quindi possono essere distribuiti nella giornata garantendone la copertura analgesica. Direi che questo risolve buona parte del problema del dolore. Qualora non si riuscisse, pur aumentando le dosi, si ricorre alle tecniche di cui dicevo prima: dalle più semplici, come l'endovena o la spinale, alle più complesse, come gli interventi neurolesivi. E' chiaro che se un intervento chirurgico può servire per alleviare i sintomi, viene fatto. Dipenderà anche qui dalle condizioni prognostiche: un'aspettativa di vita di un certo numero di giorni non è la stessa di una di anni. Per affrontare interventi di questo tipo è richiesto un minimo di valutazione in più, altrimenti l'intervento è fondamentalmente medico o sociale o psicologico o spirituale. Se uno rifiuta la terapia voi come vi comportate? Un altro criterio, ancor più generale, a cui ci atteniamo è che se qualcuno vuol soffrire nessuno glielo vieta. Non diamo analgesici a chi non li vuole, e questo fa parte di una visione di rispetto delle situazioni e delle scelte delle persone. Noi pensiamo che non sia normale soffrire perché si ha un cancro, che non necessariamente si debba morire soffrendo, e offriamo un'opportunità per non soffrire, ma se uno vuole soffrire, se uno vuol finire la sua esistenza in una maniera eroica o stoica nessuno glielo vieta. Però la maggior parte dei pazienti non vuole soffrire e non perché meno coraggiosi, ma perché desiderosi di avere più dignità nel morire: la richiesta è quella di poter ancora dialogare con i familiari senza dover urlare dal dolore, di avere ancora del tempo non da passare in preda ai sintomi che uno ha al ventre o al retto, ma magari per giocare a carte, per parlare con qualcuno o per leggere un libro, scrivere una lettera, fare i conti col proprio notaio o avvocato se ci sono cose da sistemare. Liberare quel tempo è quello che noi cerchiamo di fare. Il vostro quindi è per forza di cose un lavoro d'équipe, con la presenza, oltre che di medici, anche di psicologi, di assistenti sociali, e una collaborazione con le famiglie? li lavoro d'équipe è fondamentale, da soli non si riuscirebbe a fare nulla. Per una cura domiciliare al minimo servono un infermiere, un medico, un volontario non sanitario e un parente che funzioni, quello che noi chiamiamo "parente leader", perché la casa non è un ospedale e l'intervento serve a controllare le terapie, a vedere se c'è da modificarle, a dare suggerimenti al paziente o ai familiari, a contattare il medico curante, ma non può coprire ovviamente le 24 ore. in prossimità della fine l'importanza della cura di sé Se poi l'équipe si allarga al medico curante, all'infermiere di zona e semmai ai volontari della parrocchia o del circolo se ci sono, o ali' assistenza anziani del Comune che integra quello che facciamo noi dentro casa, alIora è necessario anche I' intervento dell'assistente sociale che tenga i contatti con i vari centri. La psicologa poi interviene sull'équipe nelle riunioni settimanali in cui si discute dei casi dell'assistenza domiciliare. Ma è poi la stessa terapia del dolore che1 per essere efficace, esige un lavoro d' équipe. Soprattutto per i pazienti con malattia molto avanzata, quindi prossimi al decesso, quando i sintomi si accavallano e la sofferenza del paziente, e anche dei familiari, diventa più intensa, le terapie vanno modificate di frequente e se non c'è una buona équipe le cose diventano complicate. Ecco perché, per quei casi ingestibili a domicilio, si stanno diffondendo strutture come gli hospices: aMilano ce n'è uno alla clinica Capitanio e un altro al Trivulzio. Può capitare anche che sia impossibile assistere a domicilio un paziente che vive da solo perché di notte e per la maggior parte delle ore del giorno rimarrebbe scoperto. Noi proviamo ad organizzare una buona copertura, con gli assistenti sociali e In libreria 1n aprile. Adriano Sofri. IL NODO E IL CHIODO. Libro per la mano sinistra. RAPPORTO DEGLI ISPETTORI EUROPEI SULLO STATO DELLECARCERI IN ITALIA. Che vale anche da manuale di istruzioni per carcerieri, carcerati e cittadini in provvisoria libertà. Con un colloquio fra Enrico Deaglio e il direttore di San Vittore. Sono i primi due titoli della nuova collana FINE SECOLO, Sellerio editore. - 8 UNA C:aTTA' o le organizzazioni di volontariato, con le associazioni che ruotano intorno al Comune, con il Comune stesso, magari intervenendo anche con la Lega Nazionale dei Tumori che paghi degli infermieri di notte, ma se non ci si riesce e la situazione richiede che il paziente sia seguito bene, allora il paziente deve essere ospedalizzato, meglio se in un centro come il nostro specializzato in cure palliative. Anche questo sposta molto l'ottica nel- !' ambito della medicina perché in un ospedale normale il paziente moribondo di solito viene poco considerato, mentre noi pensiamo che quello sia un momento importante della sua vita e lo mettiamo al centro della nostra attenzione amplificandone le cure. Vuol dire che i bagni per i nostri ospiti sono particolari, perché anche il paziente che non si può muovere può venir lavato. Non è solo un esempio, quello dell'igiene personale nei pazienti moribondi è un problema molto importante: spesso si tende a trascurarla, anche a casa i familiari hanno paura a lavarli, hanno paura a toccarli, mentre quando arriviamo noi e incominciamo con un'infermiera a far le prime cure e a lavarli da capo a piedi questi pazienti stanno meglio. Anche se si è in una fase avanzata della malattia sentirsi profumati dopo essere stati dei giorni a letto, sudando, pieni di farmaci, di odori perché si perdono magari le urine, le feci, perché si hanno piaghe da decubito, è bello, è un qualche cosa di completamente diverso, che cambia. Lavare i denti sembra una piccola cosa, eppure, ripeto, non è così semplice. Sembra che l'igiene orale, sia in ospedale che a casa, diventi irrilevante in questi pazienti anche se poi un alito pestilenziale allontana i visitatori, tiene lontani tutti. Fatto sta che se non si ha una visione per cui queste cose vanno affrontate perché importanti, non si fanno. Ora, le cure domiciliari si riescono a fare perché c'è un appoggio dei privati, della Fondazione Floriani, della Lega Nazionale dei Tumori, mentre da un punto di vista pubblico la situazione è più difficile perché i tagli alla sanità colpiscono quasi sempre queste fasce di confine. Per fortuna adesso ipazienti oncologici hanno i farmaci gratis, però quando i pazienti sono prossimi a morire, con una struttura pubblica c'è molto tempo da aspettare e per ogni cosa. Per esempio per ottenere un letto particolare o una carrozzina particolare ci vogliono dei mesi mentre al paziente sono rimasti da vivere solo 15giorni. E' evidente allora che sono necessarie strutture che ti permettano di avere in due giorni un letto a casa che possa servire per gli ultimi 15 giorni. Dare dignità a chi muore è un impegno che costa, perché alleviare un certo tipo di sofferenze, portare a casa determinate strutture, intervenire sui sintomi, impegna la famiglia, impegna i sanitari, impegna tutto il sistema sanitario. Lei prima ha detto che la terza scoperta che avete fatto è quella del contesto psicologico, sociale, familiare del dolore. Il dolore diventa una cosa molto complessa. Come affrontate questo La testata UNA CITTA' è di proprietà della cooperativa I Rosanna Ambrogetti, Paolo Bertozzi, Rodolfo Galeotti, I Redazione: Rosanna Ambrogetti, Marco Bellini, Fausto Fat Massimo Tesei, Gianni Saporetti (coordinatore). Col/aborat Giulia Apollonio, Giorgio Bacchin, Paolo Bertozzi, Patrizi Calderoni, Doiores David, Liana Gavelli, Marzio Malpezzi, G Rocco Ronchi, don Sergio Sala. Interviste: A Piergiorgio Bellocchio: Gianni Saporetti. A l Cosimo Scordato: Giorgio Calderoni e Massimo Tesei. A PiE A Giovanni Damiani: Marco Bellini. A Giovanni Da Ponte.~ Meiandri e Gianni Saporetti. A Maria Picotti:Gianni Saporetti. Disegni: di Stefano Ricci. Foto: di Fausto Fabbri. In coper1 tratta da La sovranità dell'individuo (AA. VV. - Piero Lacaita In copertina: Sarajevo, marzo '95. Grafica: "Casa Walder Questo numero è stato chiuso il 2 aprile '95. Abbonamento a 1Onumeri di UNA ( C.c. post. n.12405478 intest. a Coop. Redazione: p.za Dante 21, 47100 Fo1 A richiesta: copie saggio. UNA CITT A' è alle librerie Feltrinelli.

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